Omelia del Patriarca nella S. Messa per l’ordinazione presbiterale di don Francesco Andrighetti e don Steven Ruzza (Venezia, Basilica di S. Marco – 23 giugno 2018)
23-06-2018

S. Messa per l’ordinazione presbiterale di

don Francesco Andrighetti e don Steven Ruzza

(Venezia, Basilica di S. Marco – 23 giugno 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

oggi la Chiesa che è in Venezia riceve il dono di due sacerdoti; è un momento di gioia e di speranza. La gratitudine verso Dio Padre – il celeste Padrone della messe – è grande, perché continua a donare operai per la Sua messe.

Questi operai, oggi, assumono i volti di don Francesco e don Steven; sono volti giovani e anche di questo ringraziamo il Signore perché è bello potergli offrire le primizie. Il nostro grazie va a tutti coloro che li hanno accompagnato e aiutati in questo cammino, a quanti hanno pregato per loro, ai formatori del Seminario ma prima ancora alle comunità di provenienza, ai loro preti, alle loro famiglie.

E ricordo a quanti li hanno sostenuti e incoraggiati – anche con piccoli gesti – che tutto ciò che hanno fatto è scritto, per l’eternità, in cielo, nel libro di Dio, ove l’inchiostro non scolora e le pagine – a differenza dei libri degli uomini – non sgualciscono.

Ad assicurarci di ciò sono le stesse parole di Gesù nel Vangelo di Matteo: ”Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (Mt 10,42).

Carissimi seminaristi, mi rivolgo ora a voi: gli aiuti, le attenzioni, i piccoli gesti di vicinanza che ricevete negli anni così importanti della vostra formazione, vi plasmano umanamente – e il prete è, prima di tutto, un uomo – e rendono il vostro sacerdozio più ricco, più vero, più generoso. La formazione è fatta da mille piccole cose e il sacerdote che un giorno sarete è anche esito di queste minime attenzioni e gesti dei vostri genitori, dei vostri parroci, delle vostre catechiste e catechisti, dei vostri educatori e delle comunità che vi hanno cresciuto nella fede.

Carissimi Francesco e Steven, il Vangelo appena proclamato dal diacono è l’annuncio di Dio Padre che provvede a tutti i suoi figli. Sì, proprio questo Vangelo – e non un altro – è risuonato durante l’Eucaristia della vostra ordinazione.

E per il discepolo del Signore – lo sapete bene – il caso non esiste. Si tratta di un’affermazione pacifica, se vogliamo scontata, ma proprio le affermazioni pacifiche e scontate chiedono – anche pastoralmente – d’esser ribadite e ripetute. Infatti, ciò che è ovvio, pacifico, scontato finisce per rimanere sullo sfondo, si appanna e non incide più nel vissuto perché – appunto – è cosa ovvia, pacifica, scontata.

Carissimi, la fede nella Divina Provvidenza dovrà, quindi, plasmare di più il vostro sacerdozio; dovrà, in ogni frangente, illuminare il cammino che oggi ha inizio e terminerà solo – quando Dio lo vorrà – al concludersi della vostra vita terrena.

Sacerdote in eterno, ma il ministero si esercita nel breve spazio della vita. E ognuno di noi – parlo per me, innanzitutto – potrebbe essere arrivato all’undicesima ora della sua giornata lavorativa nella vigna del Signore.

Vi invito, allora, a conservare nel vostro breviario – libro prezioso, dopo la Sacra Scrittura e prima dei libri di studio – una copia di questa pericope del Vangelo di Matteo; il Vangelo, infatti, è il vero aggiornamento della vita del discepolo, del prete, del vescovo. Il breviario è – per noi preti – il libro della preghiera quotidiana, la preghiera che ogni giorno, più volte, innalziamo a Dio a nome della Chiesa, per la Chiesa, per il mondo e per le differenti periferie esistenziali.

Allora, posando lo sguardo su questa pericope, vi ricorderete della vostra ordinazione in cui non per vostra scelta – nulla è casuale – il Signore ha voluto consegnarvi questo annuncio: «Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6, 31-34).

Carissimi, la Divina Provvidenza chiama; chiama sempre, chiama ogni uomo e ogni donna, chiama i giovani e gli anziani, i malati e i sani, i poveri e i cosiddetti benestanti. La vocazione è di ogni uomo e di ogni donna ed è un mistero; Dio, in modo inspiegabile, ma realissimo, si rivolge ad ogni essere umano.

