Omelia del Patriarca nella S. Messa per le ordinazioni presbiterali (Venezia, Basilica di S. Marco - 18 giugno 2016)
18-06-2016

S. Messa per le ordinazioni presbiterali

(Venezia, Basilica di S. Marco – 18 giugno 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

diciamo subito la nostra gioia a Dio per il dono di don Alessio, don Davide, don Federico, don Massimiliano, presbiteri dell’anno giubilare della Misericordia.

Sono la testimonianza viva dell’amore che Dio ha per la nostra Chiesa. Lo ringraziamo con tutto il cuore perché Lui sempre ci ascolta e sostiene. E, a Lui che è la Misericordia, ci affidiamo.

Voi, che siete venuti in Basilica numerosi, siete – a vario titolo – legati ad Alessio, Davide, Federico, Massimiliano; alcuni di voi li conoscono da quando erano bambini, altri li hanno conosciuti da seminaristi durante il loro servizio in parrocchia.

Le vostre belle comunità esprimono l’unica Chiesa diocesana che in Cristo genera nella fede. Ai nostri sacerdoti, soprattutto ai parroci, va la nostra gratitudine; molti s’impegnano – con sguardo generoso – anche oltre le loro comunità. Ricordo, poi, il servizio dei diaconi, dei consacrati, delle consacrate, dei catechisti, delle catechiste, degli educatori; è questa un’immagine di Chiesa viva in cui ci si riconosce, accoglie e accompagna in modo fraterno. E così ci si aiuta, l’un l’altro e come pellegrini dell’eterno, a crescere nel Signore. Nelle nascenti collaborazioni pastorali, che incoraggio, auspico si dia maggior spazio alla pastorale vocazionale.

Ringrazio ancora, con stima, i superiori del Seminario, in modo particolare il rettore don Fabrizio e poi don Mauro, don Pierpaolo, il padre spirituale don Giacinto e i due confessori straordinari don Antonio e padre Danilo; un saluto, infine, a don Giacomo e agli amici della parrocchia di S. Marco di Ol Moran (Kenya) che oggi sono qui con noi.

Carissimi ordinandi, richiamo qui le parole che Papa Francesco pone all’inizio della bolla Misericordiae vultus affinché accompagnino sempre il vostro ministero presbiterale che oggi inizia: “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth“ (Papa Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario Misericordiae Vultus, n.1). Se ricorderete questo e se vivrete questo, sarete dei buoni sacerdoti.

Sì, voi – attraverso il sacramento dell’ordine – sarete segni speciali di questa Misericordia, segni di Gesù capo e sposo della Chiesa. Apparterrete alla Chiesa come il capo al corpo e lo sposo alla sposa; col vescovo, insieme ai confratelli, membri dell’unico presbiterio diocesano. Il sacramento dell’ordine è questo e abilita a compiere i gesti di Cristo – sommo sacerdote – secondo questa logica, ossia una comunione vera, reale, non solo teorizzata ma praticata nella pastorale quotidiana.

Carissimi, il Catechismo della Chiesa Cattolica, citando il Curato d’Ars, afferma: “È il sacerdote che continua l’opera di redenzione sulla terra… Se si comprendesse bene il sacerdote qui in terra, si morirebbe non di spavento, ma di amore… Il sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù” (CCC n. 1589).

Il prete non è il risultato di un fare umano; è, piuttosto, l’esito della preghiera della Chiesa, è il dono che viene dall’alto. Le parole di Gesù sono chiare: “Pregate… il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Lc 10, 2).

Se vogliamo esser fedeli alle parole di Gesù, dobbiamo tornare con più fiducia alla preghiera. Il Vangelo ci ha appena ricordato che le vocazioni nascono da comunità che pregano. E allora se da anni o decenni una comunità non è visitata dalla grazia di una vocazione, ci si deve interrogare; forse meno attivismo e organizzazione ma più preghiera. Preghiera e vita in una comunità ecclesiale sono un tutt’uno.

Paolo si rivolge con queste parole ai cristiani di Corinto: “…sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10,31). Luca, nel suo Vangelo, ribadisce la “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” (Lc 18,1).

La preghiera cristiana è realtà divina e umana; è in Gesù, vero Dio e vero uomo che si compie la salvezza . La preghiera cristiana risponde esattamente a tale realtà; è evento di grazia e Sant’Agostino esprime tutto questo nel commento al salmo 85: “Gesù Cristo, Figlio di Dio, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio” (Sant’Agostino, Esposizione in salmo 85,1.1).

Così la preghiera di Cristo struttura la preghiera della Chiesa e la plasma; la Chiesa – come ancora dice Agostino – è il “Cristo totale”; Lui è il capo, noi le membra e questo deve apparire anche nella preghiera.

L’Eucaristia è la forma più alta della preghiera; è il ringraziamento per il dono di Gesù Cristo rivolto al Padre nello Spirito; l’Eucaristia è esattamente questo “rendimento di grazie” nel Cristo che, sacramentalmente, il presbitero attualizza.

