Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione della chiusura diocesana dell’Anno giubilare straordinario della Misericordia (Venezia, Basilica S. Marco - 13 novembre 2016)
13-11-2016

S. Messa in occasione della chiusura diocesana dell’Anno giubilare straordinario della Misericordia (Venezia, Basilica S. Marco – 13 novembre 2016)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Stimate autorità,

cari confratelli nel sacerdozio, diaconi, consacrati, consacrate, fedeli laici,

cari ospiti della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore e della Casa di Reclusione Femminile della Giudecca,

questa eucaristia celebrata nella chiesa madre della Diocesi – presieduta dal vescovo – vuol essere al termine dell’Anno della Misericordia un segno semplice ma vivo del nostro ritorno a Dio Padre e della ritrovata fraternità tra noi. Vorremmo, così, rivivere lo spirito della parabola evangelica del Padre misericordioso e dei due figli.

Dopo aver chiesto perdono e aver preso le distanze dai nostri peccati, anche attraverso la giusta riparazione – poiché misericordia e giustizia si richiamano –  ci impegniamo ad essere, nella Chiesa e nella comunità civile, uomini e donne di riconciliazione. E proprio questo è il senso dell’invito rivolto a tutti, nessuno escluso.

Ai rappresentanti dei detenuti e alle due direttrici degli istituti di pena  consegneremo – al momento dell’offertorio – quanto è stato raccolto durante i pellegrinaggi alla Porta Santa di questa cattedrale perché si predisponga un nuovo spazio e si dia vita ad una nuova possibilità di lavoro e di socializzazione nelle due strutture detentive; concretamente, si tratta di allestire un più ampio e attrezzato laboratorio di pelletteria nel maschile e di dare il via ad una rinnovata attività teatrale nel femminile.

All’uscita verrà distribuito il libro “Le sbarre, esperienza di libertà”; è un testo curato dal cappellano del carcere maschile di Santa Maria Maggiore e in cui sono raccolte voci e testimonianze di detenuti. Sono pagine che sorprendono e assumono anche la forma di lezioni di vita da uno di quei luoghi che – per usare le parole di Papa Francesco – è una delle “periferie esistenziali” del nostro tempo.

Al termine, della celebrazione e prima della benedizione finale – attraverso l’intercessione di Maria, Madre della Misericordia – faremo l’atto di affidamento a Gesù, Misericordia del Padre, domandando la grazia di diventare di più uomini, donne e comunità che guardano alla Misericordia di Dio come alla vera speranza del nostro tempo; è un gesto semplice, umile ma significativo che poniamo in comunione con le Chiese sorelle del Nordest, è un modo per continuare a vivere lo spirito dell’Anno della Misericordia di cui ringraziamo il nostro carissimo Papa Francesco per averlo indetto.

Certamente, ognuno di noi – con la sua comunità – ha già usufruito, più volte, nel corso dell’anno delle grazie del Giubileo: pellegrinaggi, passaggio della Porta Santa, sacramento e virtù della penitenza, indulgenze, opere di misericordia. Ma – giunti al termine di tale cammino di perdono, di riconciliazione, di riparazione – vogliamo ora dire il nostro grazie al Signore e interrogarci anche “se” e “in cosa” è cambiata la nostra vita e quella delle nostre comunità.

Il Vangelo di Luca, appena ascoltato, contiene parte del discorso escatologico; un messaggio importante per i discepoli d’ogni tempo e, quindi, anche per noi. In esso si annuncia la distruzione del tempio e il ritorno del Figlio dell’uomo.

Il genere letterario è quello apocalittico, in uso presso gli ebrei e i cristiani soprattutto fra il IV-III secolo a.C. e il I secolo d.C.; tale genere letterario – per la sua complessità – chiede d’essere interpretato, il che non significa svuotarlo riducendolo a vuoti simboli e immagini. Il messaggio escatologico, per il cristiano, risulta essenziale: infatti, non solo annuncia la fine della storia ma soprattutto ne annuncia il fine, il suo significato ultimo; riflettiamo su questo punto e, se è il caso, tiriamone le conseguenze per la nostra vita.

