Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione dei Giubilei sacerdotali (Venezia / Basilica della Salute, 4 maggio 2023)
04-05-2023

S. Messa in occasione dei Giubilei sacerdotali

(Venezia / Basilica della Salute, 4 maggio 2023)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Cari confratelli nel sacerdozio,

riuniti nel tempio simbolo della fede mariana della Chiesa che è in Venezia – e che dal 1817 è chiesa annessa al Seminario patriarcale – ringraziamo innanzitutto il Signore per la fedeltà di alcuni nostri confratelli che oggi ricordano il 70°, il 60°, il 50°, il 25° ed anche il primo anniversario di sacerdozio. Avvertiamo su di noi lo sguardo materno della Madonna della Salute che ha visto formarsi la vocazione di molti di noi.

Nell’orazione della colletta abbiamo invocato il Signore, che innalza “la natura umana al di sopra della dignità delle origini”, domandando di attingere dal “mistero ineffabile” del Suo amore, perché in quanti sono stati rinnovati nel sacramento del Battesimo vengano custoditi i doni della grazia e della benedizione (cfr. Colletta della Messa del giorno).

Il prete o ministro ordinato è un battezzato, una persona inserita in Cristo, membro della Chiesa.

Cari confratelli, il nostro esser preti ha questa premessa, non sempre percepita: nella Chiesa noi – vescovi, presbiteri e poi anche i diaconi – non siamo “identificati” solo dagli atti del ministero che compiamo “in persona Christi”. Certo, siamo contrassegnati in modo qualitativamente diverso dal sacramento dell’ordine, ma rimaniamo pur sempre dei battezzati, bisognosi di salvezza e pecorelle del Signore.

Così ogni sacerdote ordinato, in quanto battezzato (anche il Papa), è un figlio della Chiesa e, ad essa, deve la sua salvezza. In questa data giubilare facciamo perciò grata memoria dei genitori, dei parroci, delle catechiste che ci hanno accolti e accompagnati da bambini e ci hanno guidato ad una reale esperienza di Chiesa.

Il ministero ordinato non può, allora, prescindere dalla Chiesa e dal dono del Battesimo che abbiamo ricevuto ed è diventato fondamento e premessa della nostra vita di diaconi, di presbiteri e di vescovi. Tutti siamo “portati” nel grembo materno della Chiesa.

Ognuno di noi ha una sua storia che inizia, proprio, col Battesimo, una storia fatta di persone, di avvenimenti e di realtà ecclesiali che ci hanno accompagnati e aiutati a maturare la vocazione al sacerdozio: i genitori, il parroco, le catechiste, le feste liturgiche, il patronato, il grest, associazioni, movimenti, cammini ecclesiali.

Il presbitero è e rimane figlio della Chiesa. Richiamo qui un passo della esortazione post sinodale Pastores dabo vobis:

Il sacerdote ha come sua relazione fondamentale quella con Gesù Cristo Capo e Pastore: egli, infatti, partecipa, in modo specifico e autorevole, alla « consacrazione-unzione » e alla « missione » di Cristo. Ma, intimamente intrecciata con questa relazione, sta quella con la Chiesa. Non si tratta di «relazioni» semplicemente accostate tra loro, ma interiormente unite in una specie di mutua immanenza. Il riferimento alla Chiesa è iscritto nell’unico e medesimo riferimento del sacerdote a Cristo, nel senso che è la «rappresentanza sacramentale» di Cristo a fondare e ad animare il riferimento del sacerdote alla Chiesa” (Giovanni Paolo II, Esortazione post-sinodale Pastores dabo vobis, n. 16).

La prima lettura di oggi (At 13,13-25) inizia facendo riferimento a “Paolo e i suoi compagni”. Il ministero ordinato è personale, ma si condivide con gli altri; si è preti con gli altri preti, si è preti con il vescovo. La teologia del presbiterio deve “segnare” sempre più il singolo presbitero.

Sempre nella prima lettura si dice che Marco – qui chiamato Giovanni Marco – “si separò da loro e ritornò a Gerusalemme” (At 13,13). Poco prima il libro degli Atti ci aveva informati che Marco era con Paolo e Barnaba di ritorno da Antiochia (cfr. At 12,25). E, ora, durante questo primo viaggio missionario (cfr. At 13,5) – a Perge, in Panfilia – Marco si separa da loro a causa di un contrasto (cfr. At 13,13).

Il motivo del contendere non è precisato e lasciò un segno profondo, perché quando Paolo e Barnaba preparano il secondo viaggio missionario non riuscirono a trovare l’intesa proprio sulla partecipazione di Marco e, allora, decidono di dividersi. Poco più avanti, infatti, leggiamo: ”Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (At 15, 39-40).

