Omelia del Patriarca nella S. Messa per il primo anniversario della morte del card. Marco Cè (Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 12 maggio 2015)
12-05-2015
S. Messa nel primo anniversario della morte del card. Marco Cè
(Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 12 maggio 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
                                      
Carissimi confratelli vescovi del Triveneto, cari presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, fedeli laici,
ringrazio tutti per la presenza a questa eucaristia, in suffragio del carissimo Patriarca Marco, che dice la vostra considerazione ed affetto per questo pastore buono e umile che, nel suo lungo ministero episcopale, si impegnò sempre per essere segno fedele di Gesù tra la sua gente.
Un saluto affettuoso al carissimo don Valerio, fedele segretario ma, soprattutto, fraterno amico: grazie, caro don Valerio, per il tuo servizio discreto, attento e cordiale, in particolare negli ultimi anni e mesi, quando la tua presenza infondeva nel Patriarca Marco serenità e sicurezza. Questo lo sappiamo bene, anche se tu – per quel senso di pudore e signorilità che ti contraddistingue – hai sempre saputo tutto ricoprire con un riserbo più eloquente delle parole.
Carissimi, partiamo dalla parola di Dio e dal salmo 137 che abbiamo appena pregato insieme. L’inizio del salmo (versi 1-3) delinea, al meglio, il profilo spirituale del patriarca, cardinale Marco. Il salmista, infatti, si rivolge al Signore con queste parole, ad un tempo, semplici ed eloquentissime: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore: hai ascoltato le parole della mia bocca… a te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo. Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà: hai reso la tua promessa più grande del tuo nome. Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza” (Salmo 137, 1-3).
Qui troviamo espressi i sentimenti, i pensieri, le parole, i gesti che caratterizzarono l’intimo – come uomo e pastore – del Patriarca Marco.
Il Cardinale custodiva, in ogni momento, un profondo e continuo rapporto col Signore. In tutto e sempre aveva il senso di Dio. Egli percepiva in sé l’amore di Dio e lo viveva come il “sì fedele” alla chiamata; da vero innamorato della Parola di Dio il Cardinale, innanzitutto, si nutriva di tale Parola e, poi, come fa il buon padre di famiglia la donava in cibo ai suoi figli. D’altra parte, il primo compito del buon pastore è dare il nutrimento alle pecore che gli sono state affidate, conducendole su buoni pascoli e a fonti cristalline. Voleva far tutti partecipi del grande tesoro ricevuto in dono con la parola di Dio: la sua bella predicazione, i gruppi di ascolto, gli esercizi spirituali a Cavallino.
 Il Patriarca Marconon era autodidatta, aveva studiato al Pontificio Istituto Biblico conseguendo la licenza e, poi, aveva conseguito alla Pontificia Università Gregoriana il dottorato in teologia biblica. Non aveva, quindi, quelle fragilità che, non di rado, accompagnano gli autodidatti; non sentiva, quindi, il bisogno di accreditarsi attraverso  citazioni, parole e moltiplicando gli interventi. Il cardinale non era loquace ma aveva, piuttosto, il dono dell’eloquenza spirituale e, poiché profondamente umile, nel suo dire non era mai autoreferenziale.
È lo stile di Giovanni Battista che, così, si esprimeva: “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire” (Gv 3, 29-30).
Il Cardinale ha voluto mettere sempre il Signore al centro di tutto, farlo crescere sempre; lo considerava come il riferimento ultimo della sua vita e quindi, anche del suo ministero. Sì, perché il nostro modo di esercitare il ministero esprime qual è o quali sono i riferimenti ultimi della nostra vita. E, proprio perché amava la Parola di Dio, il Patriarca Marco temeva di vanificarla con le sue parole umane.
 Il Patriarca Marco è entrato nella casa del Padre della misericordia alle soglie degli 89 anni d’età, dopo oltre 66 anni di sacerdozio e quasi 44 di episcopato; gli ultimi 35 trascorsi a Venezia, fra noi, come amatissimo padre. Per i veneziani è stato pastore saggio e prudente per 23 anni.
