Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione del 60esimo anniversario del Vajont (Cimitero di Fortogna / Longarone, 9 ottobre 2023)
09-10-2023

S. Messa in occasione del 60esimo anniversario del Vajont

(Cimitero di Fortogna, 9 ottobre 2023)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

Saluto le autorità e tutti i presenti.

Siamo nel cimitero di Fortogna, a 60 anni dalla tragica notte del 9 ottobre 1963, per celebrare in suffragio delle vittime; fra di esse moltissimi i giovani e i bambini.

Riprendo la preghiera del salmo responsoriale, tratto dal libro del profeta Giona, che pare evocare quella tragica notte quando, dalle pendici del monte Toc, si staccò una massa enorme di materiale roccioso che cadde nel sottostante invaso: “Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati” (Gio 2,3-4). L’immagine è quella dei flutti e delle onde impetuose che travolgono, distruggono e recano morte.

Questo luogo ci ricorda una tragedia nazionale in cui morirono duemila persone perché altre persone non seppero o non vollero calcolare il rischio di una determinata situazione e scelsero di non fermarsi, accettando un rischio che, alla fine, risultò fatale. Si volle osare, andando oltre; si preferì il risultato da conseguire alle vite umane verso le quali si avevano specifiche responsabilità.

Papa Francesco, appena pochi giorni fa, ha reso nota la sua nuova esortazione apostolica “Laudate Deum” sulla crisi climatica e sulla salvaguardia del creato. In essa si dà una lettura sapienziale che, se fosse stata considerata sessant’anni fa, avrebbe evitato la tragedia del Vajont. In essa, tra l’altro, leggiamo: “…il mondo che ci circonda non è un oggetto di sfruttamento, di uso sfrenato, di ambizione illimitata (…). È quindi urgente una visione più ampia, che ci permetta non solo di stupirci delle meraviglie del progresso, ma anche di prestare attenzione ad altri effetti che probabilmente un secolo fa non si potevano nemmeno immaginare. Non ci viene chiesto nulla di più che una certa responsabilità per l’eredità che lasceremo dietro di noi dopo il nostro passaggio in questo mondo” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Laudate Deum, nn. 25 e 18).

L’Onu, nel 2008, ha definito la tragedia del Vajont un esempio di “disastro evitabile”. Eloquenti segni premonitori non mancarono prima del 9 ottobre 1963 – nel marzo del 1959 e nel novembre del 1960 – quando vi furono frane e cedimenti contenuti che avrebbero richiesto più prudenza, essendo in gioco la vita degli abitanti della vallata.

Il monte Toc – soprannominato dalla gente del posto la “montagna che cammina” per la sua tendenza a subire frane – non può, quindi, essere considerato il colpevole di questa tragedia. L’evento non era imprevedibile, la montagna si fece sentire e diede i suoi segnali affinché la tragedia potesse essere evitata.

Dei duemila morti circa cinquecento furono bambini, ragazzi e giovani di età inferiore ai quindici anni; un’intera generazione fu cancellata ed intere famiglie furono distrutte.

Tutto accadde in pochi minuti e tutto quello che si trovava a valle, tra cui il comune di Longarone, fu distrutto; a monte subirono gravi danni Erto, Casso ed altri centri minori.

I dati ufficiali dicono che alle 22.39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla costa del Monte Toc una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. In circa 20 secondi la frana arrivò nel lago, generando una fortissima scossa sismica e un’onda notevolissima che, nei minuti successivi, spazzò via tutto quello che trovò nel suo cammino.

Di fronte ai sempre più evidenti segnali che la montagna dava, soprattutto dall’inizio del mese di settembre, l’ordinanza emessa solo il giorno prima (l’8 ottobre), su sollecito dei tecnici della Sade dal comune di Erto, risulta incomprensibile e surreale.

Celebrare questo triste anniversario è qualcosa di dovuto ai morti e ai sopravvissuti perché tragedie come il Vajont non solo non possono essere dimenticate ma neanche, col passare del tempo, devono attutirsi nella memoria collettiva. Si tratta di condannare la scelta di rischiare in nome o del profitto o di una impresa da guinness dei primati, svincolando un progetto dall’etica che comporta dapprima il senso del limite e poi il rispetto delle persone e della vita umana. Non bisogna mai sottovalutare la natura e i suoi equilibri!

Bisogna chiedere agli uomini di scienza e ai tecnici di avere il coraggio di non osare oltre il limite, insomma, di sapersi fermare e di imparare a misurare i rischi quando c’è in gioco la vita umana.

È necessario oggi dare ancora maggiore priorità all’etica perché – più di sessant’anni fa – scienza e tecnica consegnano all’uomo un potere infinitamente più grande di distruzione e morte su vasta scala.

La tragedia del Vajont sia anche oggi un monito a non giocare con gli equilibri della natura o sottovalutandoli o, comunque, ritenendoli – come si fece allora – gestibili dall’intelligenza umana; i fatti dicono che non è così che avviene.

La domanda che non possiamo eludere è: fino a che punto l’uomo può “osare”, fino a che punto è lecito sfidare il limite? L’agire dell’uomo di fronte alla natura deve mettere al primo posto la sacralità della vita umana; bisogna essere capaci di fermarsi e, anche, di fare un passo indietro.

Sì, bisogna sapersi fermarsi e saper fare un passo indietro: è la vera grandezza dell’uomo e, in particolare, dell’uomo di scienza e della tecnica. Lo possiamo dire alla luce dell’immane tragedia di cui oggi facciamo memoria, in questo cimitero e dinanzi a tanti morti.

La grandezza dell’uomo e anche dello scienziato e del tecnico – giova ribadirlo – sta nelle scelte etiche; infatti, non tutto quello che si è in grado di fare è detto che sia lecito farlo, sfidando qualcosa che, alla fine, non si riuscirà a governare. Sì, bisogna sapersi fermare al momento giusto.

Il dramma che si è consumato 60 anni fa, nella vita di tanta povera gente, in queste valli fra Veneto e Friuli, è così un monito sempre attuale.

Il megaprogetto del “grande Vajont”, mosso da interessi economici enormi, avrebbe dovuto garantire risorse energetiche per l’incipiente stagione del boom economico ed era connesso alla futura nazionalizzazione delle aziende private che producevano energia. Erano gli anni Cinquanta e Sessanta: di quel progetto rimangono duemila morti, paesi distrutti e il fallimento di un sogno ingegneristico che doveva entrare nel Guinness dei primati.

Quel progetto non fu fermato, appunto, nonostante i ripetuti segnali premonitori che furono considerati insufficienti di fronte ad altri interessi in gioco. Se fossero stati accolti, mettendo su un piatto della bilancia il rispetto delle vite umane e sull’altro piatto l’espansione economica del Paese, non avremmo avuto la tragedia del Vajont: sarebbe servita un’altra logica.

Il bene delle singole persone e il bene comune devono orientare le scelte di chi agisce, soprattutto in ambito pubblico. Una domanda deve interpellarci sempre: cosa siamo disposti a sacrificare per tutelare e promuovere l’uomo e il creato?

La vera grandezza dell’uomo consiste non nello scrivere il proprio nome nel libro del Guinness dei primati o nel produrre un reddito sempre più grande, ma nel dare risposte che siano eticamente fondate.

Anche così si diventa “buoni samaritani” (cfr. Lc 10,25-37) nel nostro tempo, che è il tempo della scienza e della tecnica, e nei nostri territori, perché solo così si rispetta e si ama il prossimo. Infine, la grandezza dell’uomo sta nel sapersi fermare riconoscendo i propri limiti con umiltà e sapienza.