Omelia del Patriarca nella S. Messa per l’ordinazione presbiterale di don Pierpaolo Dal Corso (Venezia, Basilica di S. Marco - 20 giugno 2015)
20-06-2015
S. Messa per l’ordinazione presbiterale di don Pierpaolo Dal Corso
(Venezia, Basilica di S. Marco – 20 giugno 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi,
oggi la nostra Chiesa vive un momento di grande gioia perché riceve da Gesù, l’eterno sacerdote, il dono di un nuovo presbitero nella persona del diacono Pierpaolo. Un’ordinazione presbiterale non si può considerare solamente come un evento importante; sarebbe troppo poco. L’ordinazione presbiterale è, infatti, evento che genera novità.
La preghiera e l’imposizione delle mani da parte del vescovo – il solo che può compiere tale gesto in forza della pienezza del sacerdozio – cambiano la realtà profonda di chi viene ordinato il quale, dopo quelle parole e quel gesto, non è più quello di prima; è creatura nuova, totalmente a servizio di Gesù e dei fratelli.
La seconda lettura richiama proprio la novità cristiana, il battesimo, e il suo fondamento, ossia Gesù Cristo:  “…se uno è in Cristo – scrive infatti l’apostolo Paolo – è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). Su tale novità battesimale, poi, se ne daranno altre e una di queste è proprio il ministero ordinato nel grado del presbiterato.
Con l’imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione del vescovo, il battezzato sta così – in mezzo al suo popolo – come colui che serve, realizzando la presenza di Gesù Cristo sposo che, nello stesso tempo, sta nella Chiesa e di fronte alla Chiesa.
 Per questo, caro don Pierpaolo, oggi non sei solo ma ti sostiene l’intera Chiesa che è in Venezia e, in modo particolare, il presbiterio diocesano – il vescovo e i confratelli – con i diaconi, i consacrati e le consacrate e i fedeli. E non si tratta solo di affetto umano – che certamente c’è – ma di quell’affetto che nasce dalla comunione ecclesiale e che ha la sua origine nello stesso Gesù.
Così, caro don Pierpaolo, non sei tanto chiamato a “fare” il prete ma ad “essere” prete nel più intimo di te stesso. Non puoi, quindi, limitarti a compiere i gesti del prete.
Ciò che deve caratterizzare il tuo sacerdozio è innanzitutto il rapporto personale con Gesù e il legame col presbiterio (vescovo e confratelli); è necessario fuggire, in ogni modo, ogni atteggiamento funzionalista che nasce da una teologia monca e che, a sua volta, genera una spiritualità e una pastorale riduttive; inoltre, tale teologia, dal punto di vista biblico, è del tutto carente.
Alla teologia funzionalista si oppone quella simbolica, che guarda oltre il puro visibile e fruibile, rimandando ad un senso e ad una realtà che hanno valore e permangono oltre la storia. Il funzionalismo è, infine, l’esito di una mentalità che riduce tutto al solo fare, per cui il ministero del prete si riduce ai gesti e ai servizi forniti; in tal modo, il presbitero, presto, si estenua in quello che fa, senza vero fondamento teologico e spirituale.                                                                                              
 Ci si smarrisce nella sterilità di una vita, alla fine, autoreferenziale e che, per un certo tempo, sembra anche appagare ma, dopo poco, mostra tutta la sua insufficienza e genera scontento. Secondo tale logica, si finisce per estraniarsi dalla pastorale concreta e reale della Chiesa coltivando se stessi e il proprio campo d’elezione, i propri hobbies. Chi è dotato di sensus Ecclesiae, ossia di un vero e reale sentire ecclesiale, percepisce tutto questo.
La Chiesa – come sappiamo – è costituita dal popolo di Dio che esprime molte vocazioni e molti carismi; il prete è una di queste vocazioni ma, per la specificità e il rapporto peculiare che ha con la gente, incide profondamente. E questo avviene – Dio voglia sempre! –  nel bene.      
Caro don Pierpaolo, soffermiamoci sul Vangelo appena proclamato. Per il credente non esiste il caso; il caso, infatti, è la risposta di chi non crede. Per chi crede, invece, il cosmo – col suo ordine – postula un ordinatore, una nous-agape (senso-amore) capaci di senso; il Dio creatore e provvidente non dà spazio al caso ma al senso.
