Omelia del Patriarca nella S. Messa durante il pellegrinaggio triveneto della vita consacrata (Aquileia, 2 giugno 2015)
02-06-2015
S. Messa durante il pellegrinaggio triveneto della vita consacrata
(Aquileia, 2 giugno 2015)
Omelia del Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia
A tutti voi, cari consacrati e care consacrate che vivete nelle Chiese del Triveneto, il più fraterno e gioioso saluto.
Inizio dando il benvenuto a S. E. Mons. Josè Rodriguez Carballo, Segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che ci onora della sua presenza.
 Poi, porgo il più cordiale ringraziamento a S. E. Mons. Gianfranco Gardin, Arcivescovo di Treviso e Presidente della Commissione CET per la Vita Consacrata, per il prezioso lavoro che svolge nella nostra Regione ecclesiastica a favore delle consacrate e dei consacrati.
Il grazie, infine, va all’Arcivescovo S. E. Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli e alla Chiesa di Gorizia che ci accolgono nel meraviglioso contesto di fede e arte che è la basilica di Aquileia.
Sorelle e fratelli carissimi, proprio qui ad Aquileia – per la prima volta in queste nostre terre del Nordest – è risuonato l’annuncio della fede cristiana; Aquileia è la culla della nostra fede e per questo motivo vi siamo venuti, in pellegrinaggio, per ricordare il dono grande del battesimo. Ed è proprio su tale dono che si radica la vostra speciale consacrazione a Dio e ai fratelli.
Nella Chiesa il carisma di speciale consacrazione ha, alle spalle, una lunga storia e con l’aiuto di Dio – ne siamo certi – un futuro luminoso, a condizione di passare attraverso una profonda “immersione/conversione” evangelica.
L’impegno, quindi, è di vivere quest’Anno della Vita Consacrata con lo sguardo fiducioso (ossia di fede) rivolto a Colui che vi ha scelti e vi ha scelte affinché lo seguiate con animo gioioso. È, perciò, essenziale valorizzare al meglio la peculiarità del carisma proprio dell’istituto di appartenenza e, così, sentirsi chiamati ad edificare la Chiesa nella fedeltà a tale vocazione.
Papa Francesco, nella lettera che vi ha scritto in occasione dell’Anno della Vita Consacrata, vi domanda di guardare con gratitudine al passato (n.1), di vivere con passione il presente (n. 2) e di abbracciare con speranza il futuro (n.3).
C’è, quindi, un cammino da intraprendere insieme; un cammino di cui la narrazione del Vangelo di Luca dei due discepoli di Emmaus è, per noi, esempio e paradigma. Luca ci avverte che Cleopa, insieme al suo compagno di viaggio, sta percorrendo la strada verso Emmaus,un paese distante pochi chilometri da Gerusalemme; stanno discorrendo fra loro e, ad un certo momento, si accosta Gesù in persona ma essi non lo riconoscono. Lo scopriranno solo più tardi. Il Signore conversa con loro, è lì con loro e condivide ogni passo e fatica di quel cammino.
Il segreto semplice, ma decisivo, nella vita spirituale è riscoprire che il Signore è vicino e come Risorto ci accompagna, è al nostro fianco, ci illumina con la sua parola.   
Nella sua lettera Papa Francesco, dopo aver indicati gli obiettivi, ci indica le attese dell’Anno della Vita Consacrata. Mi limito a ricordare quello che il Papa pone, in modo non casuale, al primo posto: la gioia.
 L’indicazione è chiara: il consacrato e la consacrata sono uomini e donne gioiosi, capaci di gioire. Si tratta, però, della gioia del Vangelo, quella che solo il Signore risorto dona; è, quindi, una gioia che non dipende da cause umane ma ha come motivo l’appartenere a Dio.
Tale gioia deve esser testimoniata in qualsiasi stagione della vita e in qualsiasi momento della giornata; qualunque cosa si faccia, senza “se” e “ma”.
Ecco le parole del Santo Padre: “«Dove ci sono i religiosi c’è gioia». Siamo chiamati a sperimentare e mostrare – dice Papa Francesco – che Dio è capace di colmare il nostro cuore e di renderci felici, senza bisogno di cercare altrove la nostra felicità; che l’autentica fraternità vissuta nelle nostre comunità alimenta la nostra gioia; che il nostro dono totale nel servizio della Chiesa, delle famiglie, dei giovani, degli anziani, dei poveri ci realizza come persone e dà pienezza alla nostra vita” (Papa Francesco, Lettera Apostolica a tutti i consacrati in occasione dell’Anno della Vita Consacrata, II, 1).
È già una vera e concreta evangelizzazione dire – a chi è in ricerca della felicità ed è scontento di sé – che esistono uomini e donne e comunità capaci d’esprimere una gioia vera, una gioia reale, una gioia non fittizia che non è risultato di forzature ma corrisponde al loro proprio modo d’essere.
La storia della salvezza – di cui noi facciamo parte con le nostre piccole ma preziosissime storie personali – è una grande testimonianza del Dio della gioia, il Dio della Pasqua.
