Omelia del Patriarca nella S. Messa “in Coena Domini” (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 24 marzo 2016)
24-03-2016

S. Messa “in Coena Domini”

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 24 marzo 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

Fratelli e sorelle carissimi,

siamo all’inizio dei tre giorni più santi dell’anno e colpisce, soprattutto, come l’elemento salvifico a cui Gesù ha messo mano si consumi all’interno di rapporti umani profondamente dilacerati.

Giuda Iscariota è lì: è lì con la sua storia, è li con le sue scelte. Ha capito che ormai Gesù, per lui, non può essere più un vantaggio economico, non può essere più un vantaggio politico ed allora – avido come è – lo ha venduto. Di li a poco metterà il sigillo su questi rapporti umani decomposti consegnandolo e tradendolo con il gesto umano dell’affetto, quel gesto che il papà e la mamma riservano al bambino, che il bambino riserva ai suoi genitori, che lo sposo riserva alla sposa e viceversa. Ma quando si è avidi e ladri non c’è più remora, non c’è più misura, non c’è più termine, tanto che Gesù dirà all’Iscariota: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?» (Lc 22,48).

La salvezza raggiunge così gli estremi livelli della degradazione umana. Le periferie dell’umanità stanno, certo, anche nelle metropoli, stanno anche nei quartieri a rischio, stanno anche dove ci sono i signori della guerra e dove si pianifica la speculazione sul prossimo. Ma le vere periferie stanno nei nostri cuori, nel cuore dell’uomo che è capace di quello di cui non è capace l’animale. L’animale uccide per mangiare, l’uomo – sono fatti recenti di cronaca – arriva ad uccidere per vedere che cosa si prova, per provare una sensazione nuova.

La croce è la risposta unica che può essere data all’abiezione del cuore umano. La croce non è un ragionamento; la croce non è spiegazione, è il dono di sé. E allora in questa sera – che apre il triduo – siamo chiamati a vivere la nostra coscienza di uomini e di donne credenti di fronte al mistero della croce.

La carità cristiana è donare la vita; non è trattenerla per sé pensando magari, attraverso ragionamenti sofisticati, di poter essere più utili per gli altri.

La libertà di coscienza. Mi viene in mente un grande laico del Cinquecento, di cui vorrei consigliarvi la lettura dei libri: Tommaso Moro. La sua coscienza gli diceva che non poteva fare una determinata cosa, anche se c’era chi lo consigliava che forse, teologicamente, non era così certa la soluzione che lui stava vedendo come chiara, come limpida, come la strada da scegliere e da seguire…

Altri gli avevano consigliato che, rimanendo a fare il primo ministro del re, avrebbe in qualche modo potuto attenuare determinati esiti di una legge sbagliata. Ma Tommaso Moro credette che, per essere veramente uomo, doveva consegnare la sua umanità all’umanità divina di Cristo: è il senso del Triduo santo. E’ il senso della verità che prima di tutto – guardate bene – non è un atto intellettuale perché la verità, prima di tutto, è un atto di amore.

Tutte le volte che ci accostiamo all’Eucaristia, che celebriamo l’Eucaristia, che riceviamo l’Eucaristia – cioè la verità di Cristo – chiediamoci se abbiamo la coscienza libera e se la nostra coscienza è sorretta e guidata da un atto d’amore oppure se partecipiamo di quella conoscenza oscura che non permette più a Giuda Iscariota di riconoscersi come ladro.

L’evangelista Giovanni – con il suo stile, con il suo modo d’esprimersi, con i suoi giochi di parole – quando l’Iscariota, ladro ed avido di denaro, lascia il Cenacolo dice semplicemente questo: “Ed era notte” (Gv. 13,30). E’ la notte profonda dell’umanità rischiarata dalla lavanda dei piedi, il servizio che il Figlio dell’uomo ha fatto alla storia, ha fatto agli uomini e fa in ogni Eucaristia per ciascuno di noi.