Omelia del Patriarca nella S. Messa per i funerali di monsignor Antonio Meneguolo (Venezia / Basilica Patriarcale S. Marco, 3 febbraio 2020)
03-02-2020

S. Messa per i funerali di monsignor Antonio Meneguolo

(Venezia / Basilica Patriarcale S. Marco, 3 febbraio 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

come comunità cristiana stiamo per dare il saluto di commiato e dire il nostro grazie a don Antonio. La nostra preghiera sale a Dio da quello che, per don Antonio, fu lo spazio liturgico più amato: la Basilica di San Marco.

Ogni veneziano dice con affetto: “la mia Basilica”. E lo dicono anche coloro che la frequentano di rado, non tutte le volte che lo desidererebbero; è bello questo attaccamento alla nostra Chiesa cattedrale e alla Basilica simbolo delle nostre terre venete.

Don Antonio, per anni, fu arcidiacono della Basilica e procuratore; era legatissimo alla Basilica ed anzi la sentiva parte di sé. Esercitare il ministero fra queste mura, costruite per custodire le spoglie dell’evangelista Marco, era per lui un vero dono. E quante volte – recitando il rosario, come era solito fare – avrà ripetuto, fra navate e presbiterio, l’invocazione “Pax tibi Marce evangelista meus” !

La leggenda narra che un angelo avrebbe rivolto proprio questo saluto all’Evangelista Marco appena sbarcato su un’isola del paludoso litorale veneto. Il saluto profetizzava come proprio tra gli abitanti delle terre venete l’evangelista Marco avrebbe trovato riposo, culto e onore perenni. “Pax tibi Marce evangelista meus” è così divenuto il motto della città riprodotto nel libro del Vangelo che il leone alato – simbolo dell’Evangelista – tiene aperto indicando, per Venezia, il tempo della pace.

Don Antonio – uomo di grande fede – amava i tesori d’arte della Basilica ma i capolavori, alla fine, per lui avevano il loro senso ultimo nel richiamare la vera Casa di Dio, quella del Cielo, di cui la Basilica di San Marco – detta la Basilica d’oro – era splendida ma solo pallida ed evanescente immagine.

Don Antonio, della Basilica, conosceva ogni angolo; dei mosaici sapeva tutto: storia, significato, restauri. Ogni cosa gli era nota. Per lui, in Basilica, ogni momento doveva essere occasione di catechesi, opportunità per far risuonare (catechesi vuol dire proprio questo) – la fede in Gesù attraverso il bello, l’attraente, lo splendore.

La Basilica era, così, uno strumento per annunciare il Vangelo anche al visitatore più frettoloso, distratto e meno sensibile a Dio e al suo Mistero salvifico.

Alcune sue parole esprimono il suo animo sacerdotale, l’uomo di fede che sapeva andare e sempre andava oltre la bellezza, oltre il capolavoro, per dare spazio alla fede, l’inizio della nostra relazione personale con Dio; senza fede, infatti, non vi sarebbero la speranza e l’amore cristiano. Don Antonio diceva: “forza e… segreto di San Marco stanno nel fatto che, semplicemente, è la presentazione della storia della salvezza, del mistero trinitario e della nascita della Chiesa. È bellissimo”.

Certo, la fede è dono e grazia di Dio che, però, interpella sempre l’uomo, ne plasma la natura e la porta a pienezza. In lui fu importante l’incontro con don Giussani e il Movimento di Comunione e Liberazione di cui fu anche assistente diocesano.

Carissimo don Antonio, ho visto crescere la tua fede nel tempo della faticosa e non breve malattia, quando il Signore in maniera sempre più esplicita ti manifestava che l’ora della chiamata si stava avvicinando; ho un ricordo vivo di quegli incontri, a casa tua e in ospedale.

Qui ringrazio quanti generosamente si sono alternati al capezzale di don Antonio, soprattutto nelle ultime settimane: i confratelli, i laici, in particolare la signora Vittoria che, per lunghi anni, lo ha accudito.

Il suo stile riservato e quasi schivo fu almeno in parte vinto dalla crescente fragilità che si impadroniva del suo corpo, man mano che la malattia faceva il suo corso. E allora capitava, anche di frequente, di vederlo aprirsi in un sorriso luminoso, sereno, quasi da fanciullo.

Cari amici, il Vangelo appena proclamato ci riporta le parole di Gesù che ci ricorda e con affetto ci rassicura: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via” (Gv 14,2-4).

La “chiesa-edificio” non è una fra le tante case della città ma è “la” casa, la casa per eccellenza, la casa che ci ricorda come la nostra ultima e vera dimora sia il cielo, la casa che dice a noi uomini che siamo fatti per l’eternità perché siamo immagine di Dio.

La prima lettura poi ci avverte che, su questa terra, la bellezza è solo una pallida, sbiadita e inadeguata immagine della bellezza del Cielo, un tenue richiamo alla bellezza della vera vita a cui Dio ci invita per l’eternità: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).

Per l’apostolo Giovanni, poi, tale bellezza e tale infinito splendore non sono qualcosa d’esterno a noi ma riguardano noi stessi, le nostre anime, i nostri corpi e la nostra persona nella sua totalità. Insomma, come scrive Paolo nella lettera ai Romani, noi – con l’intero cosmo – attendiamo, nelle doglie del parto, la nuova e vera nascita in Dio (cfr. Rm. 8,19-25).

La Chiesa – nella sua verità “più” intima – è fatta di pietre vive che palpitano della stessa vita di Dio a noi donata nel Figlio, attraverso il Suo sacrificio glorioso di cui l’altare è il segno visibile, tangibile e concretissimo. In quanto luogo del Cristo vincitore della morte, l’altare – nell’azione liturgica che vi si svolge – è anticipazione della vita eterna, la vita del cielo, la vera vita, che noi già viviamo in questa terra ma ancora nella fede. Sì, siamo salvati nella speranza (cfr. Rm 8,24).

Don Antonio ha lasciato la vita umbratile per la luce; ha lasciato la figura  per la realtà. Le nostre chiese devono essere belle non per amore del lusso, dello sfarzo o per una mondana esibizione dei celebranti ma perché il bello annuncia il mistero di Dio e ha un nome: Gesù Cristo.

Mentre innalziamo la nostra preghiera di suffragio per il nostro caro don Antonio – canonico arcidiacono, procuratore di San Marco -, desidero richiamare quanto di solito diceva ai visitatori, proprio adesso che ora vede la verità piena e luminosa.

Così si esprimeva: “Coloro che vengono in Basilica ne rimangono affascinati perché parli e presenti a loro un fatto e una bellezza di cui si sentono partecipi. Quando si arriva davanti alla Pala d’oro c’è un momento quasi estatico che stupisce e io dico sempre: questa è la bellezza di Dio, è stata voluta proprio così per presentare il suo Mistero”.

Ora che, caro don Antonio, vedi faccia a faccia il Mistero di Dio, aiuta con la preghiera la Chiesa che in Venezia perché sappia vivere una vita di carità, di verità e di bellezza in cui chi è povero sia accolto e, fin d’ora, posto – come sarà nel convito celeste – al primo posto.

Ricordo qui tutti coloro che a diverso titolo sono legati a don Antonio: i familiari, i confratelli, gli amici, la fraternità di Comunione e Liberazione, i procuratori di San Marco, i custodi della Basilica e coloro che lo hanno aiutato, in particolare la signora Vittoria, con la presenza e la cura nel tempo della malattia. Un grazie anche ai tanti che si sono fatti presenti con uno scritto.