S. Messa per i Giubilei Sacerdotali
(Venezia, Basilica della Salute – 8 giugno 2017)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Carissimi confratelli,
anche quest’anno diciamo il nostro grazie per il dono del sacerdozio e, innanzitutto, per i preti che il Signore ha posto lungo il percorso della nostra vita. Alcuni di noi hanno maturato la loro vocazione sacerdotale proprio guardando a loro; li vogliamo ricordare oggi e, in modo particolare, quelli che ci hanno preceduto e ci guardano dal cielo.
Poi il nostro grazie va a Dio poiché, nonostante i nostri limiti, ci ha chiamati al ministero sacerdotale. Oggi festeggiamo i confratelli che ricordano il primo, il venticinquesimo, il cinquantesimo e il sessantesimo anno di ordinazione.
Desidero riflettere con voi su quanto la liturgia ci offre in questi giorni successivi alla Solennità di Pentecoste e all’inizio del Tempo Ordinario.
La prima lettura – tratta dal libro di Tobia – ci fornisce lo spunto per meditare sulla figura dell’uomo giusto. Ricordo che il libro di Tobia – composto intorno al III o II a.C. – appartiene al genere delle novelle edificanti e non è, quindi, una vera storia.
La vicenda del vecchio Tobi permette di istituire un confronto con un più noto personaggio dell’Antico Testamento: Giobbe. Da tale confronto possiamo ricavare alcune considerazioni utili per la nostra vita di preti e per il nostro presbiterio; ricordo come il libro di Tobia viene, in un certo senso, considerato come il compimento di quello di Giobbe.
Come detto, Tobi – padre di Tobia – è figura meno nota di Giobbe, ma entrambi fanno parte della rivelazione cristiana e sono ripresi dalla liturgia della Chiesa.
In questa settimana – nona del Tempo Ordinario – la prima lettura della S. Messa (per l’anno dispari) è tratta proprio dal libro di Tobia mentre la prima biblica dell’Ufficio delle Letture è ricavata dal libro di Giobbe.
Il Dio di Tobi è il Dio dell’Alleanza, il Dio di Giobbe è il Dio della creazione; entrambi, però, sono amici di Dio ed entrambi subiscono prove umanamente inspiegabili. Sì, nonostante le loro vite irreprensibili, gli eventi si accaniscono contro di loro e così – provati duramente – diventano oggetto di derisione, critiche, sospetti da parte di amici, di familiari e delle stesse mogli.
Tobi e Giobbe sono posti dinanzi all’ agire di un Dio che sconcerta; Dio, l’Onnipotente, Colui che è il giusto e il misericordioso, si accanisce e pare puntare il dito contro di loro senza motivo; sono duramente provati, tentati e lasciati soli.
Tutto questo non ha spiegazioni umane; accade in modo gratuito e assurdo. Tobi e Giobbe sono, quindi, due giusti provati, che soffrono senza motivo; entrambi stanno alla presenza di Dio ma si rapportano a Dio in modi differenti. Sia Tobi sia Giobbe sanno di non aver mancato, di non essersi macchiati di colpa; eppure sono maltrattati, derisi e – pare – abbandonati.
Verrà loro meno anche il conforto dei vincoli più sacri: quelli familiari, tanto che le stesse mogli, ad un cerro punto, si ribelleranno. E Tobi si sentirà dire da Anna: “Dove sono le tue elemosine… lo si vede bene da come sei ridotto!” (Tob 2, 14).
Il dolore fisico, la sofferenza spirituale, le ingiustizie, purtroppo, non sempre suscitano comprensione, vicinanza, affetto; al contrario, possono essere motivo di giudizi e accuse malevoli.
In tali circostanze nascono spontanee alcune domande: “Perché a me?”, “Che senso ha tutto ciò?”. E infine: “Chi è un tale Dio?”. Sono domande utili a noi e alle nostre comunità.
Giobbe è l’uomo che soffre ed è provato ingiustamente. Sta di fronte a Dio e grida la sua innocenza arrivando a dire: piuttosto che continuare a maltrattarmi, fammi morire.
