Omelia del Patriarca nella S. Messa per l’ordinazione diaconale di Francesco Andrighetti e Steven Ruzza (Venezia – Basilica cattedrale di S. Marco, 7 dicembre 2017)

07-12-2017

S. Messa per l’ordinazione diaconale

di Francesco Andrighetti e Steven Ruzza

(Venezia – Basilica cattedrale di S. Marco, 7 dicembre 2017)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

 

Cari fratelli e sorelle, carissimi Francesco e Steven,

innanzitutto, con voi, ringrazio Dio per questa ordinazione diaconale che, liturgicamente, avviene nel giorno dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria e all’inizio del tempo d’Avvento.

Mi soffermo, quindi, prima sul “sì” di Maria che, dopo quello di Gesù, è l’esempio di ogni altro “sì” dell’uomo e, poi, di seguito, sull’Avvento, tempo d’attesa che ci vede tutti protesi verso un futuro che dice un compimento, che deve ancora venire. In tal modo, il “sì” mariano e il periodo liturgico dell’Avvento ci accompagneranno nella nostra riflessione.

La seconda lettura di oggi – tratta dalla lettera agli Efesini – dice che, da sempre, Dio progetta e vuole l’uomo a partire da suo Figlio che è il vero modello di ogni uomo pensato a lode e gloria del Figlio Unigenito. Come Maria anche ciascuno di noi, dapprima, è un pensiero di Dio che, nella sua storia personale, prende una forma concreta attraverso le libere scelte di ciascuno.

Carissimi Francesco e Steven, la vostra chiamata al sacerdozio ordinato che vive oggi un momento essenziale con l’ordinazione diaconale, in vista di quella presbiterale, ha bisogno – per realizzarsi – del vostro “sì”. Su questo vi chiedo di riflettere, non solo oggi e nei prossimi mesi ma – se avrete la grazia di giungere al presbiterato – in modo continuativo lungo tutta la vostra vita. Come ho appena detto, Dio vuole aver bisogno degli uomini e invita, sollecita, illumina e, nello stesso tempo, domanda – come già fece duemila anni fa a Nazareth – un’adesione libera, piena, per sempre. Duemila anni fa Dio – come interpella voi oggi – interpellava, nel piccolo villaggio di Nazareth, la Vergine Immacolata.

Carissimi, come ben sappiamo, nella vita spirituale, c’è modo e modo di rispondere, modo e modo di dire il proprio “sì”. L’obbedienza del discepolo non è quella del militare: Dio chiede che il nostro “sì” provenga da un cuore ben disposto. E un cuore ben disposto non significa che un’obbedienza non costi o che, talvolta, non costituisca un sacrificio; un “sì” espresso con un volto triste, in maniera brusca o, addirittura, in modo imbronciato dice che non siamo ancora entrati in un vero discepolato e – nonostante le forme esterne – non siamo ancora in sintonia col Vangelo, anche se siamo persone consacrate. Così, infatti, quale immagine diamo di noi e, di riflesso, di Dio?

Il “sì” lieto e cordiale, anche nelle avversità, del discepolo costruisce la sua persona e la comunità. L’obbedienza si radica nell’amore, altrimenti è l’obbedienza della caserma e non del discepolo. E, allora, tutta la Chiesa è beneficata dal “sì” del discepolo che la edifica nell’amore perché tutto diventi più umano e cristiano. Che tristezza, per un discepolo, mancare di tale umanità!

Il vostro “sì” di diaconi – cioè di servitori – sia innanzitutto a gloria di Dio e per i poveri, che sono incontro reale con Gesù. Insieme alla stola abbiate sempre con voi il grembiule della lavanda dei piedi, il grembiule di chi serve, un grembiule non ostentato per ricerca di facile popolarità ma indossato per profonde motivazioni di fede!

Certo, non siamo noi a reggere la Chiesa o il mondo. Non siamo noi che, a partire dal nostro gusto, creiamo i valori ed esprimiamo un nostro cristianesimo. La nostra libertà, infatti, interloquisce sempre con la realtà, con Dio, con gli altri. La delicatezza e anche la sofferenza di un “sì” vanno, quindi, misurate sul bene più grande in cui ciascuno è purificato e liberato, capace – alla fine – di cogliere il tutto e l’essenziale della sua vita.

Il “sì” del discepolo si propone non solo di conseguire la perfezione personale, ma di contribuire all’edificazione del Regno di Dio; il “sì” di voi, futuri diaconi, è il sì di chi, attraverso il sacramento dell’ordine (primo grado), vede plasmata la sua persona (carattere) nella forma del servizio.

Carissimi Francesco e Steven, uno dei primi elementi da curare per la fruttuosità del ministero è lavorare sul proprio temperamento, sulle proprie emotività, sulle proprie autoreferenzialità e – Dio non voglia – scontrosità; se così fosse, starete male voi e farete star male gli altri…

Il diacono è “colui che serve” e il diaconato è il sacramento che configura e abilita, in modo stabile, al servizio dell’altare e dei poveri. Non alla presidenza dell’eucaristia ma al servizio della carità. Alla luce di tale considerazione, i diaconi sono chiamati a vivere il loro “sì” non solo come scelta spirituale/battesimale ma in riferimento alla conformazione sacramentale, tramite l’imposizione delle mani del vescovo.

Ora, considerando il tempo d’Avvento in cui avviene l’ordinazione, desidero, carissimi Francesco e Steven, indicarvi una prospettiva teologica, spirituale e ascetica alla quale vi prego di guardare nell’esercizio del ministero diaconale.