Come la preghiera ha sempre avuto il primo posto nella vita di Gesù, lo stesso deve avvenire nella vita del prete; la preghiera ne apre e chiude le giornate, ne sostiene i momenti più significativi. Primo compito del pastore è pregare per il suo gregge, per la sua gente.

Quando al mattino molti non hanno ancora iniziato la giornata, il pastore già dovrebbe vegliare in preghiera. Non è poesia, retorica o l’emozione del giorno dell’ordinazione; deve essere la vostra vita di tutti i giorni.

Ricordatelo, carissimi ordinandi: solo così potrete essere fedeli alle promesse sacerdotali e saprete ascoltare, parlare e operare come Gesù ha ascoltato, parlato e operato. Il pastore è colui che prega ma anche colui che insegna a pregare. E s’impara a pregare lasciandosi portare dal grembo materno di una Chiesa orante. Sì, facciamo in modo che la nostra Chiesa sia sempre più una comunità orante; sarà così anche una Chiesa più vicina a Gesù e, quindi, ai poveri.

La seconda lettura – tratta dal libro degli Atti – descrive il servizio apostolico di Paolo alla comunità di Efeso. Per tre anni l’Apostolo l’ha servita tra lacrime e persecuzioni, esortando e ammonendo come un padre; anche noi, allo stesso modo, siamo chiamati a esercitare il ministero dove il Signore ci chiama.

Paolo non è uno stipendiato, sotto contratto. Il suo stile è quello del pastore che ama il suo gregge e vive con lui notte e giorno; un modo d’essere che dice appartenenza. Il prete appartiene come sposo alla Chiesa e il celibato non è solo un vincolo giuridico ma l’espressione di questa relazione sponsale. Custoditela, difendetela, non perdertela!

La risposta di Gesù alla domanda su celibato e verginità è chiara: «…vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19,12).

Richiamo ancora alcuni passi della seconda lettura che – per scelta liturgica – sono stati omessi e che, però, evidenziano bene lo stile del pastore. «Voi sapete  – è Paolo che parla – come mi sono comportato… ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù» (At 20,18-21).

Paolo descrive il suo servizio apostolico a Efeso fra insidie e prove, attestando che mai è venuto meno, annunciando, in ogni modo, la conversione e la fede nel Signore Gesù. Nella Chiesa, tutto è finalizzato alla conversione e alla fede nel Signore Gesù, una fede che diventa carità, speranza, vicinanza agli altri; tale pastorale è sempre attuale perché non teme il passare degli anni.

L’ultimo gesto che Paolo compie per la Chiesa di Efeso non è una raccomandazione o un progetto ma è l’inginocchiarsi e pregare; prega insieme agli anziani, prega con loro, prega per loro. La Chiesa di Efeso gli sta dinanzi con i suoi anziani – presbiteri e/o episcopi – che Paolo aveva fatto venire a Mileto. Ricorda la vita comune e, dopo aver raccomandato di vigilare su di loro e sull’intera Chiesa, si congeda pregando, sì con la preghiera: “Dopo aver detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò” (At 20,36). Con tale gesto Paolo riconduce tutto al Signore Gesù; è Lui che semina, è Lui che si prende cura, è Lui che fa crescere.

E così Paolo attesta che l’unico necessario è il Signore; gli uomini, come dice il Vangelo, sono solo servi inutili (cfr. Lc 17,10). Il prete, ponendo la preghiera a fondamento della sua vita, evita di cadere in tutti i possibili riduzionismi teologici, spirituali e pastorali, dove il divino si appiattisce sull’umano. La preghiera garantisce la vita e il ministero del presbitero, se la preghiera diventa marginale nella vita di un presbitero, allora, vuol dire che Dio stesso è, ormai, diventato marginale.

Riprendo un passo dell’enciclica Dives in misericordia dove san Giovanni Paolo II  mette in guarda da un’umanità che smarrito la sua relazione con Dio e si illude di costruire un suo umanesimo: “…molti altri pericoli sono il prodotto di una civiltà materialistica, la quale – nonostante dichiarazioni «umanistiche» – accetta il primato delle cose sulla persona. L’uomo contemporaneo ha dunque paura che, con l’uso dei mezzi inventati da questo tipo di civiltà, i singoli individui ed anche gli ambienti, le comunità, le società, le nazioni, possano rimanere vittima del sopruso di altri…” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dives in misericordia, n.11).

Una breve parola, infine, sull’importanza che ha il nostro modo di parlare, perché  è attraverso di esso che noi annunciamo il Vangelo.

Se il nome di Dio e di Gesù, se i riferimenti alla vita di grazia, ai doni dello Spirito Santo, alle opere di misericordia spirituali e corporali, si fanno rari o assenti, nel nostro linguaggio allora dobbiamo riflettere. Come dobbiamo ancora riflettere se parlando dei misteri cristiani, per esempio dell’Eucaristia, ci fermiamo al segno – il pane e il vino – e non giungiamo alla realtà che soggiace – il corpo dato e il sangue effuso -, allora dobbiamo chiederci se il nostro linguaggio svolga ancora la sua funzione in ordine alla realtà della fede.

