Omelia del Patriarca nella S. Messa per la solennità del patrono San Marco Evangelista (Venezia / Basilica Patriarcale di San Marco, 25 aprile 2022)
25-04-2022

S. Messa nella solennità del patrono San Marco Evangelista

(Venezia / Basilica Patriarcale di San Marco, 25 aprile 2022)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

       

 

Stimate autorità, cari confratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle,

buona festa di San Marco!

Un saluto particolare e di benvenuto rivolgo a S. E. Marcus Stock, Vescovo di Leeds, e a S.E. Robert Byrne, Vescovo di Hexham e Newcastle, giunti dalle loro Diocesi d’Inghilterra in questi giorni a Venezia. Al vescovo Marcus l’augurio di buon onomastico.

Anche la ricorrenza annuale del nostro patrono, l’evangelista Marco, ha il sapore amaro delle violenze e delle crudeltà di una guerra insensata che, da due mesi, insanguina l’Ucraina e ferisce l’intera umanità.

All’intercessione di san Marco – raffigurato da un leone con un libro aperto su cui si leggono le parole “Pax tibi Marce…” – affidiamo la nostra invocazione e speranza di pace, da associare alla verità, alla giustizia e alla pietà. Preghiamo, soprattutto, perché cessi l’uso delle armi e la violenza e così si possa dare sollievo alle persone, in particolare alle più fragili e provate.

Al patrono Marco affidiamo la nostra città di Venezia che ha da poco celebrato – tra le restrizioni a causa del Covid – il 1600esimo anniversario della data della sua simbolica fondazione, di evidente richiamo cristiano e mariano.

Con l’aiuto di san Marco vogliamo poi proseguire il Cammino sinodale nel quale siamo inseriti, insieme alle Chiese che sono in Italia e alla Chiesa universale, affinché possiamo sempre più ripartire da Cristo Gesù per vivere ed annunciare oggi il suo Vangelo di salvezza e costruire legami ecclesiali e umani di comunione, unità e pace.

Nell’evangelista Marco, com’è noto, riconosciamo colui che ha proposto il genere letterario “Vangelo”, fino a quel momento sconosciuto e non praticato. Il Vangelo secondo Marco ha un carattere di vivacità, di vitalità e di immediatezza (anche drammatica) che gli altri Vangeli, peraltro più strutturati, non possiedono.

Lo scopo dell’evangelista è specificato già nel primo versetto del testo: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). Risalta così, nelle pagine marciane, la concretezza della figura umana e divina di Gesù, capace di muoversi con disinvoltura e anche di andare oltre gli schemi imperanti nel suo tempo e contesto, soprattutto nei confronti dei depositari della Legge, per annunciare l’evento salvifico che è Lui stesso.

Marco ha saputo inculturare l’evento di Gesù, accaduto in un luogo preciso (la Palestina) e in un tempo determinato (I sec. d.C.), trasportandolo nel contesto differente (pagano e non semita) in cui avveniva la prima predicazione cristiana.

Per questo Marco non proclama tanto i doveri o le norme morali da rispettare o un programma pastorale, ma è tutto proteso ad annunciare una persona: Gesù Cristo, che è stato crocifisso, che è risorto, che è Figlio di Dio e, insieme, profondamente uomo (“Figlio dell’uomo”), Colui che sconfigge il male che ha la sua origine in Satana.

Pensiamo qui al primo prodigio che Gesù compie in questo Vangelo quando guarisce un uomo “posseduto da uno spirito immondo” che vedendolo incomincia a gridare: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!” (Mc 1,23-24).

Più avanti, al capitolo terzo, c’è un altro episodio – nel contesto di numerose guarigioni operate da Gesù – nel quale “gli spiriti impuri, quando lo vedevano, cadevano ai suoi piedi e gridavano: «Tu sei il Figlio di Dio!»” (Mc 3,11).

Ma possiamo ricordare ancora, scorrendo sempre il Vangelo di Marco, l’incontro di Gesù con l’indemoniato di Gerasa alle prese con una “Legione” di spiriti impuri (Mc 5,1-20) e quello con un padre che aveva portato ai discepoli il figlio epilettico e scosso da uno “spirito muto” che Gesù, diversamente dai discepoli, riuscirà a vincere liberando e guarendo il ragazzo (Mc 9,14-29).

Rivolgendosi appunto a chi non è semita, ma proviene dal mondo pagano, Marco sa di non poter richiamare i riferimenti alla Legge, all’Alleanza e ai Profeti tanto che la vera liberazione e il vero compimento si esprimono piuttosto nella vittoria sul male che appare soprattutto nella vittoria sulle potenze demoniache e sugli spiriti che tengono prigioniero l’uomo.

