S. Messa in occasione della candidatura all’ordine sacro di tre seminaristi
(Venezia – Basilica S. Marco, 17 aprile 2016)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi fedeli, confratelli nel sacerdozio, diaconi, e soprattutto mi rivolgo a voi Claudio, Daniele ed Augusto,
il cammino del Seminario è grazia. Non solo per voi, ma per l’intera Chiesa particolare è grazia ed è aiuto affinché la comunità ecclesiale abbia il dono del sacerdozio ministeriale.
Abbiamo ascoltato alcuni versetti del capitolo 10 di Giovanni: Gesù è il Buon Pastore. È il vero pastore, il pastore completo: questi sono, infatti, i significati del termine che indica Gesù come pastore.
Spetta a voi ora guardare a Lui, come unico modello e dono di libertà, ben sapendo che questo dovete essere per voi e per la gente a cui il vescovo vi affiderà. Il vescovo è il primo servitore della Chiesa; ascolta, prega, non inventa nulla, sa di dover rendere conto a Dio di tutto e vi manda dove pensa che la Chiesa che gli è stata affidata abbia necessità e bisogno.
Sì, carissimi seminaristi, dovete essere per voi stessi e per la Chiesa un dono di libertà, di gioia e di comunione ecclesiale a partire dalla condivisione presbiterale con i confratelli sacerdoti e con la paternità del vescovo.
Carissimi Claudio, Daniele ed Augusto, vi preparate ad essere sacerdoti in un presbiterio, non ad essere sacerdoti da soli; la dimensione personale del presbiterato sta sempre insieme a quella comunitaria. Gli aspetti personali e comunitari sono realtà differenti che si oppongono all’individualismo. La teologia e la spiritualità del presbiterio comporta che nessun sacerdote sia sacerdote da solo; non lo è teologicamente, non lo può essere spiritualmente, non lo deve essere psicologicamente e, se lo fosse, dovrebbe avere il coraggio di trarne le conseguenze.
È soltanto nella comunione con il vescovo e con gli altri presbiteri che ogni sacerdote rende il suo servizio prima di tutto a Gesù, perché il sacerdote innanzitutto serve Gesù e – servendo Gesù – serve i fratelli.
Il prete – come ci ricorda Papa Francesco – è innanzitutto pastore ma deve esserlo non secondo la misura dei manuali teologici o pastorali ma secondo il Vangelo, secondo la misura di Gesù, il vero pastore.
E allora – carissimi Claudio, Augusto e Daniele – innanzitutto dovete essere uomini di preghiera: Egli, infatti, ne scelse dodici perché stessero con Lui e poi per mandarli. Siate uomini di preghiera!
Sarete sempre di più – saremo sempre di più – circondati da un mondo frenetico che ragiona secondo le logiche del profitto, del guadagno, del primo posto, dell’interesse; saremo sempre di più circondati da un attivismo frenetico che fa perdere l’orientamento del cuore. E tante malattie che hanno a che fare con la psiche hanno origine da una sbagliata impostazione spirituale… L’agire frenetico del mondo diventa distruttivo, le possibilità inaudite che oggi consentono la tecnica e la scienza ci rendono ingranaggi, ci confondono, ci illudono e, come sempre, chi si illude rimane deluso. Ci fanno ritenere onnipotenti ma noi non lo siamo, siamo creature.
Il Papa ce lo ha ricordato nella Laudato si’. Si tratta di gioire di essere creature; è l’abc, la grammatica, la nota fondamentale il riconoscerci creature, il riconoscere i nostri limiti. E gioire perché la nostra vita ha delle stagioni, ha dei tempi, ha un termine.
Le forze del nostro mondo – se viene meno la forza della preghiera e se il prete non è prima di tutto uomo di preghiera – distruggono l’essere sacerdotale, l’essere battesimale, l’essere creatura. Il prete è chiamato ad essere una sentinella che guarda lontano senza dimenticare dove, con la sua gente, sta muovendo i primi passi.
Guai se il sacerdote non partecipa della sapienza della preghiera, se non ha il gusto delle cose di Dio, se non riesce a comunicare alla sua comunità il gusto delle cose di Dio e il sapere delle cose di Dio.
