Omelia del Patriarca nella S. Messa per il 30° anniversario della morte di don Germano Pattaro e il 5° anniversario della morte di don Bruno Bertoli (Venezia, Basilica di S. Marco - 5 ottobre 2016)
05-10-2016

S. Messa in occasione del 30° anniversario della morte di don Germano Pattaro e del 5° anniversario della morte di don Bruno Bertoli

(Venezia, Basilica di S. Marco – 5 ottobre 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

il Vangelo appena ascoltato – il Padre nostro nella versione di Luca – nella sua essenzialità e immediatezza ci ricorda quale debba essere, nella preghiera, il rapporto che unisce il discepolo al Signore.

Il testo è chiaro: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”  (Lc 11, 2-4).

La preghiera è il tempo in cui la grazia di Dio e la nostra libertà s’incontrano e in cui noi, in maniera personale (responsabile e libera), diciamo il nostro “sì” a Dio Padre.

Nella preghiera ciò che conta non sono le parole, la loro disposizione, la forma e il loro numero ma, piuttosto, come esse nascono in noi e perché noi le diciamo; insomma, ciò che conta è il nostro cuore, centro intimo della nostra persona.

Nel pregare – è sempre il Vangelo a ricordarcelo – non dobbiamo essere simili ai pagani che pensano d’esser esauditi convincendo Dio con le parole; questo è lo stile di chi non conosce ancora Dio.

Ciò che secondo Gesù conta nella preghiera, invece, è la fede che si esprime – come detto – nella semplicità, nella trasparenza, nell’immediatezza. Proprio a questo mira il discepolo per avere un reale accesso al Padre celeste.

E la teologia, intesa come intellectus fidei, è chiamata proprio a favorire l’immediatezza e l’autenticità di tale rapporto. La teologia, in quanto “studio” credente della Parola di Dio, non ha prima di tutto finalità accademiche; la teologia, piuttosto, appartiene alla comunità credente perché essa possa incontrare meglio Dio e, quindi, parlare con Lui e di Lui.

San Domenico di Guzman, fondatore dei domenicani, aveva fatto dello studio diuturno della Parola di Dio il fondamento del suo impegno apostolico; di lui le antiche fonti domenicane riferiscono che conosceva  a memoria tutto il Vangelo di Matteo e le lettere di Paolo e che era solito  o parlare  con  Dio o di parlare di Dio.

La teologia non nasce con le cattedre universitarie, anche se la Facoltà di Teologia appartiene al primo nucleo dell’università, come è avvenuto a Parigi. La teologia, prima d’essere un sapere universitario, appartiene alla Chiesa; prima di rispondere al modello accademico delle nascenti Università, la teologia è patristica, è monastica e sempre, secondo le modalità del tempo, esprime il rapporto fede/ragione.

Il rapporto Dio/uomo ha il suo ambito sorgivo nella stessa struttura dell’uomo e vive un momento privilegiato proprio nell’orazione, che deve essere vissuta come spazio di grazia e, però, sempre humano modo, poiché la preghiera è elevazione dell’uomo – che è “spirito”, “anima”, “corpo” – a Dio Padre che, attraverso il Figlio Unigenito e nello Spirito Santo, ci accoglie come figli.

In questa eucaristia eleviamo la nostra comune preghiera per due presbiteri veneziani che per molti furono maestri, fratelli, amici. Oggi, infatti, ricordiamo don Germano e don Bruno, rispettivamente a trenta e a cinque anni dal loro ingresso nella casa del Padre.

Due presbiteri che hanno lasciato traccia del loro passaggio tanto che il loro ricordo,  nonostante il passare degli anni, è vivo anche se il numero di quanti li hanno conosciuti – soprattutto nel caso di don Germano – va assottigliandosi. Sono presbiteri il cui ricordo rimane in quanti hanno beneficiato della loro intelligenza, della loro fede e della loro fraterna amicizia.

Sono stati due uditori e servitori della Parola di Dio; hanno dimorato in essa e, con la loro testimonianza, hanno insegnato a dimorarvi. Essi hanno fatto del sapere teologico un mezzo ordinario di pastorale. Sono stati, insomma, due servitori della vigna del Signore e quanti li hanno conosciuti sono grati per la loro testimonianza di uomini e preti.

Un prete è sempre un dono grande che il Signore fa alla sua Chiesa; il sacerdote ordinato è – nella sua persona – segno particolare di Gesù, sposo e capo della Chiesa.

Ma quando a un tale dono si uniscono anche altre doti di cuore e di mente il grazie a Dio si fa più intenso e, infatti, don Germano e don Bruno avevano – tra le altre doti – una capacità di lettura della realtà a tutto tondo che aiutava la fede ad essere sempre giustamente critica, concreta, incarnata.

Certamente la cultura non risponde alle lauree conseguite, anche se il rigoroso cammino teologico è necessario a tutti per uscire dal proprio mondo interiore ed è premessa per evitare di rinchiudersi in una nicchia che ci rende incapaci di instaurare un confronto critico e obiettivo con gli altri e con l’Altro. Sì, è necessario uscire dell’autoreferenzialità. E una buona teologia – se unita a un vero cammino spirituale – certamente aiuta.

Farsi carico del complesso e variegato ambito della pastorale della cultura non è alla portata di tutti i presbiteri; richiede, infatti, dedizione e impegno non comuni. Bisogna saper creare spazi di studio, di riflessione, di saggia e ponderata critica per mettere a fuoco e maturare argomenti e tematiche che, in taluni casi,  ancora non appartengono alla comune riflessione; sono le questioni cosiddette – non sempre a proposito – “di frontiera” e così nella comunione ecclesiale – di cui comunque il Vescovo è garante – si è chiamati a intravvedere strade nuove che potranno esser percorse poi da chi seguirà.

