S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore
(Venezia, Basilica del Santissimo Redentore – 16 luglio 2017)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Signor Prefetto, autorità civili e militari, fratelli e sorelle,
a tutti auguro una festa del Santissimo Redentore ricca di fede e gesti fraterni.
“La speranza – come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda lettura – non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo… ” (Rm 5, 5).
La speranza è una delle virtù teologali, è forza che viene da Dio e che a Lui conduce e, in noi uomini, suscita un nuovo modo di vedere le cose, di sentirle, di viverle; una nuova energia che, dal momento del battesimo, abita in noi.
Alcuni di noi certamente ricordano un illuminante pensiero di Dostoevskij: “La sola idea … ch’esista qualcosa di infinitamente più giusto e più felice di me mi riempie tutto di smisurata tenerezza e di gloria… qualunque cosa abbia fatto… Se gli uomini venissero privati dell’infinitamente grande, essi non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperazione…”.
Siamo così proiettati verso il futuro per cui il discepolo del Signore tende all’ottavo giorno; in linguaggio biblico, il giorno di Gesù Risorto.
La speranza, attraverso le realtà penultime – quelle di ogni giorno -, ci fa volgere a Dio e così la vita terrena somiglia ai “mattoni” con cui costruiamo la nostra dimora eterna.
Senza la speranza eterna anche le speranze terrene risultano difficili da tenere deste perché instabili, fragili e, soprattutto, deludenti. E il trascorrere degli anni lo insegna in modo eloquentissimo.
Il Nuovo Testamento – a differenza di quanto affermava l’ideologia marxista e, con essa, altre – attribuisce grande importanza alla vita terrena e per il suo intrinseco valore e poiché da essa dipende l’eternità.
E l’Apostolo Paolo ci ricorda: “Tutti … dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2Cor 5,10).
La virtù cristiana della speranza non è l’ottimismo umano che, talvolta, sconfina nell’irrazionale o nel puro desiderio; piuttosto, è la certezza d’esser salvi e di poter giungere dove Gesù risorto ci ha preceduto.
La speranza è – prima di ogni altra cosa – lo stesso Gesù risorto e ha come protagonista Dio; solo dopo diventa virtù umana e ha per protagonista l’uomo. Allora la speranza plasma un nuovo modo di pensare e agire. All’inizio, però, tutto coincide con l’evento che si è imposto, ai discepoli, dall’esterno; la risurrezione o, meglio, il Risorto, l’inizio della speranza.
In tal mondo, per il cristiano, la speranza ha un senso profondamente diverso da quello che si ricavava dal titolo di un libro – uscito parecchi anni fa – che raccoglieva i simpatici temi di alcuni bambini napoletani: “Io speriamo che me la cavo”.
La speranza cristiana non è un augurio di fortuna o un vago auspicio ma è la certezza che nasce dalla fede e riguarda la vita terrena e ultraterrena. Abbiamo, allora, una Speranza con la “s” maiuscola che sorregge le “piccole speranze” di ogni giorno che mai sostituiscono la grande Speranza e che, in qualche modo, la tengono desta mentre questa, a sua volta, le tiene tutte insieme e le nutre rispettandone, in ogni circostanza, l’autonomia.
La speranza del cristiano è altra cosa rispetto a quella del mondo.
Sì, per il cristiano le speranze penultime si riferiscono a realtà molteplici; ad esempio, istituire relazioni personali e sociali più giuste attraverso una educazione e una politica che non siano autoreferenziali ma lungimiranti ed impegnate a ridurre le grandi differenze fra gli uomini, i popoli, i continenti. Si tratta d’impegnarsi per un progetto di sviluppo vero, che sia reale, diffuso, condiviso; lo sviluppo è il nuovo nome della giustizia, come già insegnava cinquant’anni fa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (cfr. nn. 76-80).
È illusione pensare ad una redistribuzione della ricchezza a livello mondiale senza una “conversione” della politica. I Paesi più ricchi e dotati di tecnologie avanzate devono guardare con più attenzione dove povertà e miseria generano morte. Dove si investe e si produce ricchezza, dove la persona è posta evangelicamente al centro, là si elevano le condizioni di vita.
Questa è la lungimiranza richiesta ad una politica intelligente e auspicabile già trenta o quarant’anni fa da parte di Paesi leader – il riferimento primo è all’Europa – che non dovevano rinchiudersi in se stessi, riducendo la politica alla finanza e all’economia; essi avrebbero dovuto investire, superando la logica dell’emergenza e degli interessi di parte. E sarebbe stata vera lungimiranza comprendere che il debito internazionale di alcuni Paesi stava crescendo a dismisura e questi non avrebbero più potuto procedere alla restituzione.
