Omelia del Patriarca nella S. Messa per l’ordinazione diaconale di Giovanni Carnio, Gianpiero Giromella, Riccardo Redigolo e Marco Zane (Venezia, Basilica di S. Marco – 14 ottobre 2018)

14-10-2018

S. Messa per l’ordinazione diaconale di Giovanni Carnio, Gianpiero Giromella, Riccardo Redigolo e Marco Zane

(Venezia, Basilica di S. Marco – 14 ottobre 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Un cordiale saluto a tutti e in particolare a voi, carissimi futuri diaconi.

Abbiamo appena ascoltato il Vangelo del “giovane ricco”, una pagina che sempre colpisce perché chiede a tutti di interrogarsi: quanto di questo “giovane ricco” è in me?

Tale domanda è valida per tutti, poiché l’animus del “giovane ricco” può appartenere ai vescovi, ai preti, ai diaconi, agli sposati, ai giovani, agli anziani, ai benestanti, agli indigenti. Sì, può appartenere a tutti.

Carissimi Giovanni, Giampiero, Riccardo e Marco, ora mi rivolgo direttamente a voi, poiché l’episodio evangelico vi chiama in causa in modo particolare.

Voi, più o meno, avete la stessa età di quel giovane e, oggi, il Signore vi rivolge la stessa domanda che duemila anni fa pose a lui. Oggi, di fronte a Dio e alla Chiesa, vi impegnate a seguire Gesù per tutta la vita, nell’obbedienza, nel celibato, ossia, nella piena castità.

Ma, a differenza del “giovane ricco”, vi apprestate a dire il sì che lui non ebbe la forza di dire. Non è un sì improvvisato, ma preparato attraverso anni di cammino.

Chi ha curato la vostra preparazione ha prima di tutto pregato a lungo per voi e con voi, ha diviso con voi la vita nel Seminario, vi ha incontrati personalmente, vi ha messo alla prova, soprattutto vi ha voluto bene, cercando il vostro bene e dicendovi la verità anche quando questa poteva essere scomoda. E con alcuni si è poi convenuto che la loro strada era un’altra.

Chi ha curato la vostra formazione ci ha messo tutto se stesso per aiutarvi a fare un saggio e reale discernimento. E alla fine come abbiamo sentito, per voce del Rettore, ha dato il suo assenso e, potremmo dire, ha messo la sua firma, garantendo per quanto è umanamente possibile garantire per un’altra persona in base alla certezza morale. Non si è nascosto dietro l’anonimato, che dice molto di chi fa tale scelta.

Carissimi, Giovanni, Giampiero, Riccardo e Marco, il Vangelo ci ha detto che “Gesù fissò lo sguardo su [quel giovane], lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni” (Mc 10,21-22).

Il Vangelo avverte, in modo chiaro, che non è possibile seguire Gesù se prima non ci liberiamo da ciò che ingombra le mani e, soprattutto, il cuore. Sì, prima delle mani che, ovviamente, devono essere comunque liberate da inutili fardelli, dobbiamo rendere libero il cuore da quello che distoglie, costringe o attrae distraendoci da Lui; non si tratta solo di cose ma, anche, di situazioni e persone.

Tale liberazione avviene sotto l’azione dello Spirito Santo e non è cosa facile, né è cosa di poco conto. Al contrario, è la scelta che va presa subito, che si deve avere il coraggio di assumere appena si entra nel ministero ordinato che per voi – diaconi “transeunti” – è, esattamente, il diaconato in vista del presbiterato.

Liberarsi da ciò che impedisce di procedere verso il Signore vuol dire incominciare a vivere fin da oggi il fine – o senso – della vita. Non è detto che la fine della vita coincida col raggiungimento del fine della vita quando, obbligatoriamente, saremo costretti a lasciare tutto.

Il ministro ordinato deve essere persona libera e questa libertà non si misura sui discorsi o sulle parole ma sulla fedeltà alla vita che il ministero richiede, incominciando dalla vita ecclesiale vissuta in comunione col vescovo, col presbiterio, con la Chiesa diocesana; oggi come diaconi e domani come presbiteri.

La scelta di fronte alla quale Gesù pone il “giovane ricco” – e oggi ciascuno di voi – non porta, quindi, a donare alcune cose ma ad entrare in un nuovo spazio di libertà, in altri termini a prepararsi al dono di sé, vivendo realmente la vita ecclesiale che ha appuntamenti e momenti comuni, in cui si manifesta la vera ecclesialità. L’impegno dell’obbedienza richiede questo animo disponibile.

Carissimi, abbiate il coraggio di compiere subito, all’inizio del vostro ministero, tale scelta di libertà in modo tale che ogni scelta successiva sia verifica – ossia renda “vera” – di questa scelta fondamentale che plasma e orienta ogni altra scelta.

La Chiesa, come dice il Vangelo, non è propriamente né dei poveri né dei ricchi; è di Gesù Cristo. E sia i poveri sia i ricchi sono chiamati a diventare evangelicamente poveri attraverso la conversione, ossia giungere ad essere poveri “in” spirito, umili e distaccati sia dai beni materiali sia da quelli spirituali.