Si tratta, allora, di rispondere a Dio ma, prima di tutto, è necessario essere in grado di ascoltare la sua voce. E può accadere di non riuscire a coglierla tra le tante che sussurrano o gridano attorno a noi, anche attorno al prete. Come possiamo fare per sentire, tra le tante voci, quella del Signore e, poi, come possiamo farla nostra e, infine, come possiamo rimanervi fedeli?

Se guardiamo i protagonisti della storia della salvezza, vediamo che quando rimangono fedeli all’Alleanza – al Dio giusto e fedele, che è giusto perché rende giustizia salvando – aprendosi al progetto di Dio, non vengono meno, anzi, si affermano. Ma se perseguono il loro progetto (Sansone, Saul, lo stesso popolo d’Israele), allora, tutto crolla ed essi vengono meno.

La fedeltà all’Alleanza, il non aver altro Dio al di fuori del Dio d’Israele, non significa soltanto non adorare altri dei – potrebbe, per noi, essere facile… – ma significa, anche, non rivolgersi ad allettanti e comode protezioni umane, iniziando dal nostro cuore mondanizzato; si tratta di non cadere in una mondana sudditanza. Antico e Nuovo Testamento ci mettono in guardia!

Cogliamo la voce di Dio nella nostra vita e le rimaniamo fedeli se non ricerchiamo noi stessi, se non imponiamo il nostro io ma ricerchiamo la sapienza di Dio, il Suo progetto, e ci chiediamo che parte abbiamo in esso.

In tal modo, la vocazione vissuta come adesione al progetto di Dio richiede un cuore libero e, poi, il senso vero della povertà – che non è la recita del pauperismo! – considerata non solo come distacco dalle persone, dalle situazioni e dalle cose, ma come distacco da se stessi. La vera e prima povertà, quindi, è il distacco da me stesso; ecco il senso e il fondamento dell’obbedienza che, se non ha qui il suo forte radicamento, si limiterà allora ad eseguire le richieste che assolveremo come qualsiasi persona che si inserisca in un ordine stabilmente riconosciuto e che, in qualche modo, va rispettato. Sarebbe un’obbedienza da caserma o collegio, non ancora l’obbedienza del Vangelo!

All’origine della chiamata al sacerdozio ministeriale – lo sappiamo – c’è solo Dio, il Padre, la Sua infinita misericordia. E quindi non siamo chiamati a eseguire degli ordini ma piuttosto, attraverso l’esercizio del ministero (gli atti che gli sono propri), a rendere presente Gesù, eterno Figlio del Padre e sommo Sacerdote. Ogni sacerdote è, infatti, chiamato ad agere in persona Christi capitis (in persona di Cristo capo) e, così, a servire Dio e i fratelli.

Alla triplice domanda che Gesù rivolge a Pietro per chiedere se sia disposto a seguirlo in un amore più esigente degli altri – domanda che Gesù rivolge a voi oggi -, l’Apostolo risponde: «Signore, tu conosci tutto (tu sai che sono un pover’uomo, ti ho anche rinnegato…); tu sai che ti voglio bene». E Gesù, allora, per tre volte gli ingiunge: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17).

Per il pastore – il ministro ordinato – non si dà altro modo di amare Gesù se non compiendo il servizio proprio del pastore, ossia pascere il gregge affidato. La carità pastorale non è dire un rosario in più – che, pure, è cosa meritevole – e non è organizzare un Grest – che, pure, vi esorto a fare e a fare al meglio -; amare il Signore vuol dire prendersi cura della gente a cui si è mandati come lo farebbe Gesù.

Il prete è uomo che ama e che crede: crede amando e ama credendo. Il ministero sacerdotale, che ha origine apostolica, si fonda sull’amore per Gesù ma anche sulla fede in Lui; infatti, Gesù – dopo la triplice attestazione d’amore -, affida il gregge a Pietro, l’Apostolo che a Cesarea di Filippo aveva confessato ciò che la Chiesa, di ogni tempo, dovrà sempre professare: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

Scegliere Gesù: oggi dovete fare questo, dovete decidere di amarlo e credere in Lui. La scelta per Gesù – la Sapienza e l’Onnipotenza del Padre – è scelta d’amore e di fede che si manifestano nella debolezza di una carne umana come fu per Pietro, sostenuto però dal Padre che è nei cieli.

La fede e l’amore vengono prima di ogni calcolo e considerazione umana o pastorale, sono il criterio fondante ogni scelta successiva; è il criterio che troviamo lungo tutta la storia della salvezza. L’impossibilità ad accogliere in se stessi i progetti del Signore la sperimentiamo in modo triste e drammatico se non riusciamo ad amarLo e a credere in Lui, se il nostro cuore è concentrato nell’affermare se stesso.

