Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione del Convegno nazionale “Ascolto e dialogo, i passi del cammino. Sfide educative ed ecclesiali” (Mestre / Chiesa parrocchiale S. Lorenzo Giustiniani, 3 maggio 2022)
03-05-2022

Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola, l’università

Servizio nazionale per l’insegnamento della religione cattolica

S. Messa in occasione del Convegno nazionale “Ascolto e dialogo, i passi del cammino. Sfide educative ed ecclesiali”

 (Mestre / Chiesa parrocchiale S. Lorenzo Giustiniani, 3 maggio 2022)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

Rivolgo un saluto cordiale di benvenuto, qui a Mestre e a Venezia, a voi che partecipate al convegno nazionale che ha per tema come tradurre le essenziali dimensioni dell’ascolto e del dialogo nel campo educativo ed ecclesiale.

La liturgia della Chiesa celebra oggi la festa dei santi apostoli Filippo e Giacomo. Siamo in pieno tempo pasquale, ossia viviamo quel particolare momento che ci è dato per diventare sempre più discepoli del Risorto.

Sarebbe molto più facile seguire il Gesù “terreno”, quel Gesù che il primo gruppo di discepoli e poi apostoli aveva potuto vedere e toccare, ascoltando le sue parole e, anche, mangiando con Lui e camminando con Lui per le strade della Palestina.

Ma l’ora di Gesù, per usare il linguaggio dell’evangelista Giovanni, si compie sulla croce: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E questo “innalzare”, verbo tipicamente pasquale, indica insieme la croce e la risurrezione di Gesù unendo indissolubilmente morte e glorificazione.

In questo tempo la liturgia della Chiesa si sofferma continuamente sulle apparizioni di Gesù risorto (le ricorda anche la prima lettura di oggi – 1Cor 15, 1-8) e così ogni apparizione diventa un incontro decisivo e un momento di vera e reale catechesi che vuol venire incontro alla mancanza di fede o alla fede insufficiente (da purificare e irrobustire) dei discepoli, uomini e donne che costituiscono la Chiesa primitiva.

La prima lettura – san Paolo ai Corinzi – ci presenta uno dei testi più antichi del Nuovo Testamento che parla della risurrezione di Gesù ed è, appunto, un testo “kerygmatico” che, in modo sintetico ed efficace, raccoglie il cuore dell’annuncio cristiano – il cuore del Vangelo – ossia la “buona notizia” trasmessa e ricevuta.

Lo abbiamo appena sentito: “…Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture… fu sepolto… è risorto il terzo giorno secondo le Scritture… apparve a Cefa e quindi ai Dodici.. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta… Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me…“ (1Cor 15,3-8).

Le apparizioni e gli incontri del Risorto hanno sempre una duplice caratteristica e finalità: far recuperare la fede a chi l’ha smarrita e conferire la missione, inviando nel mondo. Le apparizioni non “sono” la risurrezione ma ne costituiscono la “frangia” storica. Come sappiamo, infatti, la risurrezione è un evento metastorico: nessuno ha visto Gesù nell’atto di risorgere, ma abbiamo i “testimoni” che avevano vissuto con Lui e che attestano di averlo visto ed incontrato “vivo”.

Nel resoconto di Paolo è interessante notare come sia citato per primo Cefa, poi i Dodici e, in seguito, tutti gli altri, tra cui Giacomo e lo stesso Paolo. L’apparizione a Pietro precede e, in un certo senso, garantisce anche le altre apparizioni e per questo viene prima di esse.

Sempre Pietro, nel libro degli Atti, sarà colui che – prima di Paolo – “apre” ai pagani convertiti (cfr. Atti cap. 10-11), anche se poi ci sarà la missione specifica di Paolo. Giacomo e Paolo rappresenteranno le due differenti “anime” della primitiva comunità cristiana. Ma la Chiesa è e rimane sempre una ed è costituita e garantita in tale unità dalla figura di Pietro che, appunto, viene prima e precede Paolo e Giacomo.