Giobbe, quando parla, si mostra sicuro della sua innocenza, ignaro di peccato e vuole che siano affermate le sue ragioni; nessuno deve poter dubitare della sua onestà.
Giobbe è realmente persona fedele e pia, ma la foga e l’inquietudine nell’affermare la sua innocenza dicono un atteggiamento ancora troppo umano.
Tobi si presenta, invece, in modo differente. Come Giobbe, appare uomo giusto, misericordioso e integro e ama il suo prossimo.
Egli appartiene agli Israeliti che, dopo la caduta del Regno del Nord, sono stati deportati a Ninive. Nonostante ciò, pur in terra straniera, continua a osservare i precetti del Signore e soprattutto il comando del Levitico: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lev 19,18).
Per lui amare il Signore con tutto se stesso – in terra d’ esilio – vuol dire amare il suo popolo, compiendo atti di carità concreti verso i suoi consanguinei; per questo, anche a rischio della vita, arriva a seppellire i morti, ovvero a compiere l’ultimo atto di carità verso un fratello.
Così, in modi diversi, Tobi e Giobbe vivono il tempo della prova. In Giobbe Dio si manifesta come pura trascendenza, un Dio che è “altro” rispetto all’uomo, un Dio lontano, insondabile, inattingibile; la religiosità di Giobbe è quella cosmica.
Nel libro di Tobia, invece, Dio si manifesta come Provvidenza e sapienza che prende la forma della legge donata da Dio al popolo e che si prende cura dell’uomo inviando il suo angelo a sostenerlo nelle prove; è la religione dell’Alleanza.
Al grido di Giobbe si oppone l’abbandono fiducioso e la preghiera di Tobi; all’ineffabile e trascendente Dio di Giobbe, che però pare abbandonare l’uomo al suo destino, corrisponde – nel libro di Tobia – la Provvidenza che accompagna l’uomo, passo dopo passo, e se ne prende cura anche attraverso la presenza dell’arcangelo Raffaele come guida divina.
Nel libro di Tobia non è Satana che riceve da Dio il potere di tentare l’uomo ma è, appunto, l’arcangelo Raffaele che viene mandato per accompagnare Tobia nel lungo viaggio che Dio stesso ha disposto per lui.
Così – secondo il noto detto di Pascal – possiamo dire che leggendo il libro di Giobbe, il non credente può trovare motivi ulteriori per affermare la sua incredulità mentre il credente può scorgere motivi per purificare ulteriormente la sua fede che diventa così ancor più autentica e vera.
L’Antico Testamento – secondo la comune opinione – contempla in Giobbe il giusto per eccellenza; giusto è colui che, nonostante la prova o, meglio, proprio attraverso la prova, non viene meno e diventa amico di Dio.
Nella lettera di Giacomo leggiamo: “Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che sono stati pazienti. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione” (Gc 5, 10-11).
E Tobi, a ben vedere, s’inserisce con la sua propria specificità in tale linea; egli vive, ogni giorno, in umiltà la sua fedeltà a Dio. Tobi non è chiamato a restaurare Israele e a ricondurre il popolo nella terra promessa. No, concluderà la sua vita come esule in terra straniera.
Quanto detto fino a qui di Giobbe e Tobi non sembri qualcosa di lontano dalle nostre vite; al contrario, costituisce per noi un messaggio da riscoprire nel nostro ministero e nella vita delle nostre comunità.
Mentre Giobbe rivolge a Dio la domanda accorata ed esigente – quasi la pretesa di conoscere il perché delle prove e sofferenze percepite come ingiuste – in Tobi notiamo, invece, l’umile e quotidiano servire Dio nei fratelli nel silenzio, nella carità verso gli altri esuli, crescendo in rettitudine e santità personale.
Tobi è tra i deportati a Ninive, diventa cieco dopo aver compiuto un atto di carità (la sepoltura di un morto) e in più si viene a trovare a vivere in miseria, ma nonostante queste prove continua a testimoniare la fedeltà all’Alleanza, senza chiedere a Dio la ragione di quanto sta accadendo.
Il libro di Tobia insegna così che Dio, “innanzitutto”, non guarda alla restaurazione politica, anche se si tratta della Teocrazia d’Israele, e neppure al ritorno del popolo alla terra promessa; ciò che Gli sta a cuore è la singola persona, la sua giustizia, la sua santità.