Gesù pronuncia questo discorso subito prima della sua passione e nel durissimo scontro con le autorità giudaiche del tempo, innanzi al rifiuto del suo messaggio, proclama la sorte che attende la città santa e il tempio. Prevede un periodo nuovo e difficile, quello della missione della Chiesa; è il tempo della fede, della testimonianza, della persecuzione che conduce alla vittoria.

Noi, oggi, non siamo più di fronte al potere del sinedrio o di Roma e di coloro che li rappresentavano – Anna, Caifa, Erode, Pilato, Tiberio Cesare -; essi sono stati sostituiti da altri volti che esprimono un potere che, di volta in volta, pretende di costruire un uomo a sua immagine, prescindendo da Dio o contro Dio.

Dai Vangeli di Marco e Matteo sappiamo che sono proprio i discepoli di Gesù ad interrogarlo sullo splendore del tempio. La risposta di Gesù è chiara e, per un ebreo, scandalosa: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta” (cfr. Mt 24,2 e Mc 13,2).

Tali parole per un ebreo sono una bestemmia e Gesù, che era ebreo, lo sapeva bene. Il tempio rappresentava, infatti, il cuore stesso dell’ebraismo; era insieme realtà e simbolo. Il tempio era lo scrigno della storia d’Israele, che è storia di salvezza, e nel tempio si custodiva e riviveva questa alleanza, questa vita, questa storia, ovvero l’identità profonda del popolo.

E’ la stessa logica che, nel libro della Genesi, anima il primo racconto della creazione – testo sacerdotale – profondamente legato al culto; qui i giorni della settimana tendono al sabato, giorno del Signore, in cui il popolo era chiamato al culto che, proprio nel tempio, aveva il suo centro e quindi era, per eccellenza, il luogo santo dell’ebraismo.

Così il tempio, per l’israelita, era la stessa ragione di vita e si esprimeva nella Legge e nelle prescrizioni del culto che, a loro volta, si identificavano col tempio; si comprende, allora, come la distruzione del tempio fosse, anche, chiara profezia della fine della storia.

Gesù, infatti, parla dei due eventi tenendoli distinti ma non li separa e così siamo invitati a una lettura sapienziale della storia e a non rimanere legati a una lettura di tipo cronologico. Possiamo allora comprendere la forza dirompente delle parole di Gesù!

Di fronte ad esse, la risposta dei discepoli risulta veramente sconcertante e scoraggiante poiché in essa non c’è desiderio di conversione. Al contrario, esprime pura curiosità: “Maestro quando, dunque, accadranno queste cose e quale sarà il segno?” (cfr. Mt 24,3 e Mc 13,3). Oggi – non dimentichiamolo – siamo noi i discepoli di Gesù!

Gesù traccia lo schizzo di un quadro che va inteso nelle sue linee prospettiche. Ecco le sue parole: “Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi… Avrete allora occasione di dare testimonianza… io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere… sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…” (Lc 21, 12.13.15.16).

La conclusione, però, è di conforto per il discepolo: “…sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (Lc 21,17-19).

In pochi versetti qui troviamo il libro dell’Apocalisse, ovvero la testimonianza, la persecuzione e la vittoria a caro prezzo di coloro che si donano totalmente non svendendo nulla: sono i martiri, presenti anche oggi in Africa, in Asia, in America, in Europa. Non facciamo finta di non vedere! Questo è il senso dell’esistenza cristiana. E non si pensi a un cristiano eccezionale o eroico; no, è solo il cristiano fedele alle promesse battesimali, fedele a Gesù nella storia, momento dopo momento.

La perseveranza e la speranza sono due facce della stessa medaglia. La perseveranza non va pensata come puro sforzo umano; è piuttosto, l’atteggiamento di chi non vive solo un puro auspicio o desiderio ma la “sicura certezza” di una realtà “già” data (la risurrezione o trionfo della croce di Cristo) seppur “non ancora” pienamente conseguita. Il “già” e il “non ancora” è il tempo della Chiesa, il nostro tempo, ovvero il tempo della fede, il tempo della perseveranza, il tempo della speranza e della carità che sempre accoglie.

Il nostro impegno – mentre si chiude l’Anno giubilare – non riguarda singoli proponimenti ma chiede di mettere al centro della nostra vita personale e comunitaria la fede; sì, la fede, la nostra fede battesimale, fatta di promesse e rinunce.