Gesù ridona così la libertà e mostra che il bene di Dio è più forte del male e la paternità di Dio ha cura di tutti gli uomini, anche di chi è più provato dal mistero e dal potere delle tenebre.

Tutto ciò avviene in un contesto storico carico di paure e superstizioni che si riversavano nel rapporto con la divinità, più da temere e da ingraziarsi che da amare. In Marco si nota da subito la potenza di Dio che sconfigge il male, che si evidenzia nella presenza del demonio.

È, insomma, la forma marciana originaria che deriva dall’ascolto dell’apostolo Pietro e che ci trasmette la fede in quel Cristo presentato come Figlio di Dio e Figlio dell’uomo e dinanzi al quale si è chiamati ad arrivare alla confessione del centurione, sotto la croce di Gesù: “…avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»” (Mc 15,39).

È il suo un Vangelo sintetico ma completo, che culmina con la risurrezione e porta il mondo (a cui è destinato l’annuncio) a vedere la fede come l’incontro con una persona, una persona nella quale si riconosce la pienezza della fede e che, proprio nella risurrezione, dischiude il futuro.

Sembra di cogliere in questa strada narrativa scelta dall’evangelista Marco una risposta – anticipata di oltre 1900 anni – all’obiezione sollevata da Albert Camus in un dialogo riportato nel romanzo “La caduta”: “…le religioni sbagliano quando cominciano a fare la morale o a scagliare comandamenti. Non c’è bisogno di Dio per creare la colpevolezza, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi stessi. Lei menzionava il Giudizio Universale. Senza offesa, mi permetta di riderne. Io lo aspetto a piè fermo: ho conosciuto il giudizio degli uomini. Per loro non esistono circostanze attenuanti, anche la buona intenzione è ascritta a crimine… Allora l’unica utilità di Dio sarebbe quella di garantire l’innocenza e la religione la vedrei semmai come una gigantesca lavanderia, ciò che peraltro è stata, ma brevemente, giusto per tre anni, e non si chiamava religione” (Albert Camus, La caduta, Firenze / Milano pp. 71-72).

È questo il testo di un autore che, come abbiamo appena sentito, attraverso domande fondamentali sull’uomo si collega a quella prima predicazione cristiana che non proclama, innanzitutto, norme religiose ma la Persona stessa di Gesù.

La sorprendente attualità di Marco si evidenzia anche nella chiusura del Vangelo, dove si proclama la risurrezione di Cristo e si apre all’evangelizzazione e alla testimonianza dei cristiani.

“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,19-20).

L’annuncio kerigmatico è, dunque, ciò che deve toccare oggi il cuore di ogni comunità ecclesiale, di ogni battezzato, di ogni discepolo del Signore. Si tratta, in particolare, di riscoprire la forza del sacramento del battesimo, come ci ha detto un altro versetto del Vangelo odierno: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,15-16).

Il cristianesimo non è prima di tutto una morale, né una progettazione pastorale o una visione psicologica e sociale; è il risultato dell’incontro con Gesù. E ricevere la missione di Gesù è il frutto di una fede ben radicata nel sacramento del battesimo – “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” – in cui troviamo contenuta tutta la realtà sacramentale della Chiesa ed anche la vocazione delle singole persone che scaturisce dall’iniziazione cristiana.

Ogni vocazione nella Chiesa è, in fondo, l’espressione di questa realtà sacramentale in cui ogni uomo e ogni donna sono chiamati ad inscrivere i differenti aspetti della figliolanza divina di Cristo nella loro storia personale e comunitaria.

Battesimo, confermazione, eucaristia, matrimonio, ordine sacro, penitenza e unzione degli infermi sono davvero quelle realtà che scrivono nelle diverse vicende della vita (temporali/spaziali) il Cristo in noi.

La vita e la testimonianza cristiana non sono che l’esplicitazione del sacerdozio di Cristo per il mondo che vive nei sacramenti, a partire dal battesimo, inizio del cammino cristiano, che poi nell’eucaristia vive il suo momento forte di incontro con Dio e con i fratelli per ispirare e nutrire un’esistenza “eucaristica”.

Tutto questo chiede alle persone e alle comunità che vivono la realtà sacramentale di uscire dal momento liturgico per coltivare una specifica visione umana sociale, culturale e politica (nel senso più alto e ampio del termine) che tocca e riguarda il bene comune e la convivenza tra le persone e i popoli.

Il fine dell’eucaristia, del resto, è ricevere dall’altare del Signore e vivere dovunque quella carità di Cristo che deve pervadere sempre chi – persone e comunità – è portatore dell’annuncio evangelico.

Siamo perciò debitori nei confronti dell’evangelista Marco di questo annuncio del Vangelo così vivo e gioioso, in cui doveri e moralità sono gioiose conseguenze dell’incontro personale e decisivo con Gesù Cristo.

Buona festa di San Marco a tutti!