 In molte questioni pastorali è stato profeta, cogliendo prima di altri tematiche emergenti che oggi si pongono in tutta la loro evidenza; per esempio, quanto egli sottolineò al temine del suo mandato episcopale e che, a distanza di quindici anni, ci incoraggia a non lasciarci intimorire ed anzi ci conforta e sprona ad andare avanti su questa strada, da lui già individuata senza timore e incertezze, anche se con pazienza e muovendoci insieme.
Alla domanda se pensasse necessario metter mano all’organizzazione della Chiesa veneziana e delle parrocchie, in un’intervista di fine mandato, rispose: “Io credo di sì. Credo che sia maturo il momento in cui debbano essere messe allo studio e attuate delle ristrutturazioni anche di tipo organico. La collaborazione non può essere affidata solo allo spontaneismo di alcuni preti. La collaborazione deve diventare organica. Diversamente non rispondiamo alle esigenze, alle richieste di evangelizzazione. Che ci siano delle zone che non hanno più un prete giovane significa che i ragazzi e i giovani sono trascurati. Venezia e Mestre sono due realtà molto diverse ed hanno ed hanno esigenze di strutturazione molto diverse. Il centro storico è frazionatissimo: 38 parrocchie con una tradizione parrocchiale profondissima, che è anche un bene e un valore. Si fa fatica però a creare delle collaborazioni organiche. Ma non c’è sbocco, la strada è questa, perché altrimenti i ragazzi saranno trascurati, la pastorale dei fidanzati pure; e perfino la pastorale della cultura ha bisogno di collaborazione. E anche in terraferma occorreranno delle collaborazioni organiche” (Marco Cè: vescovo, padre, fratello, Intervista alla fine del mandato, Edizioni CID, p. 25).
Osservazioni sagge ed equilibrate che oggi, a parecchi anni di distanza,  appaiono sempre più vere, attuali, urgenti.
Come vescovo emerito, il Cardinale ha continuato a dedicarsi alla Chiesa che è in Venezia, con giusto rispetto e distacco, ma con immutato amore e la stessa intelligenza e umiltà di quando ne era il Patriarca.
Marco Cè era uomo intelligente, sensibile, perspicace, grande conoscitore dell’animo umano, conosceva le persone e la loro storia. Soprattutto conosceva bene e in profondità i suoi preti, a cui voleva molto bene; dei preti, conosceva tutto e tutto teneva nel suo cuore con verità e amore.
 Ho potuto usufruire del suo consiglio e della sua saggia parola specialmente nel primo anno del mio ministero a Venezia; ne ringrazio il Signore. Sempre mi ha colpito la sua memoria ferma. Ricordava veramente tutto: il “quando”, il “dove”, il “perché” di un fatto, di un incontro, di un colloquio, di una discussione. Con la memoria, mi colpiva la sua capacità di discernimento; la sua mitezza si accompagnava, sempre, al suo realismo e alla sua consapevolezza.
Gli ultimi mesi, soprattutto gli ultimi giorni della sua vita, li ha trascorsi in un letto d’ospedale, ormai tutto “proiettato” in Dio. Più i giorni passavano e la sua esistenza terrena andava spegnendosi e più tutto vedeva e abbracciava nella prospettiva di Gesù crocifisso e risorto. Nel suo progressivo spegnersi, simile a una piccola candela che lentamente si consuma, si vedeva come la fine esprime realmente la storia e la consistenza della persona: sicut vita mors ita!
Il Patriarca Marco ha amato fortemente la Chiesa e la Chiesa che è in Venezia, per essa ha gioito e sofferto. Ha accolto ogni cosa con fede e nella prospettiva della divina  misericordia e, proprio in tale cammino, ha perseguito il bene di tutti e della Chiesa.
