S. Messa per l’ordinazione presbiterale di don Gianluca Fabbian
(Venezia, Basilica di S. Marco – 7 aprile 2018)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle,
questo è un momento di grazia per la Chiesa che è in Venezia. Sta, infatti, per ricevere il dono di un novello sacerdote. Ancora una volta, quindi, siamo esauditi dal Padre che è nei cieli; Gesù, nel Vangelo, ci ricorda che il dono di un nuovo operaio è sempre il frutto della preghiera dei discepoli rivolta con fede al Padrone della messe.
Carissimo don Gianluca, sei circondato da mamma Antonella e papà Fabrizio, da tuo fratello Alberto, dai tuoi familiari e dalle comunità in cui sei cresciuto nella fede. Sei, soprattutto, circondato dai tuoi nuovi confratelli: i presbiteri. Entri a far parte del presbiterio. E ti ricordo che il sacerdozio è risposta personale nella Chiesa; il sacerdozio si condivide con i confratelli e si riceve dal Vescovo.
Il mistero della Chiesa! Ti incontrerai e scontrerai con l’umanità degli uomini e delle donne di Chiesa. Dalla loro umanità sarai sostenuto e, qualche volta, sarai messo in difficoltà. Ricordati che sei il prete di tutti. Di tutti, non di qualcuno.
La liturgia del sabato dell’ottava di Pasqua fa da contesto alla tua ordinazione e le letture di oggi bene esprimono lo spirito di questo tempo. Nella prima lettura troviamo gli apostoli Pietro e Giovanni che – fedeli al mandato ricevuto (non dicono qualcosa di proprio o di originale) – si spendono senza risparmiarsi nell’annuncio gioioso e scomodo del Vangelo, ovvero la buona notizia della risurrezione di Gesù che, messo a morte ingiustamente, come aveva preannunciato è risorto, ha vinto la morte e, di nuovo, è stato davvero visto vivo. E questa è una notizia scomoda.
Sarà proprio Pietro, in casa di Cornelio, a ricordare che l’annuncio della risurrezione è stato affidato a testimoni prestabiliti e non a tutto il popolo: «…noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio» (At 10, 39-42).
Pietro e Giovanni fanno parte del gruppo dei Dodici, scelti da Gesù (come tu sei stato scelto). E, inoltre, Pietro e Giovanni sono i due apostoli che – insieme a Giacomo – Gesù aveva unito più strettamente a sé; pensiamo, per esempio, alla trasfigurazione e all’orazione nell’orto degli ulivi. Il presbitero appartiene al ministero apostolico; è colui che condivide più da vicino.
Così Pietro e Giovanni fanno parte della cerchia degli amici più intimi di Gesù e sono uniti a Lui con un legame preferenziale: Giovanni è l’apostolo “che Gesù amava” (cfr. Gv 13,23; 21,7), Pietro è l’apostolo al quale Gesù aveva chiesto per ben tre volte se lo amava (cfr. Gv 21, 15-17). La Chiesa delle origini si fonda sulla testimonianza di questi uomini; l’apostolicità della Chiesa si manifesta proprio nel loro servizio, come appare con chiarezza nel Nuovo Testamento.
Dalla prima lettura di oggi notiamo come Pietro e Giovanni si oppongano, a viso aperto, al Sinedrio che aveva loro ingiunto di non predicare nel nome di Gesù Cristo. Ma essi rispondono con grande libertà e forza: «”Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”. Quelli allora, dopo averli ulteriormente minacciati, non trovando in che modo poterli punire, li lasciarono andare a causa del popolo, perché tutti glorificavano Dio per l’accaduto» (At 4, 19-21). Il Vangelo è un notizia gioiosa e scomoda, il Vangelo è una memoria pericolosa per il mondo.
Attraverso l’azione di Pietro, di Giovanni e degli altri apostoli, vediamo che il ministero ordinato è all’origine della Chiesa che si caratterizza come “apostolica” poiché gli apostoli sono mandati da Gesù. Il Vangelo riprende lo stesso tema, affermando che gli apostoli sono le guide della Chiesa fin dall’origine; senza dubbio, la comunità primitiva si caratterizza come “apostolica” – mandata / inviata – e, quindi, “testimoniale” e “tradizionale”.