Allora i politici esperti in economia e gli economisti “prestati” – come amavano e amano dire – alla politica avrebbero dovuto elaborare differenti strategie e – se impediti – denunciare la deriva imboccata, prenderne atto, tirarne le conseguenze.
Certo, la povertà è il risultato del mancato accesso alla cultura, alla comunicazione, ai grandi investimenti, ai progetti economici di vasto respiro, alla mancanza di adeguate tecnologie e, ancor prima, al non accesso a risorse essenziali: in primis l’acqua e le altre materie prime.
Urge una migliore suddivisione delle risorse fra gli uomini, fra gli Stati e fra i continenti perchè la pace dipende, non poco, da questa giustizia sociale fra uomini e Stati. Lavorare allo sviluppo d’intere regioni vuol dire costruire la pace.
Le tecnoscienze possono diventare strumenti importanti a servizio dello sviluppo, ma solo all’interno di un progetto politico che pone la persona al centro. Si consideri, infine, anche il principio della destinazione universale dei beni – acqua, materie prime, capitali, ambiente, cultura – e infine i principi di solidarietà, sussidiarietà, bene comune e tutela dell’ambiente. Prevenire, qui, evita dolorosi e costosi interventi successivi.
Per il cristiano la via della speranza e dell’impegno passa anche attraverso l’esercizio rigoroso della responsabilità politica e sociale, economica e finanziaria, soprattutto da parte di chi, ad ogni livello, ha elevati gradi di responsabilità ed è coinvolto in enti e istituzioni che hanno il potere di condizionare il vivere civile e, quindi, l’esistenza quotidiana di tante comunità, famiglie e persone. Certo, avere il senso di Dio qui aiuta non poco.
Bisogna in ogni modo – come evidenzia, purtroppo, il caso delle banche venete e a cui non si può non fare riferimento – mantenere sempre alto (da parte di tutti) il livello di attenzione, di vigilanza e di responsabilità: ciò è assolutamente necessario per evitare dissesti ma, soprattutto, per perseguire e garantire livelli adeguati di giustizia sociale, in specie quando a rimetterci sono proprio i cittadini più deboli, i piccoli risparmiatori.
Rivolgo un accorato e forte appello alla politica, perché questo non avvenga: amici politici, è un segnale che ci attendiamo come cittadini e che riteniamo sia dovuto. Anche questo, per il cristiano, è impegno concreto a favore del bene comune e non può essere colpevolmente tralasciato.
E cuesta è Qosa fare poi di fronte alla questione epocale dei migranti, spesso motivata da impossibili condizioni di vita? La distinzione fra migranti rifugiati e migranti economici non è facile, non è scontata, non convince.
Qui la politica non può più balbettare; deve parlare un linguaggio chiaro, deve avere soprattutto un progetto di cui – fino ad oggi – è stata priva e ci pare ancora priva, poiché i migranti e chi li accoglie devono sapere all’interno di quale progetto politico e sociale si muovono. Chi opera in tale ambito, sul territorio, lo domanda alla politica nazionale.
La gente sente l’urgenza di politiche che non siano degli slogan, degli inconcludenti annunci ma espressione di un impegno reale da parte di tutti – Italia, Europa, Onu – con animo solidale e, insieme, fondato su un concreto e sano realismo. Sì, solidarietà e realismo devono andar insieme.
Molti continuano a disaffezionarsi perché non credono più in una politica fatta di annunci e tweet che, talvolta, non risultano veritieri e, altre volte, invece, ridicoli per la loro ovvietà. Ma ciò che per alcuni sembra contare è soltanto far sapere che ci sono e che non hanno alcuna intenzione di mollare… Ma questo è serio? E’ educativo per i giovani?
Se finanza, economia e migranti – realtà più legate di quanto non sembri – non verranno governate da una politica che realmente miri al bene comune, allora finanza, economia e migranti diventeranno terre di conquista da parte di schegge impazzite della politica o da lobby di diverso tipo. E saremo costretti a rivedere cose già viste, con la differenza che, oggi, sono a disposizione mezzi molto più potenti che alcuni decenni fa non esistevano e ora consentono, attraverso la rete, di compiere in tempo reale operazioni, una volta, impensabili.
Evitando, quindi, approcci ingenui o ideologici, dobbiamo aprirci alla realtà che ci sta innanzi poiché – anche se ardua – è la realtà di fronte alla quale siamo chiamati a prender posizione e a prendere decisioni che siano umanamente e cristianamente degne con importanti ricadute a breve, medio e lungo periodo.
