Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione dei giubilei sacerdotali (Venezia - Basilica della Salute, 4 giugno 2015)
04-06-2015
S. Messa in occasione dei giubilei sacerdotali
(Venezia – Basilica della Salute, 4 giugno 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi confratelli nel sacerdozio,
ringraziamo per queste ore che il Signore ci dona di trascorrere assieme come presbiterio diocesano – vescovo e presbiteri – stringendoci attorno ai nostri confratelli che oggi ricordano date significative della loro vita sacerdotale.
La nostra gratitudine va al Signore, anche, per l’imminente ordinazione presbiterale di don Pierpaolo che – a Dio piacendo – ci vedrà riuniti sabato 20 giugno, alle ore 16, nella chiesa cattedrale.
A tutti il mio grazie e incoraggiamento per quanto fate con animo solerte e generoso. Un saluto cordiale ai nostri diaconi; molti – con impegno e costanza – con dividono col vescovo, i presbiteri, i consacrati e i fedeli laici la fatica e la gioia di lavorare nella vigna del Signore.
Partiamo dal Vangelo appena ascoltato e lasciamo che susciti in noi la domanda  in grado di fondare la nostra spiritualità di ministri ordinati: “Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.Il secondo [comandamento] è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso…” (Mc 12,29-31).
Questo è il servizio sacerdotale che ci è richiesto; essere insieme uniti a Dio e al mondo; se si perde il contatto con Dio non abbiamo più nulla di evangelicamente significativo da dire agli uomini ma se non rimaniamo uniti al nostro mondo (all’uomo del nostro tempo) smarriamo la logica dell’incarnazione e, con essa, il nostro essere sacerdotale.
Il nostro compito è servire, all’interno dell’unica Chiesa diocesana (cfr. Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 30), una rinnovata comunità ecclesiale che, dopo il venir meno della cristianità, si costituisce sotto l’azione dello Spirito in piccole comunità che ascoltano il Vangelo, celebrano l’eucaristica e vivono la legge della carità fraterna, profondamente segnate dallo stile di Gesù, si manifestino in piccoli cenacoli che vivono fraternamente nel riconoscimento dei reciproci carismi.
La Chiesa è fatta dai laici, dai consacrati, dagli sposati, dai ministri ordinati; tutti “inutili” e, insieme, tutti “utilissimi” servi del Signore.
Il mondo oggi parla tanto di “comunità” perché ne avverte il bisogno, anche se non sa come realizzare il suo bisogno di comunione – viviamo nei nostri quartieri ignorando chi abita vicino a noi… – e c’è un forte bisogno di comunione che rimane in noi come un desiderio inespresso – non appagato – e così si soffre, ad incominciare dalla famiglia.
Così, anche la comunità familiare non ritrova più se stessa e prima d’essere scardinata da leggi sbagliate lo è nel suo stesso vivere; la crisi educativa è effetto di una crisi più profonda, quella tra le generazioni. Ricostruire una vera comunità ecclesiale vuol dire partire dal comandamento che ci chiede d’essere fedeli a Dio e, nello stesso tempo, radicati nella città degli uomini.
Ogni periferia, allora, non sarà più luogo di fragilità ma un cantiere aperto di fraternità in cui Dio non è più un problema per l’uomo ma, piuttosto, ciò che permette che l’uomo trovi se stesso in una rinnovata figliolanza verso il Padre comune. L’anno giubilare della misericordia è per noi questa grazia e opportunità.
Cari amici, la giornata dei giubilei sacerdotali – settantesimo, sessantesimo, cinquantesimo e venticinquesimo di ordinazione – ridesta in noi ricordi ed emozioni che fanno parte della nostra vita intima e anche della nostra storia familiare più cara.
In questo giorno salgono alla nostra memoria – al nostro intelletto e al nostro cuore – volti cari, episodi significativi e incontri che hanno aiutato a maturare le nostre scelte. Si tratta di volti, episodi e incontri che non solo hanno accompagnato la nostra vita ma, talvolta, l’hanno addirittura plasmata ex novo; volti e incontri che Dio ha voluto entrassero nella nostra vita perché, sempre più, potessimo diventare segni concreti di Gesù sia nella Chiesa sia nel mondo.
Richiamo qui le parole di Isaia, sempre attuali ogni volta che ripensiamo alla storia della nostra vocazione: “…i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9).
Si tratta di volti, di incontri, di presenze che appartengono alla nostra storia e portano indietro le lancette dell’orologio della nostra vita di parecchi decenni – per alcuni di noi anche di mezzo secolo – e riconducono alla fanciullezza. Siamo così portati al “quando”, al “dove” e al “come” il Signore misericordioso, con la Sua infinita tenerezza e pazienza, ci ha preso per mano e condotto dove voleva, mentre noi ignoravamo ancora o non volevamo capire il suo progetto. La vocazione è un grande mistero che s’identifica con la nostra vita e costituisce un tutt’uno con essa.
In questo momento risultano significative, ossia ricche di senso, le parole di Papa Francesco che, nella lettera Misericordiae Vultus – la Bolla con cui ha indetto il Giubileo straordinario della misericordia -, dice: “Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato” (Papa Francesco, Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia, n.2).
Riflettiamo su queste parole non in modo “clericale” ma secondo la prospettiva del ministero ordinato; in tal modo, in esse, è presente il contenuto, il senso e lo scopo della vita sacerdotale. Ci viene, infatti, ricordato che proprio noi –  ministri ordinati nel sacerdozio – siamo i primi ad aver bisogno dell’amore misericordioso di Dio e siamo chiamati ad offrire agli altri tale esperienza d’amore e tenerezza.
