Omelia del Patriarca nella S. Messa e processione eucaristica per l’apertura diocesana del Congresso Eucaristico Nazionale (Venezia - Chiesa parrocchiale S. Silvestro, 15 settembre 2016)
15-09-2016

S. Messa e processione eucaristica

per l’apertura diocesana del Congresso Eucaristico Nazionale

(Venezia – Chiesa parrocchiale S. Silvestro, 15 settembre 2016)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Cari confratelli nel sacerdozio, religiosi e religiose e fedeli laici,

inauguriamo oggi solennemente un evento che è centrale nella vita della Chiesa. Abbiamo ascoltato un Vangelo breve e, come sempre, nei discorsi brevi c’è la sostanza. Nell’immagine del Calvario che ci ha trasmesso l’evangelista Giovanni – presente in quel momento – noi abbiamo la totalità, il tutto. Nella scena del Calvario ci è consegnato il mistero trinitario, c’è il punto più alto della fede cristologica e ci è dato il mistero eucaristico. I tre misteri che noi crediamo sono immanenti l’uno all’altro.

Cosa avviene al Calvario? Avviene il compiersi della misericordia di Dio, secondo lo stile di Dio; una modalità compiuta, essenziale, affidata alla libertà degli uomini. La scena del Calvario è chiara: il Padre ci dona il Figlio; il Figlio si dona al Padre. “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!”. E nello stesso tempo il Figlio soffia, effonde, lo Spirito Santo. Reclinato il capo – annota Giovanni – emise lo Spirito. Il mistero trinitario – che è eterna comunione ed eterna processione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo – ci è consegnato nella storia dell’evento del Calvario dove il Padre ci dà il Figlio e il Figlio si consegna al Padre nel soffio dello Spirito Santo.

Ma il Calvario è anche il punto prospettico più alto della fede cristologica. L’evangelista Giovanni struttura tutto il suo Vangelo a partire dal concetto dell’ora. “Non poterono prenderlo perché non era ancora giunta la sua ora”. Ed è interessante vedere come – al capitolo 19 di Giovanni che abbiamo letto e in cui si realizza l’ora – è presente la Madre, Colei che al capitolo secondo di Giovanni – cioè all’inizio della vita pubblica – aveva anticipato l’ora: “Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»” (Gv 2, 3-5).

Maria è presente perché appartiene alla fede cristologica; solo una pessima teologia ha confuso la mariologia con la devozione. Certo, siamo devoti della Vergine santissima, ma la Vergine santissima appartiene alla fede della Chiesa con il suo titolo principe:Madre. Gesù – l’eterno Figlio del Padre – non poteva chiamare in modo proprio “padre” nessuno sulla terra; sarebbe stato in contrasto con la sua realtà di Verbo eterno, Figlio eterno di Dio, del Padre. E, quindi, ecco Maria, la madre sempre vergine; la verginità di Maria non è una devozione, è fede cristologica.

Nel mistero del Calvario abbiamo, quindi, non solo l’affidarsi alla storia del mistero trinitario ma anche il punto più alto della cristologia, dove la mariologia appartiene alla fede cristologica. E non a caso il Concilio Vaticano II parla della mediazione di Maria all’interno dell’unica mediazione di Cristo. Ma è una mediazione vera, reale. Il Cristo ci è giunto da Maria; ogni grazia giunge a noi con il Cristo e come è giunto a noi il Cristo e, quindi, attraverso Maria che è mediatrice universale delle grazie.

Il mistero del Calvario consegna anche, immanente al mistero cristologico e trinitario, il mistero eucaristico. Una spada, una lancia, gli ferì il costato e ne sgorgò sangue ed acqua e chi ha visto ne dà testimonianza, dice il Vangelo (cfr. Gv 19, 34-35). L’eucaristia è il cuore di Cristo, è Cristo che rimane. Dovremmo riscoprire questo centro, che è l’eucaristia, ma il centro è anche l’inizio ed è anche il compimento. L’essenziale della Chiesa è avere il Cristo, il corpo ed il sangue del Signore.