Il tempo d’Avvento si caratterizza, per un verso, come preparazione alla festa del Santo Natale – commemorazione della prima venuta del Signore -; per un altro, è invito a vivere nell’attesa della seconda venuta del Signore alla fine dei tempi; quest’ultima venuta, però, è anticipata da un’altra, quella mistica/quotidiana (cfr. San Bernardo, Omelia V d’Avvento).

Il tempo d’Avvento chiede di tener desta l’attesa e, quindi, si tratta di orientare il ministero guardando al futuro, aprendo all’attesa e testimoniando la speranza cristiana. Si tratta di un esercizio attento e tutto rivolto al futuro, ossia al Signore che viene, alla Sua grazia che sempre ci precede, va oltre i nostri progetti umani del momento presente e rende disponibili a quel compimento futuro che non è l’esito di un mero operare nella storia.

La preghiera liturgica del Chiesa – in Avvento – esprime e dona  nuova tensione anche ai gesti esteriori nostri e dell’intera comunità. La preghiera della Chiesa in Avvento è, inoltre, pervasa continuamente da tale movimento che è esortazione – a noi e alle nostre comunità – affinché non si cada nell’assopimento e si possa, invece, essere pronti per andare gioiosamente incontro al Signore che viene. Tutto, nella liturgia d’Avvento – letture, salmi, antifone, canti – “trasuda” attesa e relativizza il tempo presente orientandolo all’incontro col Signore. Tutto l’Avvento è la risposta della Chiesa all’invocazione: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). E “non tardare” (Sal 69,6).

Pensiamo a talune antifone evangeliche della liturgia, che si recitano prima di ricevere Gesù-eucaristia. Sono eloquenti: “Vegliate perché non sapete in quale giorno verrà il Signore” (cfr. Mt 24,42), “State attenti, vegliate perché non sapete il momento e l’ora” (cfr. Mc 13,33), “Vegliate e pregate in ogni momento per essere degni di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (cfr. Lc 21,36). Vi sono, infine, le grandi figure che scandiscono il tempo d’Avvento: Isaia (gli antichi profeti e patriarchi), Giovanni Battista, la Vergine Madre.

Carissimi Francesco e Steven, gioite allora e, insieme, aiutatevi a vivere il ministero diaconale con cuore teso verso Colui che viene; abbiate un cuore capace d’attesa, saggiamente distaccato e critico delle realtà presenti e, santamente, libero. Ma oltre alla liturgia dell’Avvento, riscopriamo quell’Avvento che “si compie” e “viene” – momento dopo momento – nella vostra vita. Bisogna, quindi, accordare le corde della nostra anima, così che vibrino ascoltando tutte pagine del Vangelo, nessuna esclusa, perché il Vangelo – ossia la vicenda di Gesù nella sua totalità – è norma per ogni uomo e per gli uomini di ogni tempo.

Accogliamo quanto Gesù ha detto e fatto. La Chiesa vive ogni anno l’Avvento, tenendo desto il nostro spirito. E allora, protesi al futuro di Dio, non saremo, in alcun modo, distratti dalle vicende del tempo presente; al contrario, le percepiremo per quello che realmente sono. Possedere lo sguardo su un “altro” futuro – non quello che segue cronologicamente l’istante che stiamo vivendo – permette di collocare tutto (persone, eventi, relazioni, circostanze) nella prospettiva più vera, secondo la quale si può vivere al meglio pure il momento presente.

La vigilanza, allora, è la caratteristica che deve accompagnare e plasmare il discepolo, la comunità cristiana e chi, in essa, esercita – nei differenti gradi – il ministero dell’ordine, a iniziare dai diaconi. Tutto si dà già col battesimo che ci costituisce cristiani attraverso l’immersione sacramentale nella morte e risurrezione del Signore Gesù; siamo, infatti, “salvati nella speranza” (cfr. Rm 8,24). Sì, siamo salvati nella speranza – come insegna l’apostolo Paolo – e quindi, nell’attesa, guardando a un “non ancora” che deve compiere quel “già” che viviamo come anticipo e pegno di pienezza.

Carissimi diaconandi, caro Francesco, caro Steven, assumete la logica, o meglio la sapienza, delle realtà ultime – escatologiche – nell’esercizio del vostro ministero e, prima ancora, nella vostra vita ponendo ogni vostro gesto nella prospettiva del Regno di Dio. Eviterete di soffermarvi su ciò che non merita e darete, invece, il giusto valore a quelle realtà che il mondo – sempre più secolarizzato – non riesce a cogliere nei suoi significati e valori, fermandosi alla dimensione del puro funzionalismo e non percependo la realtà simbolica, chiara espressione di trascendenza. Vivrete, così, al meglio la vocazione diaconale e questa sarà la risposta personale che darete – giorno dopo giorno – a una chiamata e a un ministero che mai dovranno ripiegarsi su di sé.

L’abitudine, che facilita i nostri gesti quotidiani con la sua ripetitività, può condurre a smarrire il significato di ciò che facciamo, svuotando i gesti del loro senso e facendoli decadere a pura ripetizione. Si può, infatti e purtroppo, fare l’abitudine a tutto, anche alla Parola di Dio e all’Eucaristia. E quando manca la fede, anche la Parola di Dio e l’Eucaristia, si pongono sempre uguali a se stesse; è, quindi, essenziale mantenere viva la fede e, con essa, la speranza e la carità che fioriscono sullo stelo della fede.

Carissimi Francesco e Steven, il diaconato è servizio al Signore Gesù che ogni giorno viene a noi, soprattutto nei fratelli più poveri. L’Immacolata vi sia Madre e Maestra in questo cammino di donazione e di crescita nella fede. A Lei consacrate voi stessi e il vostro ministero!

S.

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