 Come sacerdoti, attraverso i gesti propri del ministero ordinato – la Parola annunciata, i sacramenti celebrati, la carità della lavanda dei piedi praticata -, ci è richiesto, in questo anno giubilare, di farci espressioni vive della Misericordia di Dio attraverso l’annuncio della Parola di Dio, la celebrazione di una liturgia che sia vera espressione dell’incontro con  Dio e una carità vissuta in chiesa, sul sagrato e – come ci ricorda  il Papa – nelle differenti periferie spirituali e materiali, attraverso la prassi delle opere di misericordia corporali e spirituali. Sì, entrambe le opere di misericordia: quelle corporali, senza disattendere quelle spirituali.
Non si tratta solo, quindi, di dar il cibo agli affamati e da bere agli assetati o di vestire gli ignudi… ma, anche, di consigliare secondo verità chi è nell’angoscia del dubbio, di insegnare a chi ignora non solo la lingua del nostro paese ma anche chi è il Dio dell’amore e della misericordia e di esortare chi si ostina nel peccato… Ora, a ben vedere, oggi, questi gesti fraterni – di misericordia spirituale – non sono meno urgenti rispetto a quelli che intercettano le tante fragilità dei corpi; l’uomo, infatti, oltre al bisogno del pane materiale, nella sua vita, non ha meno bisogno di senso, ossia di significato.
Così la Parola di Dio proclamata ci introduce e, allo stesso tempo, ci pone al centro del ministero ordinato che è la risposta d’amore a Colui che domanda d’essere amato più degli altri. La domanda che Gesù, più volte, rivolge a Pietro è emblematica e, in se stessa, risulta semplice ma scandalosa: “…mi ami più di costoro?” (Gv 21, 15).
Ritorniamo al Vangelo di oggi: “Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.Il secondo [comandamento] è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso…” (Mc 12,29-31). È questa l’unica risposta appropriata all’amore eterno di Dio che si dona. Per il discepolo, chiunque esso sia, si tratta unicamente di prendere sul serio questo Amore rispondendovi secondo la medesima logica e, quindi, non chiedendo garanzie o  ricercando autotutele capaci di salvaguardare i propri diritti di fronte a Dio.
È, infatti, inaccettabile rivolgersi a Dio con la pretesa di tutelarsi secondo il criterio della giustizia umana; ne rimarremmo delusi, profondamente delusi, come gli operai mandati nella vigna all’inizio della giornata. Dio si pone, infatti, al di là della giustizia umana, più in alto della logica umana; è un’insipienza non tenerne conto sul piano razionale e spirituale.
D’altra parte, se Dio si situasse al livello della pura giustizia umana, di quale speranza noi uomini potremmo ancora essere portatori? È importante rispondere con libertà a una tale domanda. Giudicare Dio e volerlo correggerlo in quello che fa – nei tempi da Lui scelti e nei Suoi modi d’intervento – oltre a essere carenza di fede, dice – sul piano del buon senso – una vera irragionevolezza.  
L’unica risposta possibile all’Amore di Dio la troviamo nella vocazione dei primi discepoli: Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni. L’evangelista Matteo, in particolare, ci mostra Gesù che cammina lungo il mare di Galilea. Incontra Simone e Andrea e, poco dopo, Giacomo e Giovanni; gli uni sono intenti a pescare, gli altri a riassettare le reti.
Gesù si ferma e chiama i primi: “«Venite… vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono” (Mt 4,19-22).
Chi si pone al servizio di Gesù non chiede tutele personali, non “conviene” sul prezzo del suo servizio, non pattuisce un compenso… Semplicemente risponde con un “sì” pronto e pieno. Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, senza alcuna contropartita, lasciano tutto: reti, barca, padre e, subito, lo seguono.
Al contrario, gli operai della parabola che all’alba sono mandati a lavorare nella vigna (cfr. Mt 20,1-16) concordano il prezzo della loro fatica: un denaro al giorno. Così, alla sera, quando ritirano il convenuto, recriminano contro il padrone poiché sono delusi, confrontandosi con quelli che avevano lavorato una sola ora ma si erano fidati del loro padrone (l’amore di Dio); ora, questi, a tale amore gratuito avevano risposto con un amore altrettanto gratuito, senza pattuire il proprio compenso e così, alla sera, si ritroveranno fra le mani più di quanto attendessero.
Gesù, con questa parabola, ci vuol dire che, di fronte a Dio, i nostri parametri devono cadere; non possiamo elevare la nostra giustizia, così spesso “troppo umana”, a criterio con cui rapportarsi a Lui. Non possiamo, ancor prima di aver detto il nostro “sì”, aver preso le nostre precauzioni. Di fronte a Dio, infatti, non ci si tutela, perché quando Gli diciamo il nostro “sì” non possiamo, preventivamente, assicurarci contro i rischi del dono.
Il principio che deve guidarci è, quindi, un altro: all’Amore di Dio si risponde solo con un amore che si dona con gratuità. Ricordiamo l’invito di Gesù al giovane ricco: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (Mt 19, 21). E così il discepolo scopre che il cuore di Dio è più grande del suo cuore e che di fronte al dono totale di sé – anche se l’uomo è una piccola creatura – Dio ci sorprende e dona il centuplo. E il Vangelo precisa in case, fratelli, sorelle e, poi, la vita eterna (cfr. Mt 19,27-29). All’amore si risponde con l’amore: dobbiamo con gioia inscrivere la nostra storia personale e quella del nostro presbiterio all’interno dell’amore gratuito di Dio.
Questo è l’augurio che ci facciamo gli uni gli altri come ministri ordinati e che oggi, in modo del tutto particolare, formuliamo ai nostri confratelli che ricordano i settanta, i sessanta, i cinquanta e i venticinque anni di servizio a Gesù, eterno sacerdote, nella nostra bella Chiesa che è in Venezia.