Omelia del Patriarca nella S. Messa nella XI domenica del tempo ordinario con i partecipanti all’incontro triveneto dei gruppi del Rinnovamento nello Spirito Santo (Aquileia, 12 giugno 2016)
12-06-2016

S. Messa nella XI domenica del tempo ordinario con i partecipanti

all’incontro triveneto dei gruppi del Rinnovamento nello Spirito Santo

(Aquileia, 12 giugno 2016)

Omelia del Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia

 

           

Carissimi amici e amiche del Movimento del Rinnovamento nello Spirito,

ringraziamo il Signore di questa celebrazione eucaristica che ci vede riuniti qui ad Aquileia, il luogo dove per la prima volta fu annunciato il Vangelo nelle terre del Nordest; lo Spirito Santo ci aiuti, in particolare, a vivere il grande dono del Giubileo Straordinario della Misericordia.

La preghiera della Colletta che abbiamo appena recitato ci introduce bene nel cuore di questa eucaristia. Ne riprendo le parole: “O Dio, che non ti stanchi mai di usarci misericordia, donaci un cuore penitente e fedele che sappia corrispondere al tuo amore di padre, perché diffondiamo lungo le strade del mondo il messaggio evangelico di riconciliazione e di pace”. La seconda lettura (Gal 2,16.19-21) ci ha poi ricordato che siamo giustificati dalla fede e non dalle opere da noi compiute; le opere, infatti, esprimono solamente la nostra fede manifestandone la realtà. E, quindi, o la fede cambia la nostra vita o non è ancora la fede che Gesù attende da noi e dalla sua Chiesa.

La bolla d’indizione dell’Anno giubilare richiama proprio il realismo della fede e della vita cristiana quando sottolinea che “la predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordi perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli… Non possiamo sfuggire alle parole del Signore e in base ad essi saremo giudicati” (Papa Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario Misericordiae Vultus, n.15).

Il Vangelo ci pone dinanzi il gesto di una donna di cui non ci viene detto il nome e che, quindi, rimane anonima: Ella, però, era ben nota in città; era, infatti, una pubblica peccatrice. Questa donna ha saputo che Gesù è in casa di Simone il fariseo, vi entra e, incurante di tutto e di tutti, compie un gesto coraggioso che in modo inequivocabile esprime la sua fede e il suo amore. Ed è proprio la fede a salvarla, Gesù le dice infatti: “«I tuoi peccati sono perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!»” (Lc 7, 48-50).

La scelta di fede nella vita di una persona  e – in modi diversi – di una comunità ha bisogno di riscontri, di scelte visibili ribadite momento dopo momento. La fede non è un’affermazione teorica; essa, piuttosto, genera un flusso vitale.

Il monito della lettera di Giacomo rimane un riferimento imprescindibile per ogni discepolo del Signore. Vi leggiamo: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio. A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»” (Gc 2,12-18).

Ci serviamo di questo testo – in cui troviamo le espressioni “legge di libertà”,  “misericordia”, “giudizio”, “fede”, “opere” – per introdurre il tema delle opere di misericordia e, soprattutto, dell’opera di misericordia spirituale che richiede di “ammonire i peccatori”.

Le opere di misericordia obbediscono al realismo di una fede che, veramente, entra nella storia ed è in dialogo con le ferite degli gli uomini e delle donne della società in cui viviamo e del nostro tempo; le opere di misericordia corporali e spirituali introducono la sapienza di Dio nel concreto della vita. Sia le opere di misericordia corporali sia quelle spirituali ci chiedono, allora, di guardare chi ci sta dinanzi e farci carico di lui.

Ammonire i peccatori non vuol dire rimproverarli ma farsene carico, guardando a ciò che compromette la relazione che li costituisce persone, ossia il loro rapporto con Dio che può essere faticoso, distorto o inesistente. Ammonire i peccatori significa, quindi, guardare all’essere profondo dell’uomo, ovvero il rapporto che lo lega a Dio.

Seguendo le prime due opere di misericordia spirituali – consigliare i dubbiosi e istruire gli ignoranti – si giunge spontaneamente alla terza; infatti, se il consiglio e l’insegnamento non hanno sortito effetto, allora non si può abbandonare il fratello e – con empatia umana e cristiana – dobbiamo farci carico di lui.

Il Vangelo parla di correzione fraterna (cfr. Mt 18, 15-17): ammonire chi pecca vuol dire aiutare chi ha infranto la relazione che lo costituisce persona a ricostituirla; è come cercare di ristabilire il flusso vitale di un’arteria o rianimare, con la respirazione bocca a bocca, chi sta morendo soffocato. Sì, il peccato, quando è grave, è paragonabile – nel corpo umano – all’interruzione del flusso sanguigno o al venir meno della ventilazione polmonare per mancanza d’aria.

