Omelia del Patriarca nella S. Messa per i Giubilei Sacerdotali (Venezia, Basilica della Salute - 9 giugno 2016)
09-06-2016

S. Messa per i Giubilei Sacerdotali

(Venezia, Basilica della Salute – 9 giugno 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

Carissimi ,

ringraziamo il Signore per il dono del sacerdozio. Il nostro grazie oggi si unisce in modo particolarissimo a quello dei nostri confratelli che ricordano il primo anno, i venticinque, cinquanta, sessanta e settanta anni di ordinazione presbiterale.

Come prima cosa, però, permettetemi ricordare con affetto il cardinale Loris Francesco Capovilla che il Signore ha chiamato a sé lo scorso 26 maggio. Don Loris è stato il fedele segretario e l’appassionato custode della memoria dell’antico patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, san Giovanni XXIII; era uomo spontaneamente portato al dialogo fraterno, cordiale, sereno.

Mentre chiedo che dal cielo don Loris ci accompagni con la sua preghiera, ricordo che giovedì 30 giugno, alle ore 18.00, nella Basilica di San Marco –  a lui sempre così cara e presente – sarà celebrata l’Eucaristia in suo suffragio; tutti – presbiteri, diaconi, consacrati e fedeli laici – sono invitati.

Ritornando all’odierna bella giornata di festa, tutti sappiamo che date e anniversari rivestono un significato importante per noi uomini che non solo viviamo nel tempo ma siamo plasmati dal tempo. Il tempo, infatti, non è solo la realtà in cui ci muoviamo ed esistiamo – e senza la quale sarebbe problematico anche solo immaginare la nostra vita  – ma è la realtà di cui siamo plasmati.

Noi siamo anche il tempo che abbiamo vissuto (gli anni che abbiamo) e il modo in cui l’abbiamo vissuto; il tempo non è mai solo un fatto cronologico ma crescita. Vivere nella fedeltà, ogni giorno, le promesse sacerdotali ci segna e scolpisce in noi il profilo dell’autenticità sacerdotale.

E proprio attraversando le differenti stagioni della vita attuiamo la nostra umanità e il nostro sacerdozio che, se per un verso sono dono, per un altro sono nostra scelta personale e nostra responsabilità.

La nostra vita – per molti aspetti – non dipende da noi, perché ci è donata. Eppure, nella nostra vita, tanto dipende da noi, dal nostro spenderci, dalla nostra creatività, dal nostro ottimismo, dalla nostra fede. Nella nostra vita – lo sappiamo – alcune cose non dipendono da noi; altre, invece, sono il risultato di nostre scelte.

L’Antico Testamento presenta  la vita lunga come un dono particolare di Dio; all’epoca dei Patriarchi un’esistenza lunga di anni è sinonimo di benevolenza divina e aver abitato tutte le stagioni della vita è motivo per ringraziare Dio.

Uno dei racconti più noti della storia della salvezza è la vicenda di Giobbe; essa riveste un valore universale. La domanda che ci si pone nel libro di Giobbe è: se Dio è buono perché il giusto soffre? A prescindere dalla risposta data, il libro si conclude in questo modo: “Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni” (Gb 42,16-17).

L’autore sacro tiene a precisare che Giobbe fu benedetto da Dio con beni abbondanti e con una vita lunga “morì, vecchio e sazio di anni ”. E’ un modo, legato ad una teologia ancora arcaica, con la quale si vuole ribadire che il giusto non è abbandonato da Dio e che la sua vita, ricca di anni, è una benedizione di Dio.

L’uomo, in quanto essere storico, non può esprimere le sue risorse in un istante; ha bisogno di tempo, di doni, di opportunità, di stimoli che gli consentano d’esprimersi mostrando, in tal modo, la sua consistenza o inconsistenza.