Una politica che ami un confronto e un incontro reale e che miri a risolvere, almeno in parte, i problemi deve, innanzitutto, esser capace di suscitare spazi di vera laicità – liberi dalle differenti forme di ideologie – ponendo al centro la persona umana.
Risuona con forza l’evangelico “Rendete … a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 21,22); qui inizia ogni vero discorso sulla laicità.
L’incontro avviene, infatti, tra persone e culture che si impegnano a dialogare fra loro e a percorrere strade non facili e che sanno tener insieme diritti e doveri. Sì, diritti e doveri. Bisogna così riscoprire i principi della reciprocità, dell’accoglienza, della solidarietà, della legalità, della certezza del diritto, della pena volta a redimere, senza dimenticare l’essenziale e pieno rispetto della cultura, delle leggi e delle tradizioni del Paese ospitante.
In quanto abitanti della medesima città abbiamo diritto di sapere come, sui temi sensibili del vivere comune, la pensi chi abita accanto a noi, il vicino della porta accanto. Ecco solo alcuni esempi:
Si tratta di instaurare un dialogo che non si riduca a monologo, ossia, un vero dialogo fra più soggetti, trattando realtà obiettive e cercando punti comuni. Si tratta di lavorare per una città solidale, capace d’esprimere la propria storia in modo inclusivo, e che non viva solo di antichi fasti e ricordi.
Tale città non teme il contesto pluralista e non cede a forme di relativismo perché si apre ad una pluriformità che non prescinde dalla ricerca libera e appassionata della verità. Si tratta, insomma, di saper dire dei “sì” e dei “no”, al di fuori di ogni atteggiamento ideologico o politicamente corretto.
Specialmente, una città come la nostra amata Venezia – che ha alle spalle una storia affascinante, unica tanto da esser considerata nei secoli, e ancor oggi, “ponte” tra Occidente e Oriente – deve vivere la sua identità in modo inclusivo ed essere città accogliente che sa conservare viva la propria storia nella quale – lo sappiamo bene – ci sono luci e ombre.
Comunità civili ed ecclesiali che amano la propria storia devono saper guardare in avanti e rispondere alle urgenze del momento presente non dimenticando da dove vengono. L’esortazione apostolica Evangelii gaudium insegna come il tempo sia superiore allo spazio (cfr. Papa Francesco, Evangelii gaudium, nn. 222-225).
I fondamenti di una sana laicità possono permettere la convivenza fra persone di differenti culture, etnie, nazionalità; tali principi – va ribadito – non aprono a una deriva relativista se tutti saremo più appassionati della verità. Per usare un’immagine, tale laicità – sul piano culturale – è l’equivalente della miriade di palafitte su cui poggia ed è stata costruita la nostra città Venezia e grazie alle quali – nonostante il passare dei secoli e l’ambiente delicato della laguna – la città continua a vivere.
Venezia, nella sua bellezza davvero unica, è dono della fantasia di Dio all’uomo – e noi veneziani ne andiamo giustamente fieri – ma è anche frutto dell’ingegno e impegno dell’uomo. E, allora, ben vengano le opere dell’uomo – figlie della tecnica più sofisticata – ma sempre nel rispetto della natura unica e fragilissima di questa città e della sua laguna che vanno messe al riparo da tante ferite che possono esserle inflitte. Papa Francesco, nell’enciclica Laudato sì sulla tutela del creato, è molto chiaro in proposito.
È doveroso a questo punto richiedere che, in tempi accettabili, vengano portate a compimento le grandi opere iniziate, innanzitutto verificandone il funzionamento; è qualcosa di dovuto alla città e ai suoi abitanti che, in vari modi, hanno contribuito alla loro realizzazione.
Per il cristiano – come già si diceva – non si dà solo la grande Speranza, quella della vita futura. Ci sono anche le “piccole speranze” che – per quanti già su questa terra vogliono essere costruttori del Regno di Dio – non possono prescindere dalla giustizia e dalla verità. Il tema sempre fondamentale della pace si radica sulla giustizia e la verità e non in modo secondario.
La festa del Redentore ci aiuti dunque a essere intelligenti e accoglienti nel nostro tempo in cui siamo chiamati a vivere come coloro che sanno d’esser già salvati ma ancora protesi nella speranza, fondata in Gesù, il risorto.
Affidiamo alla preghiera della Madre del Redentore la nostra amata città di Venezia, le genti venete e, con loro, tutti gli uomini e le donne di buona volontà affinché – come un giorno a Cana – Ella ci aiuti a fare quello che il Signore Gesù ci dirà (cfr. Gv 2,5).