Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione del bicentenario della dedicazione della Chiesa Matrice di Santa Eulalia di Mérida Vergine e Martire (Chiesa Matrice di Santa Eulalia / Borso del Grappa, 4 settembre 2016)
04-09-2016

S. Messa in occasione del bicentenario della dedicazione della Chiesa Matrice

di Santa Eulalia di Mérida Vergine e Martire

(Chiesa Matrice di Santa Eulalia / Borso del Grappa, 4 settembre 2016)

Omelia del Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia

 

 

Cari confratelli nel sacerdozio, consacrati e consacrate, fedeli, stimate autorità,

siamo qui riuniti intorno all’altare, dove fra poco si renderà presente l’unico sacrificio della croce da cui il mondo viene incessantemente salvato. Maria, Madre della divina Misericordia, Mediatrice universale delle grazie, ci aiuti a vivere nella fede questo momento di grazia.

Santa Eulalia di Mérida – che concluse il suo cammino terreno giovanissima a non più di quattordici anni, durante la grande persecuzione di Diocleziano, nell’anno 304 – ci dà l’opportunità, nel bicentenario della dedicazione di questa Chiesa Matrice, di guardare alla santità come a ciò che è essenziale nella vita della Chiesa.

I primi santi riconosciuti tali dalla Chiesa furono i martiri: uomini, donne e anche adolescenti che, messi di fronte all’alternativa radicale – salvare la vita o testimoniare fino al sangue la loro appartenenza a Cristo -, hanno scelto di dare la loro vita piuttosto che tradire la promessa fatta al Signore Gesù.

Eulalia ci offre, così, la possibilità di parlare della santità ma in modo concreto. I santi, infatti, ci vengono incontro con  i loro volti, con le loro storie, con la loro personalissima fedeltà a Cristo; i santi e le sante hanno volti, nomi, storie singolarissime, uniche, irripetibili.

E, attraverso le loro commoventi vicende, esprimono la situazione reale della Chiesa che non è una delle tante comunità che si possono incontrare, ma è il corpo di Cristo, è la sua presenza viva tangibile in mezzo al mondo, come sperimentò in modo drammatico l’apostolo Paolo sulla via di Damasco.

La Chiesa, certamente, appartiene al mondo ma non è del mondo e vive nella storia ma non è solo realtà storica; nella sua propria consistenza è la sposa di Cristo, chiamata ad somigliare sempre più al suo Sposo.

Il dialogo – vocabolo che appartiene al lessico ecclesiale – è genuino se riconosce la specificità della Chiesa e del mondo; il dialogo, infatti, afferma una appartenenza ma, allo stesso tempo, una differenza che non può esser annullata. Il martirio è, da parte del credente, espressione di un dialogo che non riduce, tradendola, la differenza ma che testimonia un’appartenenza e un amore che non vengono meno.

Così, per assurdo, se la Chiesa fosse efficiente in tutto, vivace in ambito teologico, pastorale e sociale, eppure mancasse della testimonianza della santità che mette in conto anche il martirio, allora avrebbe smarrito la sua anima, ovvero ciò che è essenziale e che, se manca, mette tutto in questione.

Non sono i convegni, non sono la ricerca, le pubblicazioni teologiche e   neanche l’organizzazione della carità a dirci il vero stato di salute della Chiesa; tali attività, infatti, esprimono ancora solo qualcosa di funzionale e non l’anima della Chiesa.

L’anima della Chiesa ce la rivela la santità dei preti, la santità dei consacrati, la santità delle consacrate, la santità degli sposi. E la santità – l’abbiamo detto – è appartenenza al Signore. La santità è fedeltà alle promesse battesimali, è il “sì” detto al Signore; la santità è la sola in grado di rivelare la situazione di reale benessere o meno della Chiesa cattolica.

Cattolica è termine che, prima d’indicare una precisa appartenenza cristiana – Chiesa ortodossa, Chiesa evangelica e, appunto, Chiesa cattolica -, dice apertura al tutto, alla totalità;  Kat’olon (Cattolica) indica il tutto, l’apertura alla totalità che è la persona di Gesù. La vera totalità è Lui, il Signore Gesù; a Lui solo dobbiamo guardare, a Lui solo dobbiamo rivolgerci senza lasciarci distogliere dalle sirene del mondo che cercano di distoglierci da Lui che è via, verità, vita.

Santità, quindi, vuol dire non pensare come pensa il mondo, non parlare come parla il mondo, non giudicare come giudica il mondo – secondo ciò che è considerato  “politicamente corretto” – seguendo le culture, di volta in volta, dominanti.