Noi siamo continuamente guardati da astronavi e satelliti che girano nello spazio e passano parecchie volte al giorno sulla Terra; siamo monitorati di giorno e di notte. E di notte i punti luminosi della Terra sono là dove c’è l’acqua; l’America del Nord, l’Europa, alcune parti dell’Asia risultano così particolarmente luminose. Questa è la luce degli uomini, le energie umane, ma se noi potessimo guardare la Terra dall’altezza delle astronavi e passare sopra la nostra Diocesi noi vedremmo che i punti più luminosi sono tre. Sono la chiesa di S. Silvestro e la chiesa di S. Maria Goretti, perché c’è l’adorazione perpetua, perché c’è l’essenziale, dove l’essenziale coincide con il centro, con il vertice.

Non c’è mai stato un momento nella Chiesa in cui non ci fosse l’eucaristia. La Chiesa vera è la dove si celebra una vera eucaristia, dove si celebra e si adora l’eucarestia; lì c’è la Chiesa che si realizza nel modo più alto. E il terzo fuoco che vedremmo dalla nostra astronave – meno tecnica e più teologica – sarebbe la basilica di S. Marco, dove c’è la successione apostolica. La successione apostolica non è solo un fatto di tempo e di cronologia ma è un fatto anche di fede piena, totale e compiuta nel Cristo risorto.

Ma torniamo all’eucaristia. Dobbiamo riscoprire la grandezza della messa nella sua realtà teologica. Nella messa non si ripete nulla; si riattualizza, si rinnova, si rende presente l’unico sacrificio di Cristo. Avviene un miracolo, per cui si supera lo spazio e il tempo e, nel momento della celebrazione e dell’adorazione eucaristica, si è riportati all’evento unico che ci ha salvati.

La liturgia deve riscoprire l’adorazione, il silenzio, la fede. E il canto non è in occasione di una celebrazione, ma esprime la celebrazione, è funzionale alla celebrazione, è celebrazione; non è mai qualcosa che si apparenta, che cammina collateralmente alla celebrazione o addirittura, certe volte, va per conto suo… Il canto è preghiera, il canto è un modo di confessare la propria fede al di là e oltre le parole, quando lo stupore della fede ci dice che le parole non bastano… Sant’Agostino parla del canto come del giubilo; quando le parole non bastano, allora l’uomo esprime nella modulazione della voce qualcosa che non riesce a dire con le sole parole.

La solennità eucaristica non è lo sfarzo; è il riconoscimento di un mistero, è la fede di una comunità che mette al suo centro il Cristo. La croce non è mai il termine, è parte del mistero pasquale. E allora riscopriamo l’essenziale, riscopriamo il centro, andiamo all’eucaristia: adorare è la continuazione di una buona celebrazione ed è preparazione ad una nuova celebrazione.

Liturgia vuol dire azione in favore del popolo e chi è che compie l’azione in favore del popolo? L’unico sacerdote che è Gesù Cristo, a cui il sacerdozio ministeriale serve e presta – attraverso la ministerialità sacramentale – quei gesti e quelle parole che sono e rimangono le parole di Cristo. Il sacerdote dice “questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue” perché sta parlando in persona di Cristo.

Il mistero trinitario, il mistero cristologico, il mistero eucaristico sono espressioni diverse della Divina Misericordia. Non sono altro che la sua declinazione nella storia: il ministero trinitario come “economia”, come offerta, come rivelazione; il mistero cristologico come attuazione della salvezza; l’eucarestia come compimento di ciò che è avvenuto fino al momento in cui non ci sarà più la celebrazione dell’eucarestia perché ci sarà solo il Signore e ci sarà la Pasqua eterna: “Annunciamo la tua morte, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta”.

O l’eucaristia si ama e si crede per quello che è, o diventa qualcosa di umano, di meramente rappresentativo e scenico, ma questo non è il mistero eucaristico che chiede di essere celebrato, adorato, vissuto. Pensiamo che cosa la Chiesa – a partire dalla fede eucaristica – è riuscita nei secoli a produrre in termini di arte, di musica e di bellezza delle chiese, che non sono dei musei che si visitano pagando un biglietto ma l’espressione di una comunità credente.

