Omelia del Patriarca nella S. Messa per la Giornata Mondiale del Malato (Mestre - Ospedale Villa Salus, 11 febbraio 2018)
11-02-2018

S. Messa nella Giornata Mondiale del Malato

(Mestre – Ospedale Villa Salus, 11 febbraio 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Desidero innanzitutto salutare gli ospiti, i pazienti, i malati che sono i protagonisti di questa Giornata del Malato che, tradizionalmente, cade nella ricorrenza della Madonna di Lourdes.

Abbiamo ascoltato una prima lettura e un Vangelo che ci parlano della sofferenza umana; il Vangelo, in particolare, ci dice come Gesù si china sulla sofferenza umana. Non entro qui nelle questioni esegetiche su come vada intesa la lebbra e su cos’era la lebbra ai tempi di Gesù; mi voglio soffermare con voi – con il Direttore sanitario che saluto, i medici, gli operatori che coadiuvano i medici, con il personale amministrativo e le suore – su una riflessione più ampia circa il compito e la missione di  un ospedale e di un luogo di cura che ha come orientamento ideale il Vangelo.

Noi sappiamo che il dolore, la sofferenza, il male fisico appartengono agli uomini di tutti i tempi. Prima o poi ogni uomo, ciascuno di noi, deve dire: anch’io dovrò fare l’esperienza del dolore, della malattia, della sofferenza perché altrimenti non sarei uomo, non apparterrei all’umanità.

La medicina cresce e patologie incurabili solo venti o trent’anni fa appartengono ora agli interventi di routine della medicina o della chirurgia ma ci saranno sempre nuove malattie, nuovi casi, nuove specializzazioni e allora il realismo ci chiede di non sognare mai l’immortalità. L’immortalità, infatti, non è dell’uomo. Il salmo 144 ci ricorda, ad esempio, che l’uomo è come l’erba, come il fiore del campo.

Ho visto entrando anche qualche bambino, ho visto delle persone anziane… La vita dell’uomo, per quanto sia lunga, è sempre molto breve, troppo breve. Dobbiamo, allora, entrare in questa logica umana: la sanità e la medicina sono per l’uomo.

E prima delle conoscenze tecnico-scientifiche – importanti ed essenziali, grazie alle quali l’uomo ha fatto progressi inimmaginabili – viene però la sapienza, la saggezza del vivere che sempre deve accompagnare l’uomo.

Permettetemi, allora, di citare una frase che mi ha colpito perché viene da uno dei più grandi tennisti mai esistiti – forse qualcuno di noi ricorderà questo nome -: Andre Agassi. Leggete la sua biografia “Open”; è una critica feroce contro suo padre, pugile, che aveva deciso che uno dei suoi quattro figli sarebbe dovuto diventare il campione per eccellenza del tennis.

Nel libro Agassi parla anche di una macchina che aveva inventato suo padre, chiamata “drago”. Sparava in continuazione migliaia di palle da tennis e lui doveva ributtarle nel modo giusto; quando questo non avveniva, il padre allora diventava un padrone, un despota.

Questo tennista ha guadagnato 181 milioni di dollari, ha vinto tutti i tornei internazionali del Grande Slam e ha avuto una carriera lunga ventuno anni. Ebbene nella sua biografia dice ad un certo punto: “L’avevo dimenticato, ma è nei corridoi degli ospedali che capiamo che cosa è la vita”. Questa frase, tratta dalla sua biografia, è sconvolgente.

Noi comprendiamo che cosa è la nostra vita quando ci imbattiamo nei nostri limiti. I medici non me ne abbiano ma credo che uno sia “più” medico quando si è imbattuto personalmente – o negli affetti familiari – in situazioni nelle quali ha toccato con mano i limiti umani. Alla competenza, all’efficienza e all’aggiornamento, infatti, si aggiunge l’umanità.

La medicina – se vuole essere umana e non vuole seguire sogni che poi si trasformano in incubi – deve sapere che, oltre ad essere una scienza, è anche un accompagnamento e – se la parola viene intesa bene – dico che è pure un’arte.

Il medico, oltre che uno scienziato, è anche un artigiano: pratica l’arte di chi si prende cura del malato e che, molte volte, lo guarisce ma altre volte sa che lo potrà solo accompagnare; il medico sa che parecchie volte potrà solo prendersi cura di una persona e guai se lo facesse con meno entusiasmo e forza di chi sa di poterlo guarire.

Non si persegue e non si vuole l’accanimento terapeutico; sarebbe non tener conto del fatto che la vita umana, come ha un inizio, così ha anche una fine. Nello stesso tempo, però, ancor più si richiede di non compiere alcun atto positivo o omissivo contro la vita. Il rischio – e dopo le ultime leggi è realissimo – è quello di porre degli atti o di omettere quei presidi di base che diventano vero abbandono o addirittura vero atto eutanasico, magari nascosto.

Sì, bisogna prendersi cura perché la vita umana – a differenza di quanto dice la cultura dell’efficientismo, del successo, dei risultati – ha un senso, ha un valore da scoprire e realizzare anche quando prende la forma della sofferenza che non va certo ricercata, ovviamente, ma va affrontata e condivisa perché la nostra società, la nostra cultura, mantengano sempre un volto umano.

Ricordo ancora la frase che citavo prima di Agassi, lui che era stato costruito come una macchina per vincere e non per gareggiare, addestrato per distruggere gli avversari, secondo le indicazioni di suo padre, e in grado di vincere ogni sfida sportiva, anche a prezzo di allenamenti micidiali e scelte di vita disumane: “L’avevo dimenticato, ma è nei corridoi degli ospedali che capiamo che cosa è la vita”. Lo afferma lui: una macchina costruita per vincere sempre, in ogni circostanza, contro ogni avversità…

Nella nostra società del benessere la vita viene esaltata finché è piacevole ma si tende a non rispettarla più quando è malata e menomata. Se si pone, invece, al centro la persona e non i suoi risultati, le sue prestazioni, e si parte dal rispetto e dall’amore dovuti ad ogni uomo in quanto tale è possibile, allora, mettere in atto forme efficaci di servizio alla vita: quella nascente, quella segnata dalla marginalità, quella che si trova nella fase terminale, anche in presenza di sofferenze atroci.

Oggi abbiamo la grande risorsa della medicina palliativa che non è solo terapia contro il dolore ma è anche un’azione medica, un’alleanza che non lascia la persona sola ma la coinvolge dal punto di vista della persona, che non è solo fatta di apparato digerente o cardiovascolare ma è anche la sua vicenda, i suoi affetti.

La medicina palliativa richiede un’alleanza e la presenza simultanea di vari specialisti della professione medica ed infermieristica ma anche lo psicologo, il ministro del culto, la famiglia, i volontariato. La medicina quindi – come vera assistenza, vero servizio al malato e alla sua famiglia – deve riscoprire quest’alleanza a 360° per evitare quelle situazioni e quelle soluzioni drammatiche, alla fine non umane, di chi è rimasto solo o si percepisce come solo.

La Giornata del Malato fa compiere un esame di coscienza a tutti coloro che hanno a cuore l’uomo ma soprattutto a quei luoghi e a quei centri dove i malati convergono e che hanno un’idealità cattolica, cristiana, segnata dal Vangelo.

Guardando alla Madonna di Lourdes e a quanti malati lì hanno ritrovato, magari, non la salute ma il gusto di vivere, chiediamo a Lei che i nostri luoghi – in cui ci si prende cura dei malati – siano sempre e anche luoghi in cui rimane alto e forte il senso e il gusto della vita.