Cari seminaristi, carissimi Claudio, Daniele ed Augusto, non abbiate timore di dedicare parte considerevole ed anzi la parte preponderante del vostro tempo alla meditazione della parola di Dio, alla preghiera e all’Ufficio divino. Non toglierete nulla alla carità, all’attenzione per gli altri; anzi, avrete quell’intuito divino che vi permette di leggere le situazioni umane secondo la sapienza di Dio, quasi a vostra insaputa.
La Parola di Dio letta, meditata e studiata nel grembo della Chiesa vi trasformerà come manifestazione della sapienza di Dio. Se questa preghiera e questo studio sapienziale diventano compagnia della vostra vita, allora questa vi segnerà nel vostro apostolato quotidiano, anche nelle cose più semplici, nel modo di salutare la gente, nel modo di parlare alla vostra gente delle cose di tutti i giorni e anche quando, invece, dovrete dire a loro le parole esigenti del Vangelo.
Questa dimestichezza con Dio diventerà appoggio per il vostro ministero e sarete il conforto delle persone che vi vengono affidate non perché riuscirete a risolvere i loro problemi ma perché saprete non lasciarle sole e vi sentiranno – oltre che padri – fratelli, amici e maestri.
Siate soprattutto testimoni della preghiera che anima le vostre giornate perché la preghiera è rapporto con Dio e la dimestichezza con Lui ci rende più uomini. Siate uomini di carità, di ascolto, di incontro, di accoglienza incominciando ora – ora! – dalla comunità di cui siete parte: il Seminario diocesano.
Se non siete capaci di questo negli anni della formazione del Seminario, allora sarete solo uomini di “immagine” per quello che riguarda la carità, l’ascolto, l’incontro e l’accoglienza. Ma l’immagine dura poco, svanisce presto e, soprattutto, non regge le difficoltà. E non sarete, dunque e davvero, persone di ascolto, di incontro, di accoglienza e di carità con chi condivide realmente con voi la vita quotidiana e il vostro ministero. Lo sarete sempre e solo rivolti all’esterno, quasi per ricercare una legittimazione esterna in quello che in realtà, invece, è un triste individualismo e – Dio non voglia – narcisismo. Il prete è un uomo; anche lui può avere questi difetti e di tale agire esteriore alla fine potremmo dire che è ricerca di se stessi, ricerca dell’affermazione di sé, del proprio io.
Integrarsi con il proprio profilo personale, con le proprie doti e con la propria storia all’interno della comunità del Seminario non è qualcosa di poco conto o che può essere rinviata al futuro, non è qualcosa che deve far pensare chi è posto ad accompagnarvi nella formazione.
La realtà del presbiterio diocesano, l’essere uomini di comunione, l’appartenere alla gente è un qualcosa che va preparato fin dal tempo del Seminario; è qualcosa che si forma lentamente dentro di noi e che va concepito come condizione essenziale per vivere l’ecclesialità del proprio sacerdozio che non si identifica mai con un ministero particolare (sia di parroco, sia di incarico diocesano chiesto, voluto, preteso…) ma come un ministero condiviso con gli altri affidandosi alla scelta del vescovo, primo servitore della Chiesa.
Pensare di identificarsi in modo totale con un ufficio identificarsi con un ufficio, con una carica, con un incarico o con un compito non è indice di una spiritualità particolare; è segno di un attaccamento, è in opposizione al servizio che è disponibilità al di là e oltre la propria visione, il proprio desiderio, la propria volontà.
Specifico del presbitero è presiedere l’Eucarestia, è il proprium del presbitero chiamato, appunto, a presiedere quel gesto in cui Cristo si dona agli altri senza trattenere nulla per Sé. Chi presiede questo gesto – come anche chi vi partecipa – deve conformarsi al gesto eucaristico del pane spezzato e del sangue effuso.
Nell’Eucarestia compirete l’atto sacerdotale più alto, rendendo presente l’offerta che Cristo fa di Sé sulla croce. Come potrebbe, allora, chi compie quel gesto e lo presiede porlo in un ministero fatto di autonomia e di autosufficienza? La gente che vi è affidata ha il diritto di avere una degna presidenza dell’Eucarestia.
Il cammino del Seminario – lo ripeto – è grazia, è vero aiuto, è costruire con la grazia di Dio un’immagine il più possibile simile a quella di Gesù Buon Pastore.
Costruite in voi la libertà, la gioia, la comunione ecclesiale, a partire dalla condivisione del presbiterio nella comunione con il vescovo. Dio vi aiuti e, su questa strada, sarete una benedizione per la vostra Chiesa.