Ritroviamo tale triplice caratteristica – apostolica, testimoniale e tradizionale – in Paolo, a proposito della risurrezione (cfr. 1Cor 11,23) e dell’eucaristia (cfr. 1Cor 15,3). In entrambi i casi l’Apostolo usa la medesima espressione che, evidentemente, fa parte del linguaggio ecclesiale e indica una consolidata prassi: “Vi ho trasmesso quello che, a mia volta, ho ricevuto”.
Così saranno proprio gli Undici – attendendo che si ristabilisca il numero iniziale dei Dodici – a ricevere, da Gesù risorto, il mandato missionario. E l’evangelista Marco, con il suo stile essenziale, afferma: «…apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto. E disse loro: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”» (Mc 16, 14-15). La notizia scomoda e gioiosa del Vangelo.
Ciò che costituisce tali gli Apostoli – come dice il nome – è il mandato ricevuto da Gesù; i Dodici sono gli inviati che dovranno annunciare semplicemente il Vangelo.
Carissimo don Gianluca, mentre stai per essere ordinato prete ed entri così a far parte del secondo grado del ministero ordinato, devi chiederti: io amo il Signore? Lo amo veramente? Cosa saprei sacrificare per Lui e la sua Chiesa (molte volte troppo umana, ma è sua e l’ha voluta così…)? Tale domanda non si pone in modo retorico ma reale; la devi porre alla tua vita, ti deve scavare dentro e comporta l’andar oltre gusti e preferenze personali.
Si fa parte della Chiesa attraverso la Chiesa particolare; tutto, quindi, deve esprimere la comunione con la Chiesa diocesana e col Vescovo, come ricorda anche Papa Francesco nell’Evangelii gaudium (cfr. n. 30).
Il sacerdote ordinato è chiamato, in modo particolare, ad amare Gesù non fermandosi ai criteri del mondo; è Gesù che ha messo in guardia i discepoli da questo limite: «…se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? (…) E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?» (Mt 5, 46-47).
L’amore cristiano va ben oltre le simpatie e le antipatie umane – che sono la gabbia di un uomo e di una donna -, oltre la sintonia del carattere, il sorriso di circostanza, l’osservanza del galateo.
I discepoli del Signore – e, in modo particolare, chi è costituito nel sacramento dell’ordine – sono chiamati ad essere segni visibili di Gesù Cristo-capo (cioè servitore) in mezzo ai fratelli, pronti ad amare con tutta la loro persona, ossia con intelligenza (anche facendo un’omelia che interessa alla gente), con volontà (anche quando è difficile amare), con memoria (essere riconoscenti – la gratitudine – è la forma dell’amore nel tempo) e con sentimento.
Il loro amore deve essere “cattolico”, ossia aperto a tutto e tutti, che non esclude nulla e nessuno. Quando si incomincia a dire: amo tutti, eccetto chi ha la pelle diversa dal mio colore… non si ama nessuno! E gli esempi potrebbero continuare… “Cattolico” vuol dire “universale” – secondo il tutto -; non esclude nulla, accoglie e comprende tutti. Banco di prova dell’amore per ogni discepolo – in primis per il ministro ordinato – è sia non escludere alcuno, sia non ridurre i contenuti dell’amore.
Che cosa significa, concretamente? Amare chi appartiene al proprio popolo e chi non vi appartiene, saper stare col ricco e col povero, con il dotto e con l’ignorante, frequentare la persona umanamente simpatica e quella antipatica, accogliere chi è dotato e chi non lo è… E la lista delle esemplificazioni non è finita. Ma giova sottolineare come nella cattolicità dell’amore cristiano devono entrare non solo le persone ma anche i diversi ambiti e modi in cui si esprime l’amore, non escludendo alcuna dimensione dell’uomo.
Consideriamo, per esempio, le opere di misericordia. Non si possono sceglierne alcune a scapito di altre; non posso praticare solo quelle che sono più in sintonia col mio temperamento, la mia storia, la mia formazione o che rispondono di più al mio modo intimo di sentire la pastorale. Il riferimento diocesano ti aiuterà in questo. E l’apostolo Paolo, poi, indica un modo secondo cui esercitare il ministero, ossia farsi “tutto per tutti” (cfr. 1Cor 9,19-23).