Al Dio provvidente sta a cuore non la ricostruzione di uno Stato, non le realtà materiali o l’efficienza di una struttura, ma la santità della persona e la sua giustizia. Questa è la dottrina altissima e imperitura contenuta nel libro di Tobia.
Tobi – come si diceva – non ritornerà più in patria e vivrà fino alla morte in terra straniera, conducendo una vita apparentemente inutile; in realtà Tobi sempre, in ogni momento, è sotto lo sguardo di Dio e lo è come il giusto che, accettando con fede e umiltà la volontà di Dio, rimane servitore dell’Alleanza e così matura in santità dinanzi a Dio.
Mentre Giobbe chiede insistentemente il perché del suo destino, e quasi vorrebbe una rivincita per le sue sofferenze e umiliazioni, Tobi accetta di vivere ogni giorno nella fede e in semplicità di cuore.
Successivo al libro di Giobbe, il libro di Tobia ne è – come detto – il compimento; sul piano letterario si colloca a un livello inferiore rispetto a quello di Giobbe ma, per la dottrina che ci trasmette, dona un insegnamento non inferiore. In Tobia abbiamo una diversa presentazione della giustizia e dell’uomo giusto; tale giustizia risponde alla maturazione di chi sta dinanzi a Dio e, nella fede, senza venire meno.
Giobbe presenta, quindi, un Dio che, anche quando risponde all’uomo, non sembra stabilire un reale rapporto con lui; al contrario, Tobi mostra un Dio vicino e fedele e compagno di strada dell’uomo.
Tobi matura la sua fede attraverso prove che rendono giusti attraverso l’umiltà e la pazienza; in lui abbiamo la figura dell’uomo che, in qualche modo, anticipa in semplicità e verità la preghiera di Gesù nel Padre nostro: “…sia fatta la tua volontà” (Mt 6,10). Giobbe, invece, si lamenta, geme, chiede le ragioni delle sue sofferenze. Tobi, al contrario, non pretende e non chiede ragioni, si affida solo a Dio. Non è l’eccellere sugli altri, non è la ricchezza o l’esercizio di una missione di leader che rende giusti ma, piuttosto, il timore di Dio, ossia il perseverare nella santità e fedeltà.
Carissimi confratelli, guardiamo – in questo tempo in cui la Chiesa lo propone nella preghiera liturgica – al libro di Tobia e, in particolare, riflettiamo sulla figura del vecchio Tobi.
Tobi non compie azioni grandi e neppure pretende di capire, quasi provocando Dio, come fa Giobbe convinto della sua innocenza e giustizia. Tobi non recrimina sulla sorte che gli è riservata; si limita solo a vivere nella fedeltà a quanto Dio ha disposto, giorno dopo giorno, per lui. Anche questo, cari confratelli, è dire il nostro “sì” di presbiteri all’alleanza che Dio ha stipulato con noi e, tramite nostro, con le nostre comunità. Questa è la vera carità pastorale disinteressata di chi serve.
A tutti l’augurio di gustare la grandezza del dono ricevuto con l’ordinazione, assaporandone la dimensione personale e comunitaria. Siamo preti e facciamo parte di un solo presbiterio, con i confratelli e il vescovo. E la vera spiritualità presbiterale deve arrivare, prima o poi, a nutrirsi di queste ricchezze.
La Madonna della Salute – che da duecento anni protegge il nostro Seminario – ci accompagni tutti ma soprattutto sostenga chi sta attraversando momenti di fatica spirituale, di solitudine, di sofferenza fisica o i disagi legati all’età.
Poniamo nel Cuore Immacolato di Maria le nostre persone, il nostro ministero, il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro, la nostra eternità e tutto quello che Dio vorrà riservarci. Mettiamo qui le nostre piccole persone e poche cose, in un “totus tuus” davvero coestensivo all’intera nostra storia.
A voi tutti, cari confratelli, con affetto, i miei auguri e la mia preghiera che si fa particolarissima per i festeggiati di oggi e per le loro comunità.