S. Messa in occasione della Tredicina di Sant’Antonio
e del pellegrinaggio diocesano di Venezia alla Basilica del Santo
(Padova, Basilica di Sant’Antonio – 9 giugno 2018)
Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle,
in questo decimo giorno della Tredicina di Sant’Antonio, la Chiesa celebra la liturgia della X domenica del tempo ordinario.
L’invito è di pregare per non smarrire il bene dell’amicizia con Dio; il testo della Genesi, infatti, ci narra in linguaggio simbolico – ma non per questo privo di verità – la frattura della relazione originaria che contiene, in sé, tutte le altre fratture presenti nella vita degli uomini: “[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto»“ (Gen 3, 9-10).
L’amicizia con Dio è strettamente legata all’Alleanza; i grandi amici di Dio sono i patriarchi (Abramo, Isacco Giacobbe), i profeti (Isaia, Geremia, Daniele), i santi e le sante di ogni tempo. Santità vuol dire pienezza della vita umana, nella convinzione che Dio non solo non ostacola l’uomo ma piuttosto – rispettandone la libertà – lo conduce alla pienezza dell’umano che è in lui.
Quale fu la scintilla che mosse Antonio verso il proposito fermo della santità dando una svolta radicale alla sua vita? Prima di lui avvenne a molti santi e sante: pensiamo a Benedetto, Francesco, Norberto e, dopo di lui, a Caterina da Genova, a Teresa d’Avila, a Giuseppe Benedetto Cottolengo… E gli esempi, ovviamente, potrebbero continuare a lungo.
A ben vedere, si tratta di rispondere alla domanda: perché Antonio entrò nel neonato ordine francescano? Quale motivo lo spinse a tale scelta che comportò per lui un drastico cambiamento di vita rispetto a quello che era stato fino a quel momento?
Ciò che spinse Antonio – che si chiamava ancora Fernando ed era membro dei Canonici Regolari di sant’Agostino – fu l’ammirazione per i martiri. Egli rimase conquistato dai primi martiri francescani e, di fronte ai loro corpi martoriati, decise d’entrare nella neonata fraternità del poverello di Assisi. Proprio come quei cinque frati, Fernando voleva annunziare il Vangelo nel dono totale di sé, sino alla fine; voleva che la grazia del battesimo e la grazia del martirio, in lui, coincidessero.
Nel 1219 Francesco d’Assisi aveva inviato alcuni frati in missione; il piccolo gruppo era formato da tre sacerdoti (Berardo, Pietro ed Ottone) e due fratelli laici (Adiuto e Accursio).
Si ritiene che essi siano passati per la città di Coimbra, dove viveva Fernando; non sappiamo però se egli abbia conosciuto personalmente questi uomini ma certamente ne sentì parlare e ne avvertì il fascino.
Antonio, dopo aver studiato la Regola francescana, si recò in Marocco – era l’autunno del 1220 – ma qui, per motivi di salute (una malattia tropicale, forse la malaria), fu costretto a ritornare in patria. Sulla via del ritorno, nella primavera del 1221, l’imbarcazione fu condotta da un fortunale fuori rotta verso la Sicilia.
Così il nostro, approdato sulla spiaggia di Milazzo (Messina), raggiunse il vicino convento francescano. E qui Antonio è informato che, per la solennità di Pentecoste, Francesco aveva convocato in Assisi tutti i frati; il Capitolo generale si sarebbe svolto tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1221, il famoso “capitolo delle stuoie”.
Antonio, con gli altri frati, iniziò il viaggio verso Assisi e, a Pentecoste, fu tra i partecipanti a quel Capitolo che si tenne a Santa Maria degli Angeli, la pianura di Assisi, dove ebbe modo di ascoltare la parola di Francesco anche se non poté incontrarlo di persona.
In quei giorni Antonio rimase in disparte, solitario, e quando si costituirono le nuove fraternità rimase senza destinazione, sconosciuto a tutti; nessuno lo aveva richiesto.
Allora il ministro provinciale per l’Italia settentrionale, Graziano, gli propose di trasferirsi a Montepaolo, presso Forlì; là vi era necessità di un sacerdote per una piccola comunità che era costituita da sei frati residenti in un eremo di cui faceva parte una piccola chiesa; le abitazioni dei frati erano minuscole celle e per dare da mangiare alla piccola comunità si coltivava la terra.
Il tempo passa velocemente e Antonio vive volentieri nella piccola fraternità, in un silenzio fatto di preghiera prolungata. Per circa un anno e mezzo Antonio visse in contemplazione e penitenza, scegliendo per sé i compiti più umili.
Dio però stava preparando qualcosa che l’umile frate non avrebbe voluto per sé. Il libro del profeta Isaia è sempre attuale: “…i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55, 8-9).