Chi ti ha creato senza di te – ricorda sant’Agostino – non ti salverà senza di te. Questa affermazione del santo vescovo di Ippona dice come Dio sia all’inizio della nostra vita e ci accompagni momento dopo momento; non si sostituisce però a noi. Anzi, Egli esige che fino in fondo – in modo libero – facciamo la nostra parte; qui si dà la risposta a tante domande sul bene e sul male nella storia.

La ricorrenza dei giubilei – venticinque, cinquanta, sessanta e settanta anni dall’ordinazione presbiterale – è occasione per ringraziare Dio; ciascuno, all’interno della sua storia personale, dirà il suo grazie a persone e a comunità che oggi forse non ci sono più ma che, proprio per questo, si avvertono a sé più vicine e care.

E’ questo un ambito personale, intimo, che è esplorabile solo da chi l’ha vissuto; sta a noi unirci dall’esterno, con discrezione e affetto sacerdotale, a questo momento di grazia.

Infatti, solo chi ha vissuto tale storia personale può “rileggere” la propria vita nel Signore e col Signore – sull’esempio di Maria di Nazareth – e innalzare il suo personale Magnificat riconoscendo, come Maria, la presenza e la grandezza di Dio nella sua vita e scorgendovi, a distanza di anni, una Provvidenza che prima non riusciva a cogliere. Chiediamo, come dono di questo giorno, che il Signore doni questa particolare luce e sapienza.

Lo sguardo di Gesù – a un tempo amorevole ed esigente – si è posato, un giorno di tanti anni fa, anche su di noi e ci ha letto “dentro”, aiutandoci ad andare oltre le nostre fragilità e timori, e ci ha chiesto di seguirlo dandoci fiducia; lo stesso sguardo – che, anche oggi, Gesù continua a posare su ciascuno di noi con fiducia e amore, come duemila anni fa – lo posò sul giovane ricco invitandolo alla sua sequela.

Marco sottolinea: “… Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!»” (Mc 10,21). Sì, Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò.

L’amore di Gesù è appello e domanda che rivolge a tutti noi in questo momento affinché, a nostra volta, possiamo essere capaci di amore, tenerezza e perdono. E questo, per un prete, è la cosa più importante nel ministero.

La domanda che Gesù rivolge a Pietro per ben tre volte è chiara: “ “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?” (Gv 21,15).

Misericordiosi come Lui, nell’anno del Giubileo: questo per noi è un traguardo irraggiungibile ma vale la pena mettersi un cammino. È una meta verso la quale tutti, con fiducia, dobbiamo incamminarci ma, in modo particolare, tale strada dev’essere aperta da noi presbiteri – siamo gli “apripista” delle nostre comunità – per il bene nostro e della nostra gente a cui siamo mandati.

Quest’anno i venticinque, cinquanta, sessanta e settanta anni di sacerdozio cadono nell’anno giubilare straordinario della Misericordia. L’occasione è propizia per rileggere, secondo tale prospettiva, il Vangelo che abbiamo appena ascoltato: “…se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli… chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio… Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 20.22-24).

Il tema è il perdono e, quindi, il richiamo all’altare per il presbitero – che presiede l’eucaristia ed è ministro della riconciliazione – risuona in modo del tutto particolare rispetto al suo compito ecclesiale.

Questo Vangelo, allora, riguarda noi sacerdoti ordinati in modo particolare. E quale senso dobbiamo dare a questo passo del Vangelo partendo dal nostro “specifico” di ministri dell’altare? Abbiamo, infatti, ascoltato: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24).

Se chi si reca all’altare è colui che presiede l’eucaristia e ascolta le confessioni, allora, egli deve saper esprimere una misericordia e un perdono che dicano, in modo specifico, tale legame particolare con la presidenza dell’eucaristia e il ministero del perdono nel sacramento della riconciliazione.

Il presbitero non deve aver solo chiara percezione del suo peccato, in termini di responsabilità personale, e il desiderio di perdonare ed esser perdonato, ma – per il ministero che esercita nella Chiesa – deve anche farsi carico, secondo la sua specifica ministerialità, del peccato altrui.