Il ministero è fatto, quindi, anche di momenti di difficoltà e di incomprensioni ma, se si lascia spazio alla grazia, si sanano. Per questo troveremo Marco di nuovo menzionato nella lettera ai Colossesi (cfr. Col 4,10). E questo ci fa intuire che, dopo la traumatica separazione e i successivi dissapori, Marco sarà di nuovo al fianco di Paolo in un momento delicato nella vita dell’apostolo, quando è prigioniero, stanco, provato e attende soltanto di “sciogliere le vele” e di ricevere il premio di chi ha annunciato il Vangelo. In quell’occasione Marco svolgerà un fraterno compito di sostegno verso Paolo (cfr. 2 Tim 4,11).

Queste vicende ci dicono che già agli albori della Chiesa fondata da Gesù non sono mancate divergenze e controversie, ma tutto questo non deve sfociare nel fatto che un discepolo o una comunità cristiana cedano al malanimo, al rancore e si facciano vincere da ostilità, inimicizia e animosità.

Come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, la vicenda di Marco ci ricorda anche oggi che nella Chiesa – se non è in gioco la Verità e la giustizia – le questioni umane, i differenti modi di valutare e le scelte pastorali o le differenze in vista di un migliore servizio al Vangelo non possono intaccare la carità e l’unità nelle relazioni che costituiscono la vita ecclesiale. Bisogna, allora, continuamente custodire la carità, la giustizia e l’unità del ministero.

La prima lettura dice poi che, senza perdere tempo, Paolo e i suoi raggiungono Antiochia di Pisidia e lì entrano nella sinagoga dove ricevono un invito: “Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!” (At 13,15). Ed ecco che si alza Paolo (cfr. At 13,16): l’alzarsi per parlare indica la consapevolezza e, anche, l’autorevolezza del testimone, di chi porta il Vangelo; alzarsi è segno di responsabilità e pone in atteggiamento di visibilità e, appunto, di consapevolezza e autorevolezza.

Lo stesso porsi in piedi – che va al di là del gesto fisico – l’abbiamo visto più volte negli Atti a proposito dell’apostolo Pietro. Pensiamo al discorso di Pentecoste: “Allora Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò a loro così: Uomini di Giudea, e voi tutti abitanti di Gerusalemme…” (At 2,14).

Ed è interessante notare come in entrambi i casi la risposta sia simile e la troviamo sintetizzata nelle parole che Pietro – in compagnia di Giovanni – rivolge allo storpio dinanzi alla porta del tempio: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!” (At 3,6). Il nome di Gesù è sintesi e compimento dell’intera storia della salvezza.

Gli apostoli attestano un avvenimento che entra nella vita delle persone ed è questa la caratteristica propria nella rivelazione giudaico-cristiana che non appartiene alle religioni “cosmiche” ma “storiche” e “profetiche”. Non a caso, l’apostolo Paolo inizia la sua narrazione dall’esperienza dell’esodo e arriva fino a Giovanni Battista. Non divaga ma ripercorre il cammino che conduce all’annuncio di Gesù, l’unico Salvatore.

Il Vangelo (Gv 13,16-20) si colloca nel contesto dell’Ultima Cena e le parole di Gesù rimandano – senza citarla esplicitamente – alla lavanda dei piedi che Giovanni ha raccontato poco prima. Quel gesto si pone al di là di ogni parola ed indica il rapporto di amore unico che deve legare gli apostoli del Signore. L’amore non può mancare; ma quale amore Gesù chiede?

Le parole sono rischiose, possono diventare slogan privi di contenuto e, soprattutto, ognuno finisce per dargli il senso che più gli aggrada. Anche parole fondamentali, per il cristiano come, ad esempio, “coscienza”, “libertà”, “amore”, “pace”, “valori” e “diritti” possono ridursi ad affermazioni in cui ognuno mette e trova quello che pregiudizialmente o, anche, ideologicamente ha già deciso che ci debba essere in tali concetti o, meglio, slogan.

E, allora, cos’è l’amore cristiano? Innanzitutto è umiltà; un’umiltà che significa perdono e che domanda di portare gli uni i pesi degli altri (cfr. Gal 6,2); è riconoscere gli altri, nella Chiesa, e le differenti articolazioni in cui si compone la compagnia ecclesiale.

È poi comunione, che è realtà non solo “proclamata” ma “praticata” e chiede di riconoscere il ruolo e il compito degli altri: nella parrocchia le attività comuni, nella Chiesa particolare i momenti diocesani, nella Chiesa universale gli eventi proposti alle Chiese particolari. Questa è la sinodalità, che non consiste solo nell’avvisare gli altri di quello che si è organizzato da soli o con un gruppetto di fedelissimi.