Antonio dovette recarsi in città per partecipare, nella chiesa di San Mercuriale, alle ordinazioni sacerdotali e qui, per mancanza dell’oratore, gli fu chiesto di tenere l’omelia dinanzi a un uditorio esigente e numeroso.
Le doti di quel fraticello schivo e silenzioso vennero così improvvisamente e totalmente “alla luce” e Antonio venne destinato alla predicazione; iniziò, quindi, a percorrere le città e uomini e donne in numero crescente vennero ad ascoltarlo. Ma Antonio fu anche oggetto di disinteresse da parte di interi paesi e città; taluni, imperturbabili, continuarono le loro occupazioni, altri voltarono le spalle alla Chiesa per aderire a sette pauperistiche.
Emblematico è quanto accadde a Rimini; la città era ben salda in mano a gruppi di eretici. All’arrivo di Antonio, di bocca in bocca, a tutti giunge l’ordine dei maggiorenti della città di erigere attorno ad Antonio un muro.
Cosi fra’ Antonio non poté predicare e, trovando le chiese vuote, uscì in piazza ma anche qui nessuno lo degnò d’attenzione; iniziò, allora, a camminare e, pregando e pensando fra sé, giunse in riva al mare e a quanti si erano rifiutati di ascoltarlo disse: “Dal momento che voi dimostrate di essere indegni della parola di Dio, ecco, mi rivolgo ai pesci, per confondere più apertamente la vostra incredulità“.
E i pesci affiorano a centinaia e a migliaia ad ascoltare la parola di esortazione e di lode. Abbiamo qui una narrazione che ci dà un’immagine tra il poetico e l’ideale che, però, ci ricorda come la storia sia penetrata dalla grazia di Dio che sempre sorprende e stupisce e, alla fine, guida tutto e tutti oltre le possibilità degli uomini.
Sul finire del 1223 gli viene affidato l’insegnamento della teologia nella città di Bologna e, per due anni, insegnò a preti e fedeli. Antonio non era maestro ricercato nel linguaggio e ostentatamente erudito; piuttosto, aveva fatto la scelta della semplicità che non voleva dire mancanza di scienza e intelligenza. Egli iniziava leggendo il testo sacro e poi lo interpretava in modo che suscitasse domande e, insieme, parlasse alla fede e alla vita degli uomini e delle donne che lo ascoltavano.
Antonio è il primo insegnante di teologia dell’Ordine francescano e, nello stile e nel metodo, esprime fedelmente il carisma di Francesco. Il nostro Santo risulta, così, il primo di una lunga serie di maestri e teologi – tra cui ricordiamo Buonaventura e Scoto – che unirono alla ricerca dell’intelligentia fidei il dono della semplicità, dell’umiltà e dell’amore; essi furono nella Chiesa ricercatori del Mistero di Dio legando strettamente la teologia alla carità, all’amore, alla sapienza e, cioè, al gusto di Dio.
All’inizio del movimento suscitato da Francesco ci si domandava se e quale posto avesse la teologia nel nascente ordine. E, come alcuni sostenevano l’interpretazione assoluta del carisma della povertà (arrivando a non possedere alcunché), vi era anche chi pensava di predicare un Vangelo che non avesse riferimenti alla scienza.
Ora, quanto Francesco scrive ad Antonio ci fa comprendere come sia saggia un’alleanza tra ragione e teologia, tra cultura e fede, consentendo un annuncio che risponda alle domande che l’uomo pone al Dio-carità.
Francesco desiderava che i frati si dedicassero allo studio della teologia e, così, dopo aver considerato la grande fede e l’integrità morale di Antonio e le disposizioni della Chiesa, “ordinò” ad Antonio di dedicarsi allo studio e all’insegnamento della teologia.
Ecco le parole di Francesco: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione, non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola” (Dalle Fonti Francescane, Lettera a Frate Antonio).
Antonio fu ligio alla strada che Francesco gli indicava. Rimase fedele, nel fare teologia, alla mistica francescana così come era sgorgata dal carisma del poverello d’Assisi. Antonio, piuttosto che le formulazioni dottrinali, valorizzò la vita concreta; tutto in lui – nel rapportarsi a Dio e al soprannaturale – è segnato da entusiasmo religioso, da confidenza e semplicità.
Così appare anche da questo breve stralcio tratto dall’’Ufficio delle Letture della festa del Santo: ”…supplichiamo umilmente – sono parole di Antonio – che [Dio] ci infonda la sua grazia per realizzare di nuovo il giorno di Pentecoste nella perfezione dei cinque sensi e nell’osservanza del decalogo. Preghiamolo che ci ricolmi di un potente spirito di contrizione e che accenda in noi le lingue di fuoco per la professione della fede, perché, ardenti e illuminati negli splendori dei santi, meritiamo di vedere Dio uno e trino” (Dai “Discorsi” di sant’Antonio di Padova, sacerdote I, 26).