 Il Vangelo di questa dodicesima domenica del tempo ordinario è significativo e il messaggio che contiene è semplice: il Signore Gesù è presente nella vita della Chiesa e dei discepoli sempre, anche quando sembra averli abbandonati. Anche se il Signore pare “dormire in disparte” e sta infuriando la tempesta, in realtà, Egli vigila sempre sulla Chiesa che – prima d’esser nostra – è Sua; così, mentre i discepoli vivono nell’angoscia e nella tristezza e stanno per venir meno, Gesù, invece, è ben presente, è sveglio, è vigilante.
Il Vangelo è molto chiaro: “Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»” (Mc 4, 37-40).
Caro don Pierpaolo, in tutte le vicende della vita ritorna a questo episodio del Vangelo e riuscirai, così, ad illuminare il frangente più difficile; qui, la parola di Gesù è chiara, è netta e rimanda alla fede.
Caro don Pierpaolo, abbiamo detto che stiamo vivendo non solo un momento importante ma che segna una vera novità. Le persone che in un futuro, anche lontano, fruiranno del tuo ministero sacerdotale – fra dieci, venti o trent’anni -, oggi sono presenti qui fra noi, in modo realissimo, anche se non fisicamente.
Le parole della consacrazione eucaristica, le parole del sacramento della riconciliazione, le parole del sacramento dell’unzione dei malati, insieme alla grazia che le accompagneranno, insieme a tutti i gesti del ministero, dipendono proprio da quanto accade qui, oggi.
La Chiesa non è mai di un momento o di qualcuno ma è sempre la Chiesa di Gesù Cristo. Nel momento dell’ordinazione si percepisce così, ad un tempo, l’impotenza e la fragilità dell’uomo; nel momento in cui riceviamo il dono/potere di Gesù Cristo, sommo ed eterno sacerdote, avvertiamo come qualcosa che non è nostro – ossia non è esito di sforzi umani – ci è dato come dono gratuito. In questo consiste il sacramento dell’ordine che oggi ti viene donato, carissimo don Pierpaolo; si tratta di un dono affidato a te per il bene del popolo a cui sei mandato. Sì, è un dono a te conferito da Gesù, sommo ed eterno sacerdote, per il bene della tua gente.
Oggi vieni rivestito di un dono, di un’autorità e di un potere che sono realmente tali. Dono, potere e autorità che derivano dalla misericordia di Dio e che chiedono d’esser esercitati secondo la misericordia di Dio, ossia secondo giustizia, verità, amore e compassione verso chi desidera realmente convertirsi a Dio. Non è, quindi, vera umiltà negare l’esistenza di tale dono, potere e autorità; al contrario, è carenza di fede e di gratitudine nei confronti di Dio che ci vuole suoi collaboratori liberi, grati e gioiosi.
La testimonianza pasquale del Cristo risorto, prima dell’Ascensione, va esattamente in questa direzione, ovvero un potere reale che Gesù stesso dà alla sua Chiesa:  “…«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Mt 28,18-20).
Si tratta, allora, d’esser capaci di quella umiltà evangelica che in Maria di Nazareth  trova la sua forma più alta. Il Magnificat diventa una lezione di vita valida sino alla fine dei tempi. Maria, senza falsi timori e umiltà, riconosce in sé il dono di Dio: “…ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome;di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono” (Lc 1, 48-50).
Vogliamo semplicemente dire che il potere nella Chiesa è per il servizio, che il “peculiare” servizio del prete suppone il potere di Cristo risorto e che il potere della Chiesa si esercita solo nella carità a servizio delle anime e dei corpi, non solo delle anime e non solo dei corpi.
Non si tratta, allora, di negare il potere donato ma, piuttosto, di esercitarlo come Gesù ci chiede. E allora, caro don Pierpaolo, guarda a Lui ogni giorno, ritagliandoti  spazi di preghiera per non doverti riscoprire come un assistente sociale, come un intellettuale o come chi si estranea dalla vita pastorale concreta, riducendosi a coltivare i propri hobbies.
Nella Chiesa dobbiamo occupare il posto di Gesù, che è l’ultimo: la croce. Si tratta, allora, di rifiutare ogni messianismo umano e ogni potenza che, di fatto, riduce il benessere complessivo dell’uomo – che è fatto di spirito, anima, corpo (cfr. 1Ts 5, 23) – a quello materiale; chi è attirato e catturato dal potere del denaro, della notorietà, dell’autoreferenzialità pone al centro se stesso e non Gesù Cristo.  No, dunque, ad ogni tipo di messianismo terreno: il messianismo delle pietre che diventano pane, il messianismo del potere mondano, il messianismo della notorietà che cerca il plauso della folla.
