Omelia del Patriarca nella S. Messa in suffragio del cardinale Loris Capovilla (Venezia, Basilica di S. Marco - 30 giugno 2016)
30-06-2016

S. Messa in suffragio del cardinale Loris Capovilla

(Venezia, Basilica di S. Marco – 30 giugno 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

Sorelle e fratelli carissimi,

siamo riuniti nella Basilica Patriarcale di San Marco – a lui così cara – per innalzare la nostra preghiera di suffragio per il Cardinale Loris Capovilla.

Don Loris – lo chiameremo così, come era suo desiderio – rimase sempre prete veneziano. Certo, la Provvidenza – che ha sue strade, diverse da quelle degli uomini – dopo un significativo periodo di ministero, di circa diciotto anni a Venezia, lo ha voluto prima a Roma, per servire la Chiesa universale come segretario di Papa Giovanni XXIII, e poi a Chieti, a Loreto e, infine, a Sotto il Monte.

Lontano, quindi, dalla città di Venezia ma, in realtà, ad essa profondamente unito. Fu sempre attento e partecipe alla vita cittadina e diocesana, costantemente impegnato a tenere i rapporti con i confratelli e gli amici. Don Loris faceva parte di quelle persone che appezzano l’amicizia e ne hanno un culto profondissimo.

Come poco fa ho accennato, ci rivolgeremo a lui chiamandolo semplicemente don Loris; lo aveva chiesto esplicitamente, anche dopo la nomina cardinalizia.

Nella sua persona era semplice e immediato; sapeva esprimere il genuino impasto fra l’autentica umanità veneta – bastava sentirne la cadenza del parlato – e una fede reale, concreta, profondamente evangelica. Il passare del tempo, in don Loris, non scalfì tale impasto umano e cristiano e, anzi, progressivamente, lo arricchì. Per don Loris fu come per il vino buono del Vangelo che, invecchiando, diventa migliore; si tratta del frutto della grazia che lavora quanti si rendono disponibili.

Molti – soprattutto in occasione della creazione cardinalizia – ne hanno voluto delineare il profilo umano e spirituale e, come accade in tali circostanze, alcuni si sono fermati a frasi di circostanza; altri, invece, ne hanno tracciato uno schizzo che ha delineato, in modo vero, l’uomo e il sacerdote.

Le parole che più mi hanno svelato il suo animo sono, però, quelle che lo stesso don Loris disse durante l’omelia nella chiesa parrocchiale di Sotto il Monte, in occasione del rito in cui riceveva la berretta dalle mani del cardinale decano.

Quelle riflessioni, che in tale circostanza don Loris fece ad alta voce, ci hanno introdotto al meglio nella sua storia e nella sua anima. Episodi, incontri, colloqui che lo avevano segnato nell’intimo e che – per riserbo interiore, formazione ed educazione – prima erano stati custoditi nel cuore.

L’applauso che giunse spontaneo al termine della omelia/testimonianza fu – come ricordano i presenti – incontenibile, prolungato, fragoroso. E ciò non sorprese perché era attestazione di stima, di affetto e di gioiosa partecipazione da parte di quanti gli volevano bene e in modi e tempi diversi avevano diviso con lui l’intera vita o, almeno, parte di essa.

Quel prete esile, dall’aspetto fragile, per chi lo ha incontrato è stato un dono di Dio. Quel lungo applauso intendeva dire gratitudine e riconoscenza per quanti in lui avevano trovato un fratello, un maestro, un padre, un amico sempre disposto ad accogliere tutti, per costruire ponti e superare differenti barriere; queste doti identificavano il suo animo.

Ora, proprio considerando il suo fisico fragile, taluni avevano fatto presente – era il 1953 – all’allora Patriarca Roncalli, che lo aveva appena scelto come segretario, che la salute avrebbe potuto essergli di impedimento dinanzi a un compito così delicato e faticoso.

Ma il nuovo Patriarca, a tale obiezione, aveva risposto dicendo semplicemente: “Vorrà dire che morirà segretario”. E’ un modo a cui ricorre, talvolta, l’autorità per chiudere un discorso a proposito di una decisione già presa e di fronte alla quale taluni ostentano stupore, incomprensione o resistenza.

Qualcosa di analogo avvenne per don Albino Luciani, più anziano di don Loris di tre anni, al momento della sua nomina a Vescovo di Vittorio Veneto. Anche in tal caso ne venne fatta notare la salute cagionevole, ma la risposta di Giovanni XXIII fu la stessa: “Vorrà dire che morirà vescovo”.

Per don Loris, i fatti, poi, si sono incaricati di confermare che “l’uomo propone ma Dio dispone”; egli infatti, in maniera più unica che rara, in una forma fisica perfetta e lucidissimo di mente, ha tagliato il traguardo dei cent’anni; una vita lunga e benedetta da Dio. Se tutti ci attenessimo di più a tale sapienza – “l’uomo propone ma Dio dispone” – saremmo più capaci di vivere serenamente l’esistenza che il buon Dio ci dona in umiltà, non dando troppo peso alle nostre reali o presunte doti.

Il timbro della voce è una caratteristica estremamente significativa della persona come, d’altronde, lo sono gli occhi. Don Loris aveva un tono di voce chiaro, sonoro, sereno, colloquiale, accogliente; il suo sguardo era vivace, diceva intelligenza, appariva limpido e trasparente.

Il sorriso non era preconfezionato ma il risultato di una scelta spirituale voluta. Sì, che quel sorriso – e quanto da esso fioriva – fosse l’esito di tale scelta lo disse lui stesso nel giorno in cui ricevette la berretta cardinalizia.