Dice Gesù: “…un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato” (Gv 13,16). Ogni ministero o servizio ecclesiale nasce dall’amore per il Signore Gesù e non per altro. Anche ogni gesto di carità verso gli altri nasce da qui: “…ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi… Quando mai…? …tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35-37.38.40).

La lavanda dei piedi esprime in maniera eloquente tutto quello che sta per accadere e segna profondamente il Vangelo di Giovanni che, proprio in queste pagine, passa dall’essere il “libro dei segni” al “libro del sangue e dell’acqua”. Inizia in modo più drammatico la lotta tra tenebre e luce, tra morte e vita.

È poi annunciato il tradimento di Giuda che – come è descritto nel prosieguo del capitolo 13 – riceve un boccone direttamente da Gesù e subito dopo esce, va via e si allontana nella notte (cfr. Gv 13,26-30). Chi tradisce non può rimanere nell’intimità del Signore e condividere le confidenze che Egli fa ai suoi. Ed è Gesù stesso a svelare chi lo tradisce.

Gesù chiede a Giuda di venire allo scoperto e colpisce tale volontà di Gesù; fu così anche per la Samaritana a cui chiede, apparentemente senza motivo, chi fosse suo marito (cfr. Gv 4, 16-20). Il Vangelo chiede di scegliere di venire allo scoperto: il vostro parlare sia sì, sì, no, no, il resto viene dal Maligno (cfr. Mt 5,37). Seppur difficili e anche scomode, pure queste sono pagine del Vangelo. Non esiste un canone nel canone.

Il motivo è chiaro: le tenebre devono separarsi dalla luce o, meglio, la luce deve vincere le tenebre e, così, inizia il dramma della Passione. Gesù non ne è travolto e non la vive passivamente, anzi ne è il protagonista poiché questa è l’ora della sua gloria e Lui agisce, quindi, con una conoscenza, una consapevolezza degli eventi e una modalità che gli viene da Dio.

La frase finale del Vangelo di oggi rimanda alla “missione” che ogni battezzato – e in modo specifico ogni ministro ordinato – porta in sé e lo pervade in profondità: essere annunciatore e testimone del mistero di Gesù, rivelatore del mistero di Dio. “Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato” (Gv 13,20).

Queste parole sono per ogni ministro: il mistero ultimo è annunciare Dio Padre che salva in Cristo nel dono dello Spirito Santo. E tutto questo avviene attraverso la Chiesa e nella Chiesa, dove tutti sono chiamati ad annunciare e testimoniare. Ma una vocazione specifica porta alcuni ad essere segno sacramentale di Gesù in modo diverso dal Battesimo ed è chiamato a porre, per il bene dei fratelli, i gesti sacerdotali del Signore Gesù.

La preghiera del prefazio della Messa del Crisma lo esprime in modo chiaro: “Con l’unzione dello Spirito Santo hai costituito il Cristo tuo Figlio Pontefice della nuova ed eterna alleanza, e hai voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa. Egli comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti, e con affetto di predilezione sceglie alcuni tra i fratelli che mediante l’imposizione delle mani fa partecipi del suo ministero di salvezza. Tu vuoi che nel suo nome rinnovino il sacrificio redentore, preparino ai tuoi figli la mensa pasquale, e, servi premurosi del tuo popolo, lo nutrano con la tua parola e lo santifichino con i sacramenti. Tu proponi loro come modello il Cristo, perché, donando la vita per te e per i fratelli, si sforzino di conformarsi all’immagine del tuo Figlio, e rendano testimonianza di fedeltà e di amore generoso” (dal Prefazio della Messa del Crisma).

La liturgia di oggi, infine, propone il salmo 88, un grandioso inno alla fedeltà di Dio che dobbiamo fare nostro. Se siamo stabili, fedeli e ben radicati in Lui, lo siamo per l’amore di Dio, per la verità del suo amore che ci raggiunge, ci solleva, ci rialza, ci sostiene e ci permette di rimanere nell’alleanza con il Signore, sempre legati a Lui.

La grazia del Signore non ci abbandona mai, rimane per sempre. Per questo posiamo dire: “Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà” (Sal 88,2).

Un cordiale saluto rivolgo a tutti voi ma in particolare ai confratelli che in quest’anno raggiungono un significativo Giubileo nel loro percorso sacerdotale. Ricordiamo, allora, con gioia: il 70esimo di ordinazione sacerdotale di mons. Valerio Comin; i 60 anni di sacerdozio di don Emilio Dall’Armi, mons. Giacomo Marchesan, don Reginaldo Mazzon, don Gianfranco Pace e don Enrico Torta; il 50esimo di don Gino Cicutto, don Renzo Mazzuia e don Roberto Trevisiol; i 25 anni di sacerdozio di don Paolo Bellio ed infine, anche, il primo di don Bogumil (Bogus) Wasiewicz.

Buoni anniversari sacerdotali a tutti.