Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione della Giornata per la vita consacrata e dei Giubilei di professione religiosa (Venezia - Basilica S. Marco, 30 gennaio 2016)
30-01-2016

S. Messa in occasione della Giornata per la vita consacrata

e dei Giubilei di professione religiosa

(Venezia – Basilica S. Marco, 30 gennaio 2016)

 

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

Carissimi fratelli e sorelle,

è questo un momento importante per la nostra Chiesa perché il carisma della consacrazione particolare al Signore arricchisce e dice che cosa è una Chiesa. Guai se si spegnesse la luce che il Signore ha posto nelle vostre mani.

C’è una testimonianza particolare, particolarissima, che viene data dalla vostra scelta di vita prima ancora di quello che fate. E dovremmo tutti riscoprire di più che, nella Chiesa, ciò che conta è la risposta fedele alla propria vocazione.

Ringrazio don Lucio per questo momento, per questa opportunità, per questo nostro attraversare la porta santa.

Molte volte noi abbiamo l’idea che la conversione riguardi solo il passaggio dalla incredulità alla fede, dal peccato grave allo stato di grazia. Certo, è la conversione prima, è la conversione radicale, è l’inizio della vita cristiana che comincia con il battesimo, grande gesto di misericordia.

Ma la vita cristiana è fatta anche di tante altri conversioni. E noi ricordiamo che, indicando gli obiettivi dell’Anno della vita consacrata, il Papa ci ha sollecitato a guardare al passato con gratitudine, a vivere il presente con passione e ad abbracciare il futuro con speranza. Vorrei che un primo nostro esame di coscienza fosse fatto proprio su questo: guardo – ed aggiungerei: nonostante le ferite – con gratitudine al mio passato?

Abbiamo scelto, per la nostra celebrazione eucaristica, la Messa di Maria madre e regina della misericordia. E abbiamo ascoltato il Magnificat dove per due volte si parla della misericordia, anche come memoria grata: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49). E vi ricordate poi l’episodio dei dieci lebbrosi? E Gesù che si domanda: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17, 17-18).

In questo anno della vita consacrata il Santo Padre ci ha ricordato quanto sia importante la gratitudine, il ricordarci, la memoria, ma anche quanto è importante vivere il presente con passione. Il presente è quella frazione di tempo che mi appartiene veramente. Il passato è passato, il futuro non ho la certezza che mi apparterrà, è nelle mani di Dio… Il presente è la grazia, l’opportunità della mia santificazione. La grazia del momento presente.

Attenzione, però. C’è anche una memoria nostalgica, che non è la memoria della gratitudine, ed è paura del futuro; succede quando non si abbraccia il futuro con speranza! E poi c’è la necessità di vivere il presente come la grazia vera della mia vita.

Ricordate poi che cosa si attendeva, tra gli obiettivi dell’Anno della vita consacrata, il Papa da voi? Diceva: che siate persone capaci di gioire! Non è facile gioire, eppure la gioia – soprattutto per chi ha lo sguardo credente – deve appartenere ad ogni giornata della nostra vita, proprio perché ragioniamo secondo la fede.

Il Papa ci chiedeva di essere persone gioiose e ci ricordava, anche, che dobbiamo avere coscienza di essere dei vasi di creta. Quando io ho la consapevolezza della mia fragilità, incontro l’altro in modo diverso, soprattutto quando mi si presenta nelle sue debolezze, nelle sue angosce, nelle sue sofferenze. Quando io per primo ho coscienza e memoria delle mie fragilità, allora posso incontrare l’altro con quell’accoglienza che mi porta a capirlo fino in fondo, forse anche per esortarlo a cambiare.

E vi ricordate poi che, nella bolla di indizione dell’Anno giubilare, il Papa parlava anche delle opere di misericordia spirituali? Consigliare i dubbiosi, insegnare a chi non conosce o fa finta di non conoscere o ha dimenticato certe cose… Ammonire i peccatori. La correzione fraterna, quanto è difficile! Eppure il Signore l’ha richiesta. Solo che, prima di mettere in atto la correzione fraterna, bisogna aver creato un clima per cui la persona che è avvicinata in quella circostanza sa che le vogliamo bene. Allora si può fare correzione fraterna, altrimenti è inutile.

