S. Messa in occasione del pellegrinaggio mariano mensile alla Basilica della Salute
(Venezia, 4 dicembre 2021)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle, siamo giunti al pellegrinaggio del primo sabato dell’Avvento e il Vangelo di oggi (cfr. Mt 9,35-10,1.6-8) ci ricorda il senso primo dei nostri pellegrinaggi: pregare affinché il Signore conceda operai alla sua messe.
Ringrazio anche della presenza i membri del Serra Club ed il loro assistente mons. Gianni Bernardi. Li ringrazio anche della loro preghiera e di quello che sarà il loro apostolato in Diocesi proprio con lo scopo, il fine, di suscitare nuove vocazioni.
La preghiera è – se possiamo esprimerci in questo modo – la “ricetta” che Gesù dà di fronte alla necessità di sempre: avere degli apostoli. Faccio presente che il Vangelo ricorda che i mandati sono mandati ad annunciare il Regno, poi ci sono anche dei segni ma, di per sé, il mandato (l’inviato) non va a compiere dei miracoli ma ad annunciare il Regno. Il Regno ha anche dei segni che avvalorano l’annuncio di colui che è mandato, ma teniamo sempre fermi e chiari quello che è il fine e quelli che sono i mezzi perché molte volte – anche nella pastorale – avviene il contrario e cioè quello che è fine diventa mezzo e viceversa.
Chi fra di noi vive e prega la liturgia sa che la prima parte dell’Avvento è affidata al profeta Isaia, uno dei grandi profeti dell’Antico Testamento. Il brano che è stato proclamato poco fa (cfr. Is 30,19-21.23-26) ricorda proprio questo cammino di conversione che è certamente grazia del Signore ma, se avete notato, nel testo si parla anche del pane dell’afflizione e dell’acqua della tribolazione. Ci sono sì i segni che dicono come Gerusalemme sarà la città visitata e sarà il luogo di incontro con Dio ma, all’inizio del brano, si parla del pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione.
La conversione è sempre penitenza, è sempre un trauma nella vita di colui che è chiamato a Dio; è una rottura, è un far forza sul nostro uomo vecchio. Isaia dà delle immagini di ottimismo e anche delle immagini severe di questo cammino di conversione.
Ricordiamo che Isaia è il profeta che dice: io non so cosa farmene di un popolo che calpesta gli atri del tempio e finita la festa torna a vivere come viveva precedentemente. Il profeta Isaia non condanna il culto ed il sacrificio, in nome di un profetismo che abolisce il sacerdozio, perché certa teologia è arrivata anche a dire questo.
Assodato che il sacerdozio dell’Antico Testamento non è il sacerdozio che nasce da Cristo – che non è della stirpe di Levi – ma è un sacerdozio diverso, molti teologi avevano visto in questa affermazione veterotestamentaria una negazione del valore della liturgia a scapito della profezia e della predicazione. Bisognerebbe, invece, ricordare a chi dice questo che Isaia ed altri profeti che stigmatizzano il culto e rifiutano il sacrificio stigmatizzano e rifiutano un culto ed un sacrificio che è allontanamento dall’alleanza, mancanza di fedeltà alla Parola annunciata che diventa anche preghiera. Le due cose stanno insieme e questo bisognerebbe ricordarselo (anche sul piano teologico).
Maria è la figura di Avvento per eccellenza. Dopo Isaia arriverà la figura del Battista che è colui che ha il privilegio fra tutti i profeti di “indicare”; l’iconografia cristiana rappresenta il Battista colme colui che indica, gli altri hanno parlato del Messia venturo ma lui lo ha potuto indicare. Impallidisce questa figura di Avvento – così forte, così reale – del Battista, di fronte alla figura di Maria.
Maria è l’Avvento e molte volte noi dobbiamo fare attenzione perché la devozione è un valore; non ci può essere vera vita di fede se manca la devozione, altrimenti cadiamo in un intellettualismo e quanti gruppi ecclesiali si sono staccati dalla Chiesa e dalla fede perché sono caduti in una forma di intellettualismo. La devozione è importante, è espressione della fede, ma dobbiamo stare attenti che la devozione non diventi devozionismo.
Il richiamo forte, all’inizio dell’anno liturgico, è proprio quello della liturgia. Noi abbiamo iniziato da pochi giorni il nuovo anno liturgico e la pietas benedettina – che è una delle tante spiritualità che conosce la Chiesa ed è soprattutto spiritualità liturgica – ci dice che in una liturgia vissuta bene c’è tutto. Ecco perché Maria è la prima liturga, è Colei che riceve il sacramento della salvezza nel suo grembo verginale, nel momento dell’annunciazione, è Colei che offre il sacramento della salvezza perché la troviamo ai piedi dell’altare.
