Omelia del Patriarca nella S. Messa per il “Precetto pasquale” delle Forze Armate dello Stato presenti nel territorio cittadino (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 11 marzo 2016)
11-03-2016

S. Messa per il “Precetto pasquale” delle Forze Armate dello Stato

presenti nel territorio della Città di Venezia

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 11 marzo 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

Abbiamo appena ascoltato un Vangelo nel quale Gesù ci appare come un uomo giusto, forte e solo, perché molte volte essere persone giuste vuol dire anche fare i conti con la solitudine. L’uomo giusto deve essere anche una persona forte. È il senso della prima lettura: colui che è giusto rimane solo. E rimane solo proprio a causa del suo amore per la giustizia. Gesù il misericordioso, Gesù buono, Gesù paziente, Gesù umile, è anche un uomo forte.

Senza fortezza non c’è possibilità di giustizia, di verità, di accoglienza, perché la fortezza è quella virtù che – prima di tutto – porta a fare i conti con le nostre intemperanze, con i nostri stati d’animo, con le nostre emotività. La persona forte è, innanzitutto, una persona che sa governare se stessa e che sa prendere le distanze da se stessa per poter essere una persona giusta. E la forza è una risorsa se è intesa come abbiamo appena ascoltato dal Vangelo.

E’ una premessa bella, questa, nella giornata dedicata al “Precetto pasquale” delle interforze militari. Molte volte si ha, infatti, l’impressione che il mondo militare sia un mondo che non appartiene al Vangelo ed è una cosa sbagliata perché, tra le figure migliori che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli c’è ad esempio il centurione di Cafarnao.

Aveva un servitore malato e così manda gli anziani del popolo da Gesù “a pregarlo di venire e di salvare il suo servo“ (Lc 7,3). E loro stessi non solo vanno da Gesù ma, con insistenza, gli dicono: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga» (Lc 7, 4-5). Quando poi questo centurione sa che Gesù sta venendo verso la sua casa gli manda a dire: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa» (Lc 7, 6-8). E Gesù rimase profondamente colpito e, ammirato, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,9). Era, appunto, un militare.

Ma anche negli Atti degli Apostoli – e quindi poco dopo la morte di Gesù, agli inizi della vita della Chiesa – a Cesarea conosciamo il nome di un altro militare, Cornelio, il quale era centurione della coorte italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Ecco, io voglio ricordare queste figure di soldati, che sono così vicini al Vangelo, così vicini al Signore.

San Francesco di Sales, dottore della Chiesa, scrive un libro – siamo nei primi anni del seicento – in cui dice espressamente che la vita di fede, la vita spirituale, la vita cristiana non è solo per i frati, per i vescovi, per i monaci, per le donne, per i bambini. È anche per i magistrati, è anche per gli uomini politici, è anche per i militari.

La vita cristiana non ci toglie qualcosa; se è veramente vita cristiana – e qui ritorno alla premessa che ho fatto – ci porta a fare i conti con noi stessi. Noi possiamo essere una benedizione per gli altri, all’interno della nostra professionalità. Un subalterno o un superiore possono essere – nel cuore di chi ha a che fare con loro – una benedizione, non un problema.

La vita cristiana ci obbliga tutti – tutti, nessuno escluso – a guardare più in alto di noi. Anche se avessimo il comando più alto, il grado più alto, nella Chiesa, in una società, nella politica, nell’Esercito, nella Marina, nell’Aviazione, dobbiamo guardare un pochino più in alto. C’è qualcuno che è sopra di noi e al quale noi dovremo rendere conto.

La preghiera con cui abbiamo iniziato la Messa parlava di rinnovamento e noi siamo qui, nella Messa pasquale dell’Anno giubilare della Misericordia, per chiedere al Signore il rinnovamento cristiano. Il rinnovamento cristiano non è fare semplicemente qualcosa che ieri non facevamo perché si può cambiare sia in bene che in male…

Il rinnovamento cristiano è essere più simile al Signore, è avere in noi quella fortezza che è espressione di pazienza, di bontà, di misericordia; è ricordarci – con il Vangelo – che anche la vita militare ha avuto alcuni suoi esponenti, di cui ho fatto cenno all’inizio della nostra omelia, che hanno colpito Gesù per la loro fede e per la loro umanità.

Quanto è importate declinare, mettere insieme, per un credente la fede e l’umanità. E quante volte il nostro essere credenti allontana, invece, gli altri perché siamo carenti dal punto di vista umano. Quante volte una buona umanità rappresenta la prima testimonianza cristiana nella vita di una persona.

Chiediamo al Signore, in questo Anno giubilare, la grazia del rinnovamento e la grazia di essere più simili a Lui. Teniamo a portata di mano, teniamo in tasca, teniamo sul comodino, il Vangelo. Ogni tanto leggiamone una pagina e chiediamo: “Signore come mai mi hai fatto leggere questa pagina?”. Perché qui, oggi, ci potrebbe essere forse una risposta a certi miei scontenti, a certe mie difficoltà, a certe questioni che sono chiamato a risolvere e delle quali non ho trovato ancora la soluzione…

Rinnoviamoci, dunque, nel Signore. E guardiamo al Giubileo della Misericordia come ad un rinnovamento per noi, affinché il nostro avvicinarsi al Signore diventi anche un modo diverso di essere ciò che la nostra vocazione – la nostra “professione” – ci chiede di essere ogni giorno.