Alcune sue considerazioni sul prete mi hanno confermato in una convinzione. Egli, in occasione dei cinquant’anni del suo sacerdozio, rispondendo ad alcune domande sui modi d’esercizio e sui compiti del ministero presbiterale, così s’esprimeva: “…ho vissuto diverse stagioni …oggi il compito del sacerdote all’interno della comunità cristiana è quello di essere annunciatore della parola di Dio; il sacerdote è colui che garantisce alla comunità cristiana l’Eucaristia e che dà anche una guida pastorale. Però – sottolineava – tutto il suo sforzo deve essere quello di far emergere i doni dei battezzati. Un presbitero – e un vescovo – che non si sforzasse positivamente di far emergere attorno a Lui i doni dello Spirito, le responsabilità laicali, certamente non sarebbe un prete come la Chiesa oggi lo vuole” (Marco Cè: vescovo, padre, fratello, Intervista nel 50.mo di ordinazione, Edizioni CID, p. 25).
Parole vere e attualissime che dicono la missione non solo attuale del prete; sono parole che vengono da lontano, dal grembo stesso della Chiesa di sempre e che appartengono alla nostra storia. Carissimi confratelli, cerchiamo di viverle nel passaggio delicato, a cui ci stiamo aprendo, con pazienza e disponibilità alle nuove forme di pastorale.
Insieme a quest’attenzione per i laici, nella lettera con cui concludeva la prima visita pastorale del 1990 – “Il granello di senapa” – indicava tre cammini confluenti sui quali invitava la Chiesa che è in Venezia a camminare con intensità e – mi permetto di aggiungere – con fiducia: la catechesi dei fedeli adulti, l’impegno a favore degli sposi e della famiglia, la pastorale giovanile (cfr. “Il granello di senapa” – Parte seconda).
Infine, il Patriarca Marco ha sempre tenuto fisso lo sguardo su Gesù, rivelatore del Padre e del suo amore misericordioso, l’Unico che può salvare e donare la pace perché Lui stesso è la nostra pace, come indicava anche il suo motto di vescovo: “Christus ipse pax”.
A tale programma – “Christus ipse pax” – rimase fedele tutta la vita, ma ancor più nei giorni faticosi della malattia, quando accolse nella fede l’ultima chiamata che il Padre gli rivolgeva con l’affidarsi estremo a Lui, soprattutto in quegli ultimi momenti così preziosi per l’eternità. In tal modo ha testimoniato come, per lui, Cristo fosse realmente la pace: Cristo era, per lui, la scelta della vita che si mostrava tale nel momento in cui la sua vita terrena giungeva a consumarsi.
Proprio allora si è toccato con mano come la Parola di Dio e l’Eucaristia celebrata ed adorata fossero per lui le realtà forti della sua vita. Nel tempo dell’umana fragilità – e soprattutto dell’ultima malattia – riuscì ad essere testimone credibile del suo programma spirituale: “Christus ipse pax”.
Gesù e il suo Vangelo, conosciuti e amati, furono per lui la vera pace; nella sua vita egli sempre si appoggiò al Signore e trovò in Lui la vera pace. Già nell’omelia della sua prima celebrazione qui in San Marco disse che la sua volontà era soltanto annunciare Gesù Cristo sempre, dovunque e in ogni modo.
Un uomo semplice, riservato; si considerava espressione di quel mondo contadino da cui proveniva e proprio a queste radici – io aggiungo nobili – legava la sua timidezza innata che mai lo abbandonò del tutto. Ecco le sue parole: “Sono un contadino, i contadini sono timidi… quando devo fare un’intervista o un messaggio in televisione non lo faccio mai pacificamente” (Marco Cè: vescovo, padre, fratello, Intervista nel 25.mo di ordinazione episcopale, Edizioni CID, p. 9).
Il Patriarca Marco non ricercava il plauso, la sua vera speranza era il Cristo, l’Unico in grado di donare la pace del cuore. Sì, per il nostro amato cardinale, Cristo fu veramente la pace: Christus ipse pax!
Fra poco le belle note dell’Ave Maris Stella, di Ravetta, a lui così care, ci ricorderanno quanto Egli amava e voleva che fosse amata la Madre del Signore.