Certo, la comunione ecclesiale non consiste nell’unanimismo ma nell’esprimere l’unità della fede nella pluralità delle forme e dei linguaggi; tale unità deve però esser garantita. In questi termini, la pastorale della cultura è grande benedizione per la Chiesa.

Don Bruno Bertoli – come è stato fatto notare – voleva che quanti si impegnavano a  livello ecclesiale nell’ambito della cultura non si chiudessero mai in sé ma possedessero un respiro ampio. Così si spiega il suo impegno a tenere vivo nei modi più disparati e appropriati il discorso educativo con i giovani; tale suo sforzo non sempre trovò molti capaci o disposti a seguirlo e non di rado rimase inascoltato.

In un colloquio avvenuto con un suo antico alunno, quando ormai era in età avanzata, don Bruno – mostrando il suo animo riservato, quasi pudico – confidò:  “Non lo dicevo per non suscitare sorrisi, ma io vi volevo bene…”.

La sua preparazione storica si evidenziava in modo eccellente nella sua capacità di sintesi; sapeva richiamare ad unità aspetti differenti di una questione, non si fermava mai a una valutazione parziale, riduttiva e incompleta ma, per quanto possibile, mirava a ricomporre il tutto in un’unità superiore.

Il suo insegnamento era frutto di un ponderato cammino critico, di un dialogo vario e articolato che coglieva differenti contributi; in tutto ciò evidenziava la capacità diacronica propria dello storico. Don Bruno era storico di formazione e per un periodo non breve della vita ne svolse il compito; così era in grado di servirsi dei diversi linguaggi delle differenti epoche all’interno delle quali il sapere e l’operare umano procedono insieme.

Don Germano, uomo di grande umanità, era profondo studioso e, proprio nello studio serio e sistematico, impiegò al meglio anche il tempo della malattia che, quando lo costringeva a cure particolari, gli concedeva però ampi spazi di tempo che don Germano adoperò in letture prolungate; conobbe così, in modo approfondito,  Dostoevskij e Guardini.

Nella prima fase della sua vita, l’impegno di don Germano fu rivolto in particolare all’insegnamento, alle conferenze, ai dibattiti, a predicazioni in modo itinerante, fu questo il tempo dell’insegnamento della patrologia, della teologia fondamentale e dell’ecumenismo in cui formò i futuri preti della chiesa veneziana.

A tale periodo ne seguì un altro che coincise con gli ultimi anni della sua vita quando dovette fare i conti con le condizioni di salute che, sempre più, lo limitavano; si diede, allora, alle pubblicazioni sulla famiglia, sulla teologia contemporanea, sull’ecumenismo e proprio in ambito ecumenico emerge – e rimane – la sua affermazione, ad un tempo lapidaria ed eloquente: “Le chiese divise come chiese malate”.

Richiamo poi questo pensiero di don Germano che ci riporta a ciò che è stato detto all’inizio sul sapere teologico. “…il teologo – scriveva – deve essere, prima che un uomo di scienza, un credente… Credo che molti imbarazzi nella teologia attuale siano dovuti a una mancata sottolineatura di questa condizione per cui accade che la teologia accampa in qualche modo dei diritti sulla fede e tende a passarle sopra… Una seconda osservazione, però – riprende don Germano -, mette in guardia dal pericolo opposto. Se la teologia è fondata sulla  fede che  apre alla  parola di Dio, deve insieme esprimersi attraverso le parole e le esperienze degli uomini. E’ la regola dell’Incarnazione stessa del Cristo… ” (cfr. Germano Pattaro, Riflessioni sulla teologia post-conciliare, AVE Roma 1970, pag.16).

Don Bruno e don Germano, attraverso la fede ricca di umanità, hanno fatto loro il “dramma” della Parola di Dio che entra nella storia e – come uomini e preti – l’hanno saputa cogliere ed esprimere.

La fede, allora, diventa quel sapere critico, ovvero ricco di domande e di curiosità che sono frutto di cuori che credono e vivono la comunione ecclesiale in una fede che vuole essere sempre amica della ragione.

Credere non significa, infatti, rinunciare ad avere un cuore di carne e un’intelligenza critica che, insieme, pongono quelle domande che la preghiera compie nel tutto che – secondo la Rivelazione cristiana – è l’uomo pensato e voluto da Dio come sua immagine.

E’ bello, e motivo di un grazie sincero al Signore, poter incontrare nella sua vigna operai che non tanto sono persone di cultura ma, innanzitutto, affermano una appartenenza in cui, appunto, la fede porta a pienezza l’umano che è in ciascuno di noi.

Verità e prassi pastorale sono infatti come due registri di uno stesso strumento che domandano d’essere perfettamente accordati; è proprio dalla dottrina chiara e radicata nell’evangelo che consegue una pastorale accogliente  ma anche saggiamente critica nei confronti del pensiero dominante che, di volta in volta, riflette le culture esistenti. I chiari indirizzi pastorali sono, infine, espressioni della carità pastorale.

Auguro a chi si riconosce nell’arduo cammino della pastorale della cultura di essere prima di tutto persone di fede e di non smarrirsi in sterili questioni intellettuali o in ideologie superate, ma di saper guardare nella Chiesa e con la Chiesa al Cristo Risorto –  via, verità e vita – come hanno saputo fare questi amati preti veneziani, don Germano e don Bruno.