Nel Vangelo (Gv 14,6-14) Gesù si presenta come “via, verità e vita”: è l’affermazione dominante di questa pericope evangelica. Gesù, per il suo rapporto con il Padre, si rivela come il Mediatore della salvezza. Questa frase di Gesù – come probabilmente saprete – può essere letta ed è stata letta nel tempo con sfumature differenti che, comunque, si arricchiscono ed illuminano vicendevolmente: “Io sono la via alla verità e alla vita” ma anche “Io sono la via perché sono la verità e la vita”.

In questo senso, Gesù non è soltanto il cammino verso la verità ma Egli è la Verità in persona e, quindi, per i discepoli e per la Chiesa comporta un singolare e determinante approccio con Gesù-Verità che, fin dall’inizio, illumina e orienta tutto il cammino del discepolo e della Chiesa.

Mettere insieme queste due interpretazioni è un prezioso aiuto alla spiritualità di chi opera nel mondo della scuola e per gli insegnanti di religione.

Mi permetto, poi, di condividere alcune riflessioni riguardanti più da vicino l’ampio ambito del settore educativo e formativo nel quale voi siete quotidianamente impegnati.

Mentre la scuola e la stessa università sembrano assicurare agli studenti mezzi didattici, pluralità di offerte e possibilità formative, anche in fatto di strumentazione, più in difficoltà sembrano essere a proposito dei fini e cioè la capacità di dare significato a questi mezzi, a queste risorse, a queste possibilità.

Dinanzi a tanta varietà di proposte è fondamentale saper indicare criteri di valutazione circa l’uso di tali mezzi. C’è il rischio che ogni persona – lo studente nel caso specifico – si senta quasi invogliato a prendere quello che gli può essere più utile in quel momento non tenendo conto, invece, che il tempo della formazione è un’opportunità per darsi un orientamento.

Non si tratta, infatti, di “pilotare” ma di andare oltre un’offerta formativa che sia attenta solo ai mezzi per un’offerta che sia, invece, capace di fornire supporti e criteri nei confronti dei fini.

Ancora una parola, infine, sulla scuola “pubblica” che è – come sappiamo – statale e non statale. Eppure in Italia, per ragioni che affondano nella storia, soprattutto ottocentesca, continua ancora l’atavico conflitto tra quella che è considerata scuola “pubblica” e quella che, invece, talvolta, viene erroneamente considerata come “privata”.

Il tutto nasce da una visione distorta che identifica il “pubblico” esclusivamente con lo Stato, dimenticando che c’è un riferimento più ampio ed è la dimensione politica e sociale di una comunità; c’è insomma una società civile che va ben oltre i confini ristretti di ciò che è “statale” ed è orientata nella costruzione del bene comune, a partire anche dai livelli “elementari” della società stessa.

Non è, quindi, semplicemente la titolarità dell’iniziativa o della struttura a definire il suo carattere “pubblico”. Il pensiero cattolico riconosce, certamente, lo Stato e il suo ruolo in campo educativo ma promuove il concetto di sussidiarietà in cui il depositario del diritto-dovere dell’educazione resta prima di tutto la famiglia, che va sostenuta in questo suo compito dallo Stato anche nel poter esercitare veramente un’effettiva libertà di scelta circa la scuola ritenuta più adeguata per la crescita e l’educazione dei figli.

Nel panorama italiano rimane, perciò, aperta ed irrisolta una questione che diventa ogni giorno più urgente; si tratta della scuola paritaria e lo dico dal Veneto dove tuttora, pur tra mille difficoltà, circa il 60% – 70% dei bambini delle scuole dell’infanzia frequenta, proprio, gli istituti paritari; tale scuola deve a tutti gli effetti potersi considerare “pubblica”, come in realtà essa è.

Le nostre Chiese più volte hanno ricordato e affermato che richiedere una maggiore libertà di educazione non è lotta confessionale, ma rappresenta una battaglia per il pluralismo, per il bene e per la stessa sana laicità della società.