Il Santo Padre ci chiedeva ancora – può essere la continuazione del nostro esame di coscienza giubilare – di essere capaci di creare luoghi concreti di vita evangelica. Le nostre comunità, quindi, si sforzino di essere luoghi concreti di vita evangelica. Non vi ho chiesto se lo sono già… perché sappiamo tutti quanto è difficile essere evangelici – personalmente e come comunità – ma c’è almeno questo impegno, questo sforzo?

Il Papa ci chiedeva poi di uscire da noi stessi. Guardate, io ho seguito molte comunità – quando ero prete – ed ho confessato in parecchi istituti di vita religiosa (attiva, contemplativa e anche di persone consacrate nel mondo, gli istituti secolari). Il punto fondamentale è sempre lo stesso, soprattutto quando si vive in comunione e in comunità con gli altri: uscire da se stessi, dal nostro io.

I problemi, molte volte, non sono fuori di noi; iniziano dentro di noi. E allora, in questo Anno Santo, noi dobbiamo riscoprire che essere religiosi, consacrati, consacrate in un mondo che porta sempre meno i caratteri del Vangelo e della vita cristiana richiede qualcosa di più rispetto alle epoche in cui la vita religiosa si viveva in società più cristiane.

Abbiamo ascoltato la prima lettura tratta dal libro di Ester, questa bella figura di donna ebrea. Attenzione: era stata scelta dal Signore per far fronte ad una emergenza e per salvare il suo popolo in un contesto di persecuzione. Questa donna, con la sua preghiera, ci fa capire che soprattutto apparteneva al Signore. Prima ancora di ciò che i fatti l’avevano portata a diventare – la regina del suo popolo – questa donna manteneva in se stessa come identità ferma, propria e fondamentale la sua appartenenza al Signore.

I compiti difficili, i ruoli impegnativi e le missioni impossibili non esistono se apparteniamo al Signore; quella appartenenza al Signore che va coltivata ogni giorno nella preghiera, nella fedeltà al carisma, nel perdono, nella pazienza.

Il Papa invitava a far diventare le nostre comunità dei luoghi di comunione. Convertirsi, dunque, vuol dire avere il coraggio dell’umiltà, guardare al proprio io e pensare che è il luogo della mia conversione, il luogo della mia santificazione, il luogo dove io incontro il Signore.

E c’è un livello preciso, determinato, in cui nasce il nostro rapporto con Dio. Vedete, non è la comunità. Certo, la comunità può aiutarci in questo e, anzi, ci aiuta in questo, ci deve aiutare in questo. Ma il nostro rapporto con Dio si sviluppa anche nelle relazioni con gli altri.

Ritorniamo sempre a quelle pagine evangeliche in cui vediamo bene che le vocazioni, le chiamate, di Gesù si riferiscono sempre alla persona: Zaccheo, oggi devo fermarmi a casa tua! Natanaele, ti ho visto quando eri sotto il fico! Simone, ti chiamerai Pietro!

Non siamo noi che abbiamo scelto la vita religiosa, non siamo noi che abbiamo scelto una vita di particolare consacrazione a Dio; è Lui che ci ha scelti, è Lui che ci ha fissato, ci ha guardato con uno sguardo di particolare amore e ci ha detto: se vuoi, seguimi, ma fallo in modo libero, fallo in modo gioioso, fallo fidandoti di Me!

Ricordate quell’episodio in cui Gesù è sulla barca con i suoi discepoli e il mare s’ingrossa, il vento imperversa e Lui dorme. Gli apostoli non sanno più cosa fare, pur essendo dei buoni marinai, e “allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?»” (Mt 8, 25-26).

Un episodio simile accade tra Gesù e Pietro che gli dice “«Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14, 28-31).

L’Anno della vita consacrata, l’Anno giubilare. Siano un anno di fede in cui, con coraggio e umiltà, riscopriamo la memoria e il saper guardare alla nostra vita leggendovi – come avviene nel Magnificat – l’operare della misericordia di Dio che ci dona così anche la forza e la passione per vivere bene il momento presente e di avere sempre speranza verso ciò che il Signore dispone per la vita di ciascuno di noi e per la vita dei nostri istituti e delle nostre comunità.

Viviamo questo Anno Santo come un tempo di conversione nella fede!