In tale occasione, ripercorrendo le tappe più significative della sua vita, così si esprimeva: “Sono passato accanto ad esperienze che  mi hanno segnato, anche ferito. Non ho gustato il paradiso della fanciullezza. Di conseguenza una punta di malinconia pudicamente nascosta, mi ha accompagnato giorno dopo giorno; talvolta ha turbato i rapporti col mio prossimo, tarpato le ali ai miei slanci”. Questa riflessione è profondamente umana e svela un aspetto importante della sua persona.

Ma don Loris, proprio nella stessa cerimonia, volle richiamare ciò che è essenziale nella vita del cristiano – dei preti, dei vescovi, degli stessi cardinali – ponendo la questione sull’essenziale della vita del discepolo del Signore, qualunque sia la sua vocazione.

Che l’odierno Vangelo, appena ascoltato, ci riproponga – seppur in modo diverso – la domanda su chi è veramente Gesù Cristo, è qualcosa su cui dobbiamo riflettere.

Il Vangelo di Matteo, infatti, ci parla dello stupore che si impadronisce delle folle a proposito della vera identità di Gesù quando esse assistono al gesto col quale – con autorità propria – perdona e guarisce il paralitico (cfr. Mt 9,1-8).

Don Loris pose la stessa questione, ma a partire dal testo in cui l’evangelista  Matteo formula la domanda che Gesù rivolge agli apostoli sulla sua identità (cfr. Mt 16,13-17). L’evangelista riporta, infatti, il dialogo fra Pietro e Gesù – siamo a Cesarea di Filippo – e la questione riguarda proprio l’identità di Gesù: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Don Loris ha voluta far sua questa domanda proprio nel momento in cui rinnovava il sì a Gesù e alla sua Chiesa nel giorno della creazione cardinalizia.

Ringraziamo, allora, don Loris perché in quel momento – così significativo della sua vita di cristiano, di prete, di vescovo – ha voluto porre a sé e agli altri proprio la domanda dalla quale tutto consegue nella vita del discepolo del Signore.

Don Loris, allora, osservava: “Adesso nel Vespro della mia giornata, come ultimo tra i suoi, amo riascoltare l’interrogativo di Gesù agli apostoli che risuona nel profondo della mia coscienza: «Ma voi, chi dite che io sia?»”.

Così, come vero uomo di fede, mirava all’essenziale e al termine del suo lungo cammino terreno – che Dio dispose durasse oltre un secolo – don Loris ritornò a quella domanda.

Ecco le parole di don Loris: “Invitato a lasciarmi plasmare da Cristo e a immergermi nella tradizione millenaria della Chiesa, provai a rispondere fin da principio all’interrogativo cui nessuno può sfuggire: chi è Gesù per me? Diedi risposta non elusa: Gesù è il figlio di Maria Vergine, il Salvatore, il Maestro, il fondatore della Chiesa, il Risorto e il Vivente”.

Alla scuola del suo amato Patriarca Roncalli – san Giovanni XXIII – don Loris imparò a coltivare il dialogo con tutti; ogni uomo, ogni comunità, ogni tradizione, ogni cultura erano per lui una nuova occasione per fermarsi, ascoltare, accogliere, sentirsi arricchito e, senza dare l’impressione, di poter dire e donare qualcosa di genuinamente evangelico.

Ecco allora il dialogo interreligioso, lo scambio fraterno fra i cristiani delle differenti confessioni, l’avvicinarsi con empatia e disponibilità alle esperienze dei cristiani d’Oriente e d’Occidente, i numerosissimi contatti e gli esponenti delle varie comunità cristiane. Ricordo qui anche il legame con fratel Schutz di Taizè e col Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli a dire non solo il desiderio ma il realismo e la concretezza dei passi compiuti.

La sua casa di Ca’ Maitino era sempre aperta, ad ogni ora del giorno e ad ogni persona di buona volontà; il suo telefono squillava in continuazione e lui – lo sa bene chi lo frequentava – mai lesinava il tempo di una conversazione ma sempre, toto corde, si donava al suo interlocutore.

Concludo questa semplice ma affettuosa testimonianza su don Loris attingendo ancora da quanto egli – ormai intravedendo vicina la meta – volle dire di se stesso: “Poco tempo mi separa dal “redde rationem” e io debbo ridurre tutto ai termini più semplici, sbarazzarmi di residua zavorra, patetici diari e album illustrativi, romantiche fantasie e sterili rimpianti. Devo ricondurre tutto all’essenziale e puntare la prora verso il porto”.

Queste parole di don Loris dobbiamo farle nostre, quando arriverà il nostro turno e Dio ci tenderà le sue braccia paterne e misericordiose per invitarci a compiere il grande passo verso la vera vita; sì, chiediamolo con la preghiera e con la vita, qualunque sia la nostra vocazione.

Diceva, infine, don Loris: “Sono prete…, vescovo…  – e ognuno di noi può aggiungere consacrata, consacrato, sposa, sposo… –, eppure per me Gesù è lo stesso che la mamma e i miei educatori mi insegnarono ad ascoltare e ad amare, lo stesso che appresi al catechismo parrocchiale, all’Azione cattolica. E’ il Gesù dei preti e dei laici che mi edificarono, talora sino all’esaltazione, nel corso dei decenni”.

Eminenza reverendissima, per noi sarai sempre – come tu volevi – don Loris, prete veneziano, umile figlio della bella terra veneta. Noi preghiamo per te affinché il Signore – purificata la tua anima – ti accolga in Paradiso insieme al nostro antico, amatissimo e indimenticato Patriarca Roncalli, san Giovanni XXIII.

Caro don Loris, prega per la tua Chiesa di Venezia, per i tuoi confratelli, per i laici, per tutti coloro che ti hanno voluto bene ed anche per quanti non hanno avuto la grazia di conoscerti.