Non mi soffermo, poi, sul secondo capitolo del Vangelo di Giovanni di cui ho parlato in occasione della solennità della Madonna della Salute pochi giorni fa.
Maria è la grande liturga. Molte volte noi guardiamo a Maria come a Colei che ha il Bambino in braccio, guardiamo a Maria come la Madre riducendo questo fatto se non ad un momento biologico e basta quantomeno al momento umano, quasi infantile.
C’è una frase del Vangelo che ci dice questa azione liturgica di accoglienza e di dono, di offerta al Padre del proprio figlio; è una frase che è pronunciata da Gesù nel Vangelo. «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).
Noi sappiamo che i Vangeli non sono una cronaca di tutti gli avvenimenti accaduti ma sono il risultato di una selezione, una sintesi, un adattamento degli eventi più importanti e ci consegnano il tutto ma non tutte le cose. La frase finale del Vangelo di Giovanni è molto chiara: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,25). Eppure non possiamo dubitare che nei quattro Vangeli c’è tutto anche se non ci sono tutte le cose.
Il Nuovo Testamento ci presenta Maria all’inizio dell’evento di Cristo, al concepimento, l’incarnazione (il momento più alto), e poi ci presenta Maria a Betlemme che partorisce verginalmente il Verbo di Dio, Colui che ha un unico Padre perché è il Figlio eterno del Padre. La verginità di Maria non è solo un articolo di fede mariano ma è cristologico e trinitario.
Troviamo Maria all’inizio della vita pubblica di Gesù, a Cana di Galilea e non mi soffermo su questa pericope perché ne ho già parlato recentemente; poi troviamo ancora Maria durante la vita pubblica di Gesù come Colei che ha donato e si è espropriata di ciò che appartiene ad una madre, cioè il Figlio. Ha dato tutto. La troviamo, infine, ai piedi della croce dove questa offerta diventa esplicita, la troviamo nel cenacolo, nel momento in cui si compie la Pasqua e il frutto della Pasqua è il dono dello Spirito Santo.
Maria è questa liturgia vivente. La liturgia, certo, vive di segni, di simboli, di parole, di gesti – se togliete alla liturgia i segni e i gesti non esiste più – ma la realtà ultima della liturgia, che vive di quei segni, è ben altro.
La via eterna per noi sarà unicamente un atto liturgico continuo, in un eterno presente in cui offriremo il Figlio al Padre nello Spirito Santo.
Ecco l’importanza di vivere bene l’anno liturgico che è luogo manifestativo della fede della comunità ecclesiale ma l’anno liturgico è anche catechesi, è preghiera e plasma la comunità. È sintomatico allora che la figura prima dell’inizio dell’anno liturgico, cioè del tempo di Avvento, certo non in senso cronologico, è Maria, Colei che è l’Avvento.
La fede mariana e la pietà mariana non sono devozioni di un cristianesimo superato o di un cattolicesimo che si oppone ad altre confessioni cristiane; appartiene al cuore, è al centro della fede, della preghiera, della vita della Chiesa e la Lumen gentium ci riporta con l’ottavo capitolo – ossia l’ultimo dopo il capitolo settimo che riguarda la Chiesa trionfante, l’escatologia e dopo tutti gli altri capitoli che mettono a fuoco la realtà della Chiesa, la santità – a Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa.
Iniziamo bene questo tempo di Avvento, iniziamolo sfrondando magari certe non devozioni, che sono importanti, ma l’atteggiamento di devozionismo. Andiamo all’essenziale e prepariamo bene la liturgia. Un atto di Avvento dovrebbe essere mettere al centro di tutto la domenica; l’inizio di una vera pastorale dovrebbe essere quello di riscoprire il giorno del Signore.
C’è un bel testo di Girolamo il quale dice: è la festa, cioè la celebrazione, che crea comunità; non è la comunità che crea la festa.
Molte difficoltà pastorali stanno qui: il mezzo diventa fine e il fine diventa mezzo. Ecco perché il Vangelo di oggi ci ricorda che per ottenere operai per la nostra messe dobbiamo soprattutto pregare.
Auguro di poter percorrere con forza e con vigore questa strada a chi appartiene, fa già parte e sta costituendo il gruppo del Serra Club. E auguro soprattutto questo al suo assistente mons. Bernardi.