Così, la Sua Parola ascoltata e meditata personalmente e in comunità, condivisa  con i fratelli e le sorelle, introduce nella gioia di Dio: Gesù risorto.
La gioia cristiana è frutto di una fede forte, robusta, provata dalle vicende umane e che ci conduce alla sapientia cordis, ossia all’amore di Dio.
Il consacrato e la consacrata – sull’esempio di Maria di Nazareth – semplicemente credono e si affidano all’amore di Dio, nonostante quello che può accadere.
Essi, prima di compiere qualsiasi gesto, dal più semplice e quotidiano al più eroico, sono chiamati a credere e a rispondere all’amore di Dio. A credervi innanzitutto e, poi, a rispondervi in modo pieno e indiviso. D’altra parte, il sì del consacrato è espressione eloquente di gratuità piena.
I voti – e quanto li richiama – costituiscono la risposta gratuita ad un Amore più grande che precede, che accompagna e che domanda una risposta che sia in sintonia con l’Amore più grande.
La logica possibile è una sola, quella del “sì” di Nazareth, il “sì” mariano, il “sì” che non chiede nulla per sé, non chiede garanzie né tutele personali. Nulla pretende e nulla vuole per sé.
Maria non pone mai in questione Dio e il suo operato nemmeno ai piedi della croce, dinanzi al fallimento umano del Figlio; Maria esprime, in tal modo, la fede di chi, nella sua storia personale, crede all’amore di Dio e non viene meno nella fiducia, nonostante le apparenze contrarie.
Il dono totale di sé, nella fede, caratterizza la vita di speciale consacrazione a Dio e proprio qui sta il fondamento della gioia di cui prima si diceva.
Fidarsi dell’amore di Dio, senza domandare garanzie in cambio, dice la rettitudine del cuore; se un consacrato e una consacrata chiedono a Dio che sia giusto nei loro confronti partendo, magari, da criteri umani, allora vuol dire che si è sbagliato tutto.
Il rapporto con Dio, infatti, si dà a partire dal fatto che Lui è l’Amore e che, quindi, bisogna rispondere all’Amore con l’amore, nella logica della fiducia o libera consegna di sé a Lui, senza porre vincoli o presumendo di convenire con Lui in termini di accordi, garanzie e tutele.
La parabola del padrone che, all’inizio della giornata, manda gli operai a lavorare nella sua vigna ci aiuta a comprendere. I servi presi a giornata all’alba contrattano un compenso, determinano a priori un salario, si tutelano.
Leggiamo nel Vangelo di Matteo: “Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna…” (Mt 20,3). E tale compenso riceveranno alla sera; invece, gli altri operai non convengono il prezzo della loro prestazione. Il padrone  della vigna  si limita a dire solo: “«Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». Ed essi andarono” (Mt 20, 4-5). Quel “giusto” che viene loro promesso, senza contratti umani, li sorprenderà…
Sant’Agostino inizia la sua regola con queste parole: «Il motivo essenziale per cui vi siete riuniti insieme è che viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un sol cuore protesi verso Dio» (I, 3).
Riflettiamo, in conclusione, su questa antichissima norma di vita che, in Occidente, ha forgiato un numero incalcolabile di consacrati e consacrate e a cui si sono rifatti anche tanti fondatori di famiglie religiose.
La vita religiosa ci chiede d’esprimere questa unità che non è frutto di sforzi umani ma è dono accolto nella libertà. L’unità di cui parla Agostino è il dono dello Spirito Santo che, solo, è in grado di realizzare l’unità nella diversità, cioè, di formare vere comunità.
E come ricorda Papa Francesco – nel discorso recentemente tenuto ai religiosi e alle religiose partecipanti al colloquio ecumenico – l’unità chiede d’essere promossa attraverso scelte che non sono solo un cammino personale del consacrato o della consacrata ma devono caratterizzare la vita comunitaria perché l’unità è frutto di scelte personali e, insieme, comunitarie.
Per conseguire l’unità non è sufficiente la conversione personale ma sono richiesti anche gesti comuni di conversione; non è sufficiente la preghiera personale ma è necessario, in quanto comunità, aprirsi a una preghiera comune; non basta l’impegno personale alla santità ma è richiesto che la casa, dove si abita, diventi un vero cenacolo e porti i segni visibili di una santità condivisa con tutti i fratelli e le sorelle.
Non è puro caso che gli ultimi mesi dell’Anno della Vita Consacrata si intersechino con i primi mesi dell’Anno del Giubileo Straordinario della Misericordia dove, appunto, il cammino personale di conversione diventa cammino comunitario, fatto di gesti condivisi, ad un tempo personali e comunitari, in cui le consacrate e i consacrati sono chiamati a tornare a Dio non da soli ma con le proprie sorelle e i propri fratelli, scoprendo con loro e attraverso di loro il sapore evangelico del carisma attraverso il quale Dio – come il Padre misericordioso della parabola di Luca – ci attende, ci viene incontro, ci abbraccia e, prendendoci per mano, ci conduce alla santità che è il fine sia dell’Anno della Vita Consacrata sia del Giubileo Straordinario della Misericordia.