Certo, a differenza dei poveri, i ricchi sono più “sfortunati” – per usare il linguaggio mondano – perché, nel dover compiere lo stesso cammino dei poveri, devono spogliarsi, oltre che dei beni spirituali, anche di quelli materiali.

E di ciò, un ministro ordinato – diacono, presbitero, vescovo – deve essere conscio in modo particolare, più di un fedele, per il compito che svolge nella comunità ecclesiale.

Per questo vi lascio in consegna queste parole che l’apostolo Paolo indirizza ai cristiani di Filippi: “…ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione. So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,11-14).

Così l’Apostolo scrive a una comunità a lui molto cara con un atteggiamento che rende liberi, umanamente e cristianamente, ricco di saggezza; è la testimonianza di chi, con l’aiuto della grazia divina, è diventato un uomo libero.

Come sono evangelicamente belle le figure di diaconi e presbiteri sereni, pazienti, non in balia dei loro stati d’animo, forti, equilibrati nelle diverse situazioni della vita. Questo dipende da un atteggiamento di fondo: essere liberi, essere distaccati da sé, dal giudizio degli altri, non volere fare notizia, non voler sorprendere gli altri.

Nella lettera ai Filippesi l’apostolo Paolo esprime gratitudine per l’amicizia che vede fiorire da parte della comunità di Filippi verso la sua persona e anche per gli aiuti che la stessa comunità gli ha fatto pervenire attraverso Epafrodito. La vita della comunità è quindi sorretta e vive anche per questi piccoli grandi segni di amicizia e fraternità.

Paolo manterrà sempre un rapporto intenso e amichevole verso i Filippesi; d’altra parte, la Chiesa di Filippi fu la prima fondata in Europa dall’Apostolo e l’unica dalla quale Paolo ha accettato aiuti materiali.

Carissimi, il diacono è colui al quale è affidato il ministero dell’altare e dei poveri e, per questo, è essenziale – direi “dovuto” – che il diacono sia radicato nella virtù della carità, che è frutto della povertà interiore.

È importante che le persone e le comunità a cui sarete mandati come diaconi, ossia coloro che hanno il compito di servire i poveri, percepiscano che, quando ponete i gesti del vostro ministero, siete in sintonia col vostro uomo interiore sanato dalla grazia e dall’esercizio di un ministero autentico.

Il sacramento dell’ordine, nel grado del diaconato, vi costituisce in modo obiettivo e vi abilita a compiere le azioni che esprimono quanto vi è stato donato al momento dell’ordinazione.

Carissimi, fra poco – attraverso l’imposizione delle mani del vescovo e la preghiera di consacrazione – sarete diaconi. Vi chiedo di meditare, con attenzione, le parole della preghiera consacratoria, per viverle: “Ti supplichiamo, o Signore, effondi in loro lo Spirito Santo, che li fortifichi con i sette doni della tua grazia, perché compiano fedelmente l’opera del ministero. Siano pieni di ogni virtù: sinceri nella carità, premurosi verso i poveri e i deboli, umili nel loro servizio, retti e puri di cuore, vigilanti e fedeli nello spirito” (Rito dell’Ordinazione dei diaconi, p. 145). Da quel momento sarete diaconi; siate degni di questo nome e di questo ministero ecclesiale.

Carissimi Giovanni, Giampiero, Riccardo e Marco, vi impegnerete anche a vivere il celibato, nella piena castità, e questo – per voi e per la Chiesa – è segno e richiamo della carità pastorale, sorgente di fecondità soprannaturale per il mondo.

Il celibato vissuto nella piena continenza, con gioia e libertà, è segno di appartenenza a Dio e alla Chiesa per un servizio, nel ministero, più pieno e libero; oggi ciò va ribadito perché, per alcuni, il celibato appare un retaggio del passato e quasi un ostacolo.

Cari diaconi, nel vostro ministero sappiate guardare all’uomo che è spirito, anima e corpo. Sappiate, quindi, andare incontro ad ogni povertà, dell’anima e del corpo e ricordatevene ogni volta che indossate la stola!

Servire l’uomo nelle opere di misericordia sia corporali sia spirituali significa concretamente: dar da mangiare agli affamati ma anche consigliare i dubbiosi; dar da bere agli assetati ma anche insegnare a chi non conosce; vestire gli ignudi ma anche ammonire i peccatori; alloggiare i pellegrini e pure consolare gli afflitti; visitare gli infermi ma anche saper perdonare le offese ricevute; visitare i carcerati ma anche sopportare le persone moleste e, infine, seppellire i morti e, insieme, pregare Dio per loro.

Carissimi diaconi, la nostra amata Madonna della Salute – che veglia sul nostro Seminario da duecento anni e quest’anno ne abbiamo celebrato l’anniversario – vi protegga sempre, insieme ai superiori e agli altri seminaristi!

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