Ma l’opera di misericordia spirituale “ammonire i peccatori” può esser colta nella sua importanza solo da chi mantiene vivo il senso del peccato, non da parte di chi l’ha smarrito; per chi l’ha smarrito, infatti, è del tutto impossibile comprendere. Chi ha perso un tale senso, non  riesce più ad avvertire dentro e intorno a sé la presenza del peccato; solo chi mantiene vivo il “senso di Dio” può comprendere l’importanza di questa opera di misericordia che è espressione di vera carità.  È vera benedizione incontrare chi, con discrezione, sa parlare al fratello con gesto delicato che, in pari tempo, è anche efficace. Dobbiamo, insomma, riscoprire la charitas veritatis, ossia la carità della verità.

Si tratta d’aver presente, nella vita cristiana, il binomio inscindibile verità/ carità come viene scandito nel Nuovo Testamento. San Paolo insiste sia sulla verità sia sulla carità, presentandole come realtà indissociabili e per l’Apostolo non c’è verità cristiana se manca l’amore – “…agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo” (Ef 4,15) – e non si dà amore cristiano che non faccia riferimento alla verità: “La carità… si rallegra della verità” (1Cor 13,4.6).

Il binomio carità/verità contiene il seme e costituisce la radice dell’opera di misericordia. Il peccatore, che va ammonito, non è solo chi sbaglia – perché il peccato è ben altro rispetto all’errore – e di fronte al peccato, alla fine, non serve tanto il teologo, ma un fratello che si fa carico del peccato altrui con la penitenza, la preghiera e tutto ciò che lo Spirito suggerisce in quel frangente.

A tale opera di misericordia è legato un dono particolare dello Spirito Santo, il dono del santo timore di Dio che consiste esattamente nel temere di perder Dio, smarrire il senso della sua presenza in noi e intorno a noi. Ammonire il peccatore, allora, è quell’opera di misericordia che esprime bene il timore di perdere Dio; chi porta in sé tale dono sa esercitare quest’opera di misericordia. Poi, chi vive spiritualmente il dramma del peccato non può non sentire quanto sia liberante incontrare chi è capaci di tale fraterna correzione.

Diventa, quindi, determinante il modo in cui si ammonisce il peccatore o – ed è la stessa cosa – si pratica la correzione fraterna; non posso, infatti, presentarmi al fratello unicamente per correggerlo, per rimproverarlo, per dirgli che ha sbagliato. Sarebbe un’azione destinata a sicuro fallimento perché nel peccatore – che è uomo come noi – scattano gli autonomismi di difesa che appartengono proprio all’uomo in quanto tale e, in modo particolare, ciò avviene per chi si è consegnato volontariamente al peccato.

Correggere fraternamente o ammonire il peccatore vuol dire allora cogliere e far proprie le condizioni soprannaturali di grazia affinché colui che mi sta dinanzi si apra all’ascolto e non si chiuda in atteggiamento di pregiudiziale rifiuto.

A partire dalla realtà della grazia, della preghiera, della penitenza – ricordando sempre che la grazia suppone la natura e opera in una natura ferita dal peccato – dobbiamo allora curare un percorso che muova dalla natura e svolga un cammino che dica vicinanza, attenzione, amicizia e, nello stesso tempo, non dimentichi che la natura non è mai separata dalla grazia e che l’uomo è pensato e voluto in Cristo. Solo Dio può far breccia nel cuore dell’uomo e, a maggior ragione, di un uomo che vive la scelta consapevole del peccato. E, come quasi sempre avviene, Dio si serve delle cause seconde e quindi, ordinariamente, di altri uomini.

Tutto questo è particolarmente vero nell’esercizio del ministero delle confessioni in cui il sacerdote è chiamato alla correzione fraterna; in tale sacramento, infatti, egli è padre, medico, giudice di misericordia e si servirà di un giudizio che è autentico cammino di discernimento verso la verità della persona, verità che deve essere detta sempre con amore.

Sì, soprattutto in quest’anno giubilare, ricordiamo che l’opera di misericordia “ammonire i peccatori” viene vissuta dalla Chiesa nel modo più alto nel sacramento della riconciliazione dove il perdono di Dio prende la forma certa della grazia, un cammino condiviso di fede e ragione; questa è la misericordia di Dio che diventa, per l’uomo, reale e pieno cammino di conversione.