Un vero cammino di fede deve, infatti, condurre alla realtà, non fermandosi alla pura teoria teologica o al segno inteso come mero simbolo, nel senso di un segno vuoto di contenuto; al contrario si tratta di un segno che rimanda ad una realtà veramente presente e questa è la concezione sacramentale di Agostino. Nel vescovo di Ippona, infatti, il discorso simbolico presuppone quello realistico e qui si dà la realtà del nostro incontro con Dio, con Cristo, con la Chiesa, con i sacramenti, col Dio che realmente si fa carne e realmente ci salva.

Carissimi Alessio, Davide, Federico, Massimiliano, attraverso l’ordine sacro – come già detto – sarete nelle vostre persone segno della presenza di Gesù “sposo” e “capo” della Chiesa. Non vi apparterrete più, non sarete più solo segni di voi stessi ma di una presenza che dovrete rivelare e non velare, donare e non trattenere; è questo il senso del ministero ordinato. Non nascondete mai il vostro essere preti; l’uomo non è fatto di sola interiorità ma anche d’esteriorità. Il prete, quindi, dev’essere pronto a dare testimonianza con umiltà e coraggio; una visibilità non impacciata è la prima forma di testimonianza che viene richiesta.

Sì, tale visibilità non è un privilegio è servizio da rendere in ogni frangente, ovunque, anche dove non siamo conosciuti. E’ un modo – come ci ha ricordato di recente Papa Francesco – d’esser Chiesa “in uscita” a servizio di tutti gli uomini, soprattutto di quelli più feriti nell’anima e nel corpo, 24 ore su 24, anche fuori dell’abituale orario di ministero.

La testimonianza non sempre risulta agevole e anzi, talvolta, è ardua, altre scomoda, soprattutto in certi contesti; il passare inosservati ci ripara e, alla fine, è comodo. Ma anche qui si tratta d’espropriarsi del proprio uomo vecchio, azzerare il proprio io e rispondere a una chiamata di libertà; un “sì” detto da parte di chi non si appartiene più.

Esser  riconoscibili come segni di Gesù richiede – come ricorda Papa Francesco – un concreto amore alla povertà e ai poveri che si manifesta nel distacco da sé, nella sobrietà dello stile, della parola, del vestire semplice e distinguibile per poter essere sempre pronti al servizio.

Quanto più il prete vive tra coloro che sono lontani dal mondo della fede, tanto più diventa l’immagine che essi si fanno della Chiesa, del Vangelo e, addirittura, di Gesù. E quindi il prete può – con la sua persona e il suo modo di fare – essere, per gli uomini, motivo d’avvicinamento o allontanamento.

Tutto ciò non dovrebbe esser così meccanico, ma la gente ha un suo modo di percepire le cose e le persone; esser preti richiede anche farsi carico di queste pretese. Si tratta di lavorare su se stessi per vincere l’uomo vecchio che ciascuno di noi porta in sé. Non è doppiezza; al contrario, è cammino di virtù cristiana.

Carissimi Alessio, Davide, Federico, Massimiliano, siete ordinati preti nell’anno del Giubileo della Misericordia, quindi, nel vostro ministero sentitevi in modo particolare annunciatori della misericordia di Dio, nell’amore e nella verità.

A tutti i presbiteri di Venezia ma a voi, soprattutto, affido queste parole di Papa Francesco: “Misericordia è la via che unisce Dio all’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati sempre e nonostante il limite del nostro peccato” (Papa Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario Misericordiae Vultus, n.2).

Guardate sempre alla Vergine Santissima – che Gesù ci ha donato come madre – ricordando che il prete non deve portare qualcosa o qualcuno e tantomeno se stesso (farebbe poca strada!) ma, come la Vergine Madre, deve portare il Signore Gesù e solo Lui. Tutto il resto è, e sarà, conseguenza.

Coraggio, avanti! Contate sul presbiterio, sul vescovo, sulle vostre comunità. Noi contiamo molto su di voi.

 

 

 

Al termine della celebrazione, poco prima della benedizione finale, il Patriarca ha rivolto ancora queste parole:

Prima della benedizione finale, desidero consegnare ai nuovi presbiteri la preghiera di Gesù, il Padre nostro, perché tutto nelle loro giornate sacerdotali sia un lavorare per il Regno di Dio; il Padre nostro come progetto di vita, come preghiera di elezione, come esame di coscienza. In quella preghiera c’è Gesù l’Eterno Orante, Colui che ha fatto della sua vita una preghiera e della preghiera la sua vita. Il Padre nostro vi accompagni sempre. Solo Dio sa quanto sarà lungo il vostro ministero; nasca ogni giorno dalla recita del Padre nostro, dalla scelta del Padre nostro come preghiera e dalla verifica della vostra giornata sul Padre nostro. A tutti chiedo di ringraziare il Signore per la grande grazia che ha voluto fare alla nostra Chiesa nell’Anno giubilare della Misericordia. E ricordiamo, in particolare, il Santo Padre.