Non dimentichiamo, poi, che la vittoria di Satana –  l’Avversario, colui che divide e che quando mente dice del suo – consiste nel portare dentro la Chiesa la logica e lo stile del mondo.

Come ben sappiamo, un errore è più grave quanto maggiore è la percentuale di verità che esso contiene e, quindi, la menzogna inizia con la reticenza, l’ambiguità del non detto che, in realtà, dice o nel dire in modo solo allusivo, generico, incompiuto; questa è logica mondana che divide e non costruisce ma distrugge.

Non dobbiamo, quindi, solo temere che il Vangelo sia negato ma che sia distorto, piegato  dal pensiero comune dominante e ne sia data una lettura comoda, gradita, e, cristianamente parlando, indolore; leggere il Vangelo ponendo fra parentesi la croce, ossia l’evento pasquale, e cancellando così tutto ciò che lo esprime e richiama.

Il santo è, al contrario, colui che legge il Vangelo, con la propria testimonianza di vita, a partire dalla croce/risurrezione; colui che dice semplicemente “sì” quando Gesù dice “sì” e “no” quando Gesù dice “no”, sapendo che il resto vien dal nemico.

Vi è, così, un cammino che porta alla santità e che ognuno è chiamato a percorrere; nessuno battezzato, infatti, posto di fronte alla scelta pro o contro Cristo può chiamarsi fuori. Bisogna, però, lasciarsi espropriare o spogliare del proprio “io”.

Il santo appartiene semplicemente a Cristo ma non secondo il suo modo d’intendere le cose, a partire dalla sua  umanità ma attraverso la profonda e dolorosa purificazione che è frutto del lasciarsi condurre da un Altro.

Risulta emblematica la vicenda di Simon Pietro. Il suo cammino lo ha visto passare da un “sì” ancora troppo umano al “sì” di chi dovrà confermare i fratelli; Pietro, fin dall’inizio, era sicuro d’appartenere a Gesù ma lo era nelle sue forze umane. Solo dopo il pentimento ed aver affrontato il suo peccato ha rinunciato a se stesso per abbandonarsi totalmente al Signore; di fronte a questo pieno abbandono, la Grazia di Dio ha potuto agire liberamente.

Il Vangelo di Giovanni ci presenta il commovente dialogo fra Gesù e l’Apostolo sul mare di Tiberiade: “Gli disse [Gesù] per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»” (Gv 21, 17-19).

Alla domanda sull’amore qui più volte richiamata – domanda sulla quale si gioca il rapporto col Maestro – fa seguito la disponibilità a lasciarsi condurre dove non si vorrebbe. In tali richieste è contenuta tutta la realtà della vita cristiana come amore che si dona e non teme d’andar oltre se stesso nella fiducia al Signore, guidati dalla Madre che troviamo non solo a Nazareth e a Betlemme ma anche al Calvario, sotto la croce.

E questa è la storia di Eulalia e, dopo di lei, di tantissimi altri, i più sconosciuti agli uomini ma ben noti a Dio. La santità è l’amore che va oltre se stessi e guarda a Gesù via, verità, vita. La croce è il caso serio del cristianesimo, è la verifica della Chiesa che non si omologa al mondo. La Chiesa è mandata al mondo come segno efficace di salvezza e ne deve prendere le distanze, non con un giudizio di condanna ma in un amore che salva. Come? Nella verità di Cristo che sale in croce.

Simile alla storia della martire e vergine Eulalia è anche quella della vergine e martire Cordula che – nella medesima persecuzione di Diocleziano, del 304 d. C. -, come Eulalia si offrì in sacrificio a Cristo pur potendo sfuggire al martirio. Eulalia, secondo la tradizione, fu nascosta in campagna dai genitori che non volevano si consegnasse al tribunale proclamandosi cristiana; ma a nulla valse lo sforzo dei genitori, giacché Ella si presentò al giudice dicendo semplicemente: “Credo”.

E come Eulalia, anche Cordula – come narra l’antica leggenda – dopo esser scampata alla furia dei barbari Unni, rimasta per una notte nascosta sotto la neve, il giorno successivo, spontaneamente, si offrì al ferro delle loro spade così da non essere separata dalla testimonianza delle sue undicimila compagne. Queste giovani vergini e martiri, Cordula ed Eulalia, scampate al martirio, ritennero loro dovere non fuggire di fronte ala testimonianza del martirio.

Il passo che segue, tratto dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II ci aiuta a comprendere chi – come Eulalia e Cordula – si dona, a sua volta,  come Cristo alla Chiesa: “Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa” (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 42).