Non è quindi ancora sufficiente, per lui, perdonare sempre, tutti e prontamente; deve, infatti, esser capace di una percezione più ampia e avvertire il peccato altrui come se gli appartenesse in modo “forte”, ossia avvertendo nei confronti del peccatore un’empatia e cioè una capacità d’immedesimarsi e una solidarietà “specifica” che non si fonda sulla sola comune appartenenza alla stirpe di Adamo.

In quanto sacerdoti ordinati, ossia come coloro che sono chiamati a presiedere l’eucaristia e sono ministri del sacramento della riconciliazione, siamo chiamati – mentre ci rechiamo all’altare – a farci carico del peccato altrui come hanno fatto il curato d’Ars, padre Pio da Pietrelcina, padre Leopoldo Mandic.

Per tutti e tre si potrebbe fare lo stesso discorso, ma qui richiamo solo la testimonianza di padre Leopoldo. Alcuni suoi confratelli lo ritenevano non capace di amministrare il sacramento della riconciliazione perché troppo indulgente; tale diceria – che, come talvolta capita nelle comunità, parte dai peggiori – si diffuse, lo mise alla prova e fu causa di sofferenza per il piccolo frate dalmata.

In lui, invece, vi era una concezione esigente e ineccepibile della divina misericordia, come avviene in tutti i veri ministri del confessionale e diversamente da chi ancora non è entrato nella grandezza di tale ministero; è, quindi, lo stesso confessore che prende su di sé quanto i penitenti non sono ancora in grado di fare.

Questa è la logica che sempre ha mosso e muove i veri ministri del sacramento della riconciliazione che lo amministrano riversando su di sé la penitenza che il penitente non ha la forza di fare. Andare degnamente all’altare per il presbitero vuol dire, allora, non solo perdonare il fratello ma farsi carico del suo peccato.

Proviamo, dunque, a recarci all’altare non solo pensando se abbiamo chiesto e donato perdono ma se ci siamo fatti, almeno in parte, carico del suo peccato in una solidarietà espiatrice.

Sia questo il nostro modo presbiterale di vivere l’Anno della misericordia e del perdono che ci deve trovare impegnati non in modo generico ma secondo la nostra specifica vocazione di presbiteri; così faremo un nostro cammino giubilare riscoprendo la nostra vocazione presbiterale e operando la nostra conversione come chi è chiamato a presiedere l’eucaristia e ad ascoltare le confessioni dei propri fratelli.

Infine, come presbiteri, siamo chiamati ad esaminarci su tutte le opere di misericordia corporali e spirituali, nessuna esclusa, ma – come preti – in particolare interroghiamoci su quella che ci invita ad ammonire i peccatori.

Certamente non si deve giudicare e neppure limitarsi a chiarire teologicamente i concetti o i principi; non si tratta neanche di scusare tutto e tutti confondendo la misericordia con l’accondiscendenza buonista ma – come ci esorta Papa Francesco – bisogna farsi compagno di strada del fratello e della sorella sminuendo in nulla il senso del peccato, sempre incoraggiando a un cammino che sia reale presa di distanza dal peccato, proponendo con amore e verità una morale della virtù che illumini la coscienza non con il pensiero unico dominante ma con la luce della Parola di Dio.

Ai nostri carissimi confratelli che oggi ricordano gli anniversari delle loro ordinazioni rinnoviamo l’augurio di una vita sacerdotale che sia lunga ma soprattutto ricca del Signore. La Madonna della Salute – che, come madre tenerissima, veglia sul nostro Seminario – sempre accompagni e sostenga, insieme ai nostri seminaristi, i presbiteri veneziani e tutti renda gioiosi nel ministero, a servizio di Gesù e dei fratelli. A Lei, con grande fiducia, ci affidiamo toto corde.