Ogni battezzato – e ogni ministro ordinato in particolare – deve vigilare sulla sua persona e realizzare tale dono di sé sapendo andar oltre se stesso. Non basta donare se stessi, bisogna donare se stessi andare oltre se stessi!
In altri termini, nel suo impegno pastorale, deve sentirsi chiamato in causa sia dalle necessità materiali sia spirituali del prossimo, ovvero procurare il cibo, il vestito, l’alloggio e prendersi cura dei malati, dei carcerati ma anche – cosa ancor più difficile, non meno urgente e che non di rado si dimentica… – consigliare, insegnare, ammonire i fratelli (correzione fraterna) e poi consolare, perdonare, sopportare e pregare per i vivi e i morti. Sì, le opere di misericordia vanno abbracciate tutte, senza esclusioni e senza dare spazio a criteri ideologici; ci ricordano che il bene non lo stabiliamo noi, secondo i nostri gusti e le nostre propensioni.
Il bene è, piuttosto, qualcosa che precede noi e i nostri gusti e che dobbiamo saper riconoscere e scegliere. Sì, il bene va riconosciuto, scelto e compiuto a 360°; ci obbliga a uscire dal nostro io, dal nostro particolare, dal nostro individualismo.
Tutti, in modo indistinto, dobbiamo vigilare sulle nostre scelte per evitare riduzioni indebite che costringono la pastorale a scelte – per esempio – di tipo psicologico o sociologico o di tipo intellettualistico o liturgico. Il prete non può tirarsi indietro quando è chiamato ma deve guardarsi dal ridurre il suo ministero a gesti unilaterali che potrebbero anche giungere a snaturare il suo ministero.
Il prete – proprio perché fratello, amico e padre di tutti – non ridurrà mai il ministero a frasi o gesti parziali che, alla fine, invece di dire o dare Gesù agli uomini e alle donne a cui è mandato, finiscono per consegnarli a loro stessi, attraverso l’esercizio parziale del ministero.
La gioia del prete sta nella certezza di non aver affermato se stesso o portato avanti i propri progetti, ma nell’aver sempre desiderato di cooperare col Signore e il suo Vangelo attraverso un ministero che si dispiega secondo la totalità di quanto Gesù ha voluto donare alla sua Chiesa col sacramento dell’ordine vissuto – come detto – in modo “cattolico” (aperto a tutti), con forte e gioiosa motivazione.
Caro don Gianluca, la Vergine Madre di Cristo – eterno sacerdote – e tua affettuosissima Madre, presenza costante, discreta e affettuosissima nella vita dei discepoli (e lo scoprirai sempre di più se, come l’apostolo Giovanni, la accoglierai nella tua casa), accompagni il tuo ministero che oggi – primo sabato del mese – ha il suo inizio affinché il tuo sacerdozio sia sempre gioiosa, responsabile e sincera offerta gradita a Dio, l’unico Padrone della messe, l’unico Padre che ci guarda dai cieli!
Al termine della Messa, poco prima della benedizione finale, il Patriarca ha aggiunto:
Caro don Gianluca,
oggi abbiamo toccato con mano il fine dell’essere Chiesa, la santità. Tutto il resto può essere anche solo commento (qualche volta inutile) a questa affermazione di fondo: «Siate santi come io sono santo».
I tuoi amici cercali intorno a te, cercali nelle persone vere e semplici. I poveri: sono sacramento di Cristo, sono verifica del tuo sacerdozio. I confratelli, che hanno più esperienza di te e che hanno testimoniato – in modo, magari, eroico e nascosto – il loro sacerdozio, che nano delle ferite. Guardali con stima e affetto.
Vivi il sacramento dell’ordine come dono, come responsabilità, come gioia! Annuncia che è bello essere preti, anche se alla sera arrivi stanco, anche se ti sembra di non essere stato capito in quella giornata. La gioia del Signore!
Al momento dell’abbraccio ti ho detto che potrai contare sempre sul tuo Vescovo. Non è uomo perfetto né un sacerdote perfetto; forse è anche minore nella santità di tanti confratelli, ma ti è dato come Vescovo per il tempo che ti è donato. Anche lui è un segno e un sacramento dell’incontro di Cristo con te e con la tua comunità.
Ama il tuo popolo. Guarda alla Vergine santissima come alla prima discepola e alla prima annunciatrice del Vangelo.