Sant’Ambrogio, a proposito del sacerdozio e riferendosi ad Aronne, scriveva queste parole che oggi vi consegno: “…non la candidatura dovuta all’iniziativa personale né la propria presa di possesso, ma la chiamata celeste, così che possa offrire i sacrifici per i peccati, chi sia nella condizioni di soffrire per i peccatori… uno non deve accettare una carica per il proprio interesse, ma essere chiamato da Dio come anche Aronne; così anche Cristo non pretese, ma ricevette il sacerdozio” (Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera, Lettera f.c. 14(63),48-49).

Anche voi oggi ricevete il presbiterati e lo ricevete proprio perché non lo avete preteso. E nel momento in cui lo vivrete non come possesso, il dono del sacerdozio si arricchirà in voi. E questa non è una cosa scontata!

Se poi consideriamo il modo inusuale dell’elezione a vescovo di Ambrogio, allora le parole rivestono un significato particolare poiché, in quella circostanza, Ambrogio toccò con mano come il sacerdozio è puro dono di Dio al quale l’uomo è solamente chiamato e non può / non deve avanzare alcuna pretesa.

Carissimo don Francesco, carissimo don Steven, questa convinzione entri in voi e plasmi il vostro sacerdozio, così che mai vi impossessiate di un ufficio, qualunque esso sia (parrocchiale o diocesano); allora, in voi, il presbiterato sarà quel servizio che oggi, con gioia, vi viene affidato per l’imposizione delle mani del Vescovo.

Ogni sera vi auguro di arrivare stanchi ma avendo amato un po’ di più il Signore, avendo creduto un po’ di più in Lui e così dicendo “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).

La Madre dell’eterno Sacerdote – che, per grazia, è spazio di pura accoglienza dello Spirito – sia la Stella del vostro cammino che oggi inizia e in cui non siete soli; troverete sempre il vescovo e tanti confratelli, con qualche ferita, qualche stanchezza o acciacco dell’età ma che hanno detto, prima di voi, in verità e sincerità: tutto quello che abbiamo fatto, lo abbia fatto nel tuo nome e ci sentiamo “servi inutili”, felici di questa inutilità evangelica.

La Vergine Santissima sia la Stella del vostro cammino e del vostro sacerdozio, dono fatto a voi a questa Chiesa.

 

 

Al termine della Messa, prima di impartire la benedizione finale,

il Patriarca ha infine aggiunto:

 

Carissimi don Francesco e don Steven, con voi voglio ringraziare il Signore per alcune cose. Prima di tutto per i confratelli. La liturgia è la prima catechesi e la loro numerosa presenza ha detto al popolo di Dio che il sacerdozio è unico, vissuto in modo personale e mai “individualmente”.

Pensiamo al gesto protrattosi a lungo, solenne e commovente dell’imposizione delle mani da parte dei vostri confratelli: a differenza dell’imposizione delle mani da parte del vescovo che “dà” il sacerdozio, è il segno di una comunione, di una condivisione, di uno stare insieme, nel presbiterio diocesano sotto la guida del vescovo, guardando all’unico sacerdote che è Cristo.

Le collaborazioni pastorali devono educare noi preti e anche il popolo di Dio a questa unità del sacerdozio. Grazie della vostra presenza numerosa e – immagino – non scontata a causa degli impegni delle parrocchie in questo tempo.

Carissimi don Francesco e don Steven, vi chiedo di adottare un povero! Mantenetelo, anche se lui non sa chi voi siete… Portate quotidianamente, mensilmente, questo segno concreto di carità nella vostra vita. Le opere di misericordia, corporali e spirituali, siano non solo predicate ma praticate nelle vostre chiese, canoniche e nelle vostre convivenze sacerdotali. Abbiamo bisogno di riscoprire il sacerdozio di Cristo in modo nuovo, ossia, semplicemente ritornando al Vangelo.

Desidero ringraziare chi vi ha accompagnato in questi anni; ricordo in particolare i due rettori – don Fabrizio che vi ha presi in quarta Teologia e don Lucio che vi ha accolti nei primi anni di discernimento – e il padre spirituale don Giacinto, i due confessori don Antonio e padre Danilo, insieme a tutti coloro che – come ricordavo nell’omelia – vi hanno dato (in senso metaforico) anche un solo bicchiere d’acqua perché siete discepoli del Signore.

Le cose vanno fatte al momento opportuno; cerchiamo di cogliere la grazia di Dio come grazia del momento presente. E questa sia la cifra del vostro sacerdozio.