Dobbiamo riscoprire il battesimo attraverso una fede coraggiosa che è fondamento di una speranza affidabile e di una carità operosa, accogliente verso tutti. Così la fede – come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica – è l’inizio personale (io credo) e comunitario (noi crediamo) della vita dei discepoli del Signore ed è, semplicemente, la risposta alla chiamata di Gesù. Riscopriamo il piano di Dio nella nostra vita!

Occorre, al termine di quest’Anno giubilare, ritornare a Dio con tutto il cuore, salire sulla santa montagna, togliersi i sandali, prostrarsi – come Mosè – dinanzi al roveto ardente, al Dio-carità e al Dio-verità, al Dio misericordioso e al Dio giusto.

Come esorta l’apostolo Paolo nelle lettere agli Efesini e ai Corinti, siamo chiamati a fare la verità nella carità (cfr. Ef 4,15) e a vivere una carità che gioisce della verità (cfr. 1Cor 13,6). Separare carità e verità vuol dire dividere ciò che è indivisibile  nell’unione originaria e, alla fine, Dio è questo tutto ineffabile.

Viviamo nella verità e nella carità, mostrando a quanti ci stanno accanto che cos’è la vita di Dio e in Dio. In tal modo, ogni peccato – prima di avere un profilo specifico e un contenuto proprio – è, nella sua radice, carenza di verità e di carità. Il peccato consiste proprio in questa separazione; non è qualcosa di immaginario ma di concreto che segna la nostra vita e quella della Chiesa.

A nessuno è lecito banalizzare il peccato pensando che, intanto, Dio è misericordioso e perdona. Certo, Dio è misericordia e perdona, ma il peccato lacera il cuore di Dio, il cuore dell’uomo e della comunità e chiede conversione e riparazione. È perciò necessario prendere le distanze dal peccato, attraverso la conversione,  riparare e guarire la ferita provocata dal peccato. E ciò avviene attraverso il dono della misericordia che chiede d’esser accolto da un cuore che si converte.

La rinnovata comunione con Dio deve coincidere con la nostra presa di distanza dal peccato. Questo è il senso delle promesse battesimali: rispondere a Dio ricco di misericordia in verità e sincerità, rinunciando a se stessi e al proprio peccato.

Stare nella pace, aver fiducia in Dio Misericordia superando le ideologie del mondo – il mondo, infatti, è abilissimo a costruire sempre nuove ideologie – e accogliere la sua Parola sempre attuale e valida – ieri, oggi e sempre – per poter penetrare il Mistero di Dio.

Il peccato è tradimento dell’amore e della verità, ossia tradimento di Dio. Occorre temere di più Dio e meno gli uomini. Saremo più liberi. Forse daremo fastidio a qualcuno, ma saremo nella pace. Dio va temuto solo perché potremmo perderlo, gli uomini – che vanno sempre amati e accolti – li dobbiamo temere solo se ci allontanano da Dio. Ricordiamo le durissime parole di Gesù sullo scandalo (cfr. Mt 18,6-10; Mc 9,42-48). Il timore di Dio e il timore degli uomini il cristiano e il mondo li intendono in modi radicalmente diversi fra loro.

Guardiamo a Maria, l’Immacolata; il suo “sì” ha reso possibile l’irruzione della Misericordia di Dio nella storia e, da allora, tutto passa da Lei. Sì, tutto passa – come a Cana di Galilea (cfr. Gv 2,1-11) – attraverso le sue mani; lo insegna anche il Concilio Vaticano II, dove la Sua maternità si dispiega come mediazione all’interno dell’unica e sufficiente mediazione di Cristo (cfr. Lumen gentium n. 62).

Per questo La invochiamo come nostro rifugio e, in quanto peccatori bisognosi della divina Misericordia, la veneriamo Mater Misericordiae e sicura via di tutte le grazie. A Lei chiediamo che sostenga il nostro atto d’affidamento a Gesù, Misericordia del Padre, perché – se l’Anno giubilare finisce – il suo messaggio continui nelle nostre comunità. Con vera fiducia e amore, ora, accostiamoci all’altare come comunità desiderosa di comprendere e vivere al meglio il dono della misericordia di Dio che passa sempre attraverso la croce gloriosa di Gesù.