Il prete è un servo. E se confondesse il suo ruolo di servizio, quando celebra, con un protagonismo narcisista, sarebbe il primo a non aver capito nulla di che cosa sta facendo e sarebbe opportuno che qualcuno glielo facesse notare. Guardiamo alla misericordia di Dio, non trasformandola in un meccanismo umano ma in quello che è; accogliamola come le vie di Dio che, soprattutto in certi periodi storici, non sono le nostre vie e come il cielo dista dalla terra sono separate e chiedono la nostra conversione; sono separate dal nostro umano politicamente corretto che traduciamo anche, purtroppo, talvolta, nell’annuncio di un Vangelo annacquato. La teologia del resto di Israele: pochi fedeli e, forse, pochi perché fedeli, fedeli e quindi pochi.

Concluderemo l’Anno della Misericordia nella basilica cattedrale di S. Marco e lì faremo il nostro atto di consacrazione alla Divina misericordia attraverso la Madre della Misericordia; prepariamoci a questo gesto che non deve essere qualcosa di esterno e di “vocale”  ma deve essere una richiesta piena e sincera, perché le nostre labbra, la nostra intelligenza, il nostro cuore, la nostra memoria, i nostri gesti siano pervasi e trasformati dalla Divina Misericordia. È il mistero di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; è il mistero di Cristo che ci salva sulla croce e ci è dato nella Santissima Eucaristia, il suo cuore aperto e che ci dona il sangue e l’acqua.

 

 

 

Al termine della celebrazione il Patriarca si è rivolto così, in modo particolare, agli “adoratori”:

 

Questo rito semplice vuole ribadire un fatto importante: qui il Signore è presente sempre, di giorno e di notte, come in tutte le altre chiese del Patriarcato. Solo che qui, di fronte a Lui, c’è sempre qualcuno in adorazione in rappresentanza di altri. E allora io desidero ringraziare – nell’occasione del Congresso Eucaristico Nazionale – quanti, di notte e di giorno, soprattutto di notte, magari lavorando di giorno, portando avanti le realtà familiari che sappiamo essere sempre impegnative, trovano un’ora e anche più per stare, d’inverno e d’estate, in ogni stagione, con il Signore in adorazione.

Penso che questa sia una grande testimonianza di fede e di amore. Abbiamo gioito tutti, qualche giorno fa, per la proclamazione solenne della santità di Madre Teresa di Calcutta. Ricordo che, quando studiavo teologia, avevo letto un libro in cui si parlava dell’eucaristia e ad un certo punto, nella prefazione, si dicevano soprattutto due cose. Intervistato Giovanni Paolo II, anche lui santo, gli fu chiesto: ma cos’è la cosa più importante che lei fa come Papa ogni giorno? Disse: Quella che facevo come prete semplice. La cosa più importante è celebrare l’eucarestia. E poi Madre Teresa chiedeva, in modo imperativo, che le sue suore, soprattutto le più giovani, prima di andare a cercare i moribondi per le strade di Calcutta, soprattutto durante la notte, passassero due ore in adorazione del Santissimo Sacramento; solo in seguito potevano andare. E una novizia, tornando, disse alla Madre: “Madre, per due ore ho adorato il corpo di Cristo, per tutta la notte ho pulito dai vermi un povero uomo e ancora ho toccato il corpo di Cristo”. Ecco la carità cristiana, che non è solidarietà – è anche solidarietà – ma è qualcosa di più!

Ringraziamo, allora, quanti adorano e chiediamo che questo fuoco acceso dell’adorazione perpetua e degli adoratori si diffonda nella nostra Chiesa, sempre più e sempre meglio. Dare mezz’ora al Signore non è perdere una mezz’ora di tempo che avremmo dedicato a fare altre cose; è guadagnare un’infinità di tempo, perché dopo l’adorazione si vedono ogni momento e molto di più le cose secondo la loro realtà, le persone secondo la loro realtà, le relazioni del mondo secondo la loro verità. Grazie a tutti gli adoratori.