Tutti questi messianismi, alla fine, non vogliono riconoscere il male che è presente nella storia degli uomini; non lo vogliono vedere e, così, mentre ne negano la consistenza, privano anche della possibilità di annunciare la salvezza. Il rifiuto di  riconoscere il male, chiamandolo col suo nome, nasce dal fatto di ricercare il plauso del mondo che verrebbe negato se, con coraggio, si chiamasse il male “male” e il peccato “peccato”. In tutte le sue forme, a partire dalla corruzione.
La Chiesa – come ricorda spesso Papa Francesco – deve vigilare su di sé per non ritrovarsi, a sua volta, mondanizzata. Se, infatti, accettiamo d’inchinarci al mondo e alle sue leggi, scopriremo d’avere – nel mondo e nei suoi poteri -, preziosissimi alleati che ci apriranno quasi tutte le porte ma non la principale: Gesù. Ma ciò vuol dire aver già rinnegato Gesù Cristo e il suo Vangelo.
Nelle pietre che diventano pane, nel potere dei regni del mondo e nei gesti che ci conferiscono celebrità riconosciamo le tentazioni che Gesù affronta all’inizio della sua vita pubblica (cfr. Mt 4, 1-11). Sono le tentazioni che si presenteranno, di volta in volta, nella vita di ogni discepolo e anche del prete; sono le tentazioni di cui Gesù vuole liberarsi subito, già all’inizio della vita pubblica, e che rinascono all’interno della vita della Chiesa.
L’apostolo Pietro voleva, infatti, impedire a Gesù di salire in croce e Gesù gli risponderà, senza indugi, e in un modo tale che è difficile immaginarne uno più duro:  «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23).    
Carissimo don Pierpaolo, nel tuo ministero riserva ogni giorno, con fedeltà, uno spazio particolare agli ultimi, ai piccoli, a coloro che sono poveri nel corpo e anche nello spirito. In te vedano sempre un padre autorevole, un amico fedele, un testimone che non fa sconti. Ricava sempre dall’incontro quotidiano con Gesù Eucaristia la forza per vivere la giornata in modo degno della grazia che oggi ricevi.
Ti affido, insieme a tutto il presbiterio della Chiesa che è in Venezia, alla Madre dell’unico ed eterno sacerdote, il Signore Gesù. E ricavo l’augurio dalla liturgia di ordinazione quando sarai unto col sacro crisma e ti verrà detto: “Il Signore Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti custodisca per la santificazione del suo popolo e per l’offerta del sacrificio” (Pontificale Romano, Ordinazione del Vescovo, dei Presbiteri e dei Diaconi, pag. 198).
Sì, carissimo don Pierpaolo, Gesù – che il Padre ha consacrato con lo Spirito Santo – ti custodisca per santificare il popolo che ti verrà affidato e per presiedere la Santissima Eucaristia. Coraggio! Tutta la Chiesa prega e ti sostiene con animo grato al Dio della misericordia.
Prima della benedizione finale il Patriarca è di nuovo intervenuto brevemente:
Ringraziamo Dio che ci ama non a parole, ma con i fatti. Ed oggi ha amato la Chiesa di Venezia donandole don Pierpaolo, presbitero. Caro don Pierpaolo, con te ringraziamo il Signore ma vogliamo anche ringraziare coloro attraverso i quali la grazia del Signore ti ha portato a questa scelta: i tuoi genitori, la tua famiglia, la comunità parrocchiale dove sei cresciuto ed hai imparato – giorno dopo giorno – ad amare il Signore, i preti che sono sempre significativi (Dio voglia in bene!) nella vita di altri preti, la comunità del Seminario e i preti che ti hanno indirizzato, guidato e incoraggiato. Ringraziamo il Signore, ti affidiamo e ci affidiamo alla Vergine Nicopeia. Che ci aiuti a vincere l’unica battaglia degna di questo nome: la battaglia della fede e dell’amore in Gesù Cristo. Questo è il nostro augurio! E con te vogliamo ringraziare l’unico ed eterno sacerdote, Gesù Cristo.