S. Messa durante il pellegrinaggio mariano diocesano dal Santuario della Madonna della Salute al Duomo di S. Lorenzo
e in occasione della celebrazione dei Giubilei di professione religiosa
(Mestre, 3 febbraio 2018)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
La Chiesa è un popolo. Un popolo non amorfo o indifferenziato. Un popolo costituito da persone, da vocazioni. Ed oggi siamo qui per guardare e ringraziare Dio di una presenza essenziale nella nostra Chiesa, di cui ci si accorge – come capita spesso per le realtà buone – quando quella realtà si spegne o sembra venir meno.
La consacrazione piena a Dio è un gesto che riassume – nel modo più radicale – la visione cristiana dell’uomo o, se volete, l’antropologia cristiana. È l’andare al fondo della domanda: chi è l’uomo? E la risposta è: colui (o colei) che viene da Dio, che trova il suo senso in Dio, che è incamminato verso Dio, che trova la sua pienezza in Dio.
La vita di consacrazione religiosa non può prescindere da questa visione di fede e chi ha avuto il dono di questa chiamata deve percepire il dono come qualcosa che lo gratifica e che lo mette in questione. Noi siamo – nel nostro essere – il termine personalissimo di un amore unico di Dio. Prima di qualsiasi cosa che un religioso o una religiosa, un consacrato o una consacrata, una comunità religiosa possono fare… c’è il loro esserci. Ecco la libertà della vita religiosa, la libertà del religioso e della religiosa.
Siamo, allora, invitati – soprattutto nei momenti in cui sembra che l’umano che accompagna il divino nella vocazione religiosa si appanni, appaia affaticato o provato nel numero e nell’età – a guardare tutto con occhio di fede e a ripensare alla teologia del “resto d’Israele”. Siamo chiamati ad una fedeltà più grande, ad una fede più grande; siamo chiamati ad affidarci totalmente allo Sposo.
La vita religiosa è una ricchezza che accompagna la Chiesa da sempre. Pensiamo a quel nucleo di donne che seguivano Gesù, magari dopo una vita travagliata, come la Maddalena da cui aveva cacciato sette demoni. Questo nucleo ci fa scorgere la consacrazione totale a Dio.
All’epoca dei martiri segue poi l’epoca dei vergini, dei consacrati. La vita monastica nasce, infatti, in Egitto nel momento in cui viene meno quel dono totale che si chiamava martirio e subentra un altro dono totale: Signore, sono qui e sono tuo, sono tua…
La vita religiosa è una fedeltà cristologica e la lettera agli Ebrei – che è la prima riflessione sistematica sul sacerdozio nel Nuovo Testamento – ci parla della consacrazione di Gesù come il paradigma, l’emblema, il consacrato per eccellenza.
Una vita religiosa e una comunità religiosa fedele vale più di mille olocausti e sacrifici. E le celebrazioni liturgiche sono per diventare corpo del Signore, unione a Lui, offerta a Lui gradita.
Abbiamo appena ascoltato il testo di Salomone che chiede a Dio il dono della sapienza e la sapienza è il logos. Il fatto che gli ambienti ebraici ed ellenisti abbiano tradotto il termine torah con “legge”, dicendo certamente qualcosa di vero, ha poi finito per farci leggere – sbagliando – in termini legalisti una realtà che vuole invece dire qualcosa di più. La torah è la vera sapienza di Dio, è la saggezza di Dio. Noi siamo chiamati ad essere figli nel Figlio e la legge di Dio si traduce in logos, ovvero la sapienza, il progetto, il disegno del Padre che è l’uomo Gesù.
La lettera agli Ebrei, ad un certo punto, cita il salmo 39: “…entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»” (Eb 10,5-7).
Per la mentalità semita il corpo è la persona nella sua visibilità, nella sua possibilità di incontrare gli altri, di darsi agli altri, nella sua possibilità di collegamento sociale con gli altri, nella sua possibilità di dono. Ecco perché noi riceviamo il corpo del Signore: per diventare, a nostra volta, il suo corpo.
La teologia eucaristica parla della realtà della presenza di Cristo nei sacramenti e l’Eucaristia è la presenza reale. Ma nell’antichità il corpo “reale” era la Chiesa, che è il termine ultimo, l’effetto ultimo dell’Eucaristia. L’Eucaristia non è solo la visibilità del rito e neppure – in ultima istanza – solo la presenza reale del Gesù “pasquale”, del suo sacrificio, del suo dono, della sua grazia.
La realtà ultima dell’Eucaristia, la res tantum, il significato ultimo dell’Eucaristia è la carità, cioè Cristo. Qui c’è il progetto di Dio. Ecco perché nelle nostre comunità di persone consacrate dobbiamo avere il coraggio di mettere l’Eucaristia al centro, di celebrare l’Eucaristia, di adorare l’Eucaristia e stare di fronte a Gesù eucaristico.
Madre Teresa, prima di andare a raccogliere i poveri moribondi di Calcutta con le sue suore, faceva e chiedeva di fare due ore di adorazione eucaristica. E pensiamo al racconto di quella novizia che torna contenta e dice: “Madre, per due ore sono stata con il corpo eucaristico di Gesù e poi, per tutto il resto della notte, le mie mani hanno toccato il corpo piagato e puzzolente dei moribondi” (e quante volte le suore di madre Teresa potevano semplicemente togliere i vermi a coloro che trovavano nei bassifondi di Calcutta…).
L’Eucarestia è il centro! Ritorniamo, come comunità, a mettere il Signore Gesù come significato vero, ultimo ed inclusivo della nostra donazione totale. E riscopriremo la carità fra noi, perché la carità nelle nostre comunità è importante; è la cartina di tornasole dei voti vissuti. La carità ama la verità, la verità detta con amore.
Non parlare può anche essere comodo ma, certe volte, è sbagliato ed ecco il tema della correzione fraterna. Più la comunità è piccola, più deve vivere di carità e più deve avere il coraggio di dire con amore la verità e di amare con verità. Questo binomio – verità ed amore – va vissuto dentro di noi, deve illuminare il nostro modo di guardare l’altro, gli altri, la comunità, i nostri compiti nella comunità. Il binomio verità e carità è la crocifissione della nostra vita.
Come sarebbe comodo dire in malo modo la verità o non dire la verità in nome di un falso amore… Chiediamo al Signore che la nostra consacrazione si esprima in questa verità, detta con amore, e in un amore che mai prescinde dalla verità.
Ringrazio in modo particolare per quest’incontro i vertici diocesani di Cism e Usmi, il delegato mons. Lucio Cilia e il parroco mons. Gianni Bernardi.
Preghiamo gli uni per gli altri, portiamo gli uni il peso degli altri. Viviamo con libertà, perché essere segni di ciò che attende la Chiesa è la vostra profezia. La profezia non è fare cose strane; è essere uomini e donne di fede, è essere legati alla parola di Dio. La profezia non è dire quello che succederà domani o fra un mese; è discernere la volontà di Dio nella mia vita oggi per me e per la mia comunità. E qui torniamo alla crocifissione della verità detta con amore e di un amore che mai prescinde dalla verità.
Al termine della Messa viene ricordato che, proprio in questo giorno, ricorre il decimo anniversario di ordinazione episcopale del Patriarca Francesco Moraglia che riceve in dono, da alcuni seminaristi e come segno di gratitudine e felicitazione, una coroncina del rosario con l’immagine della Madonna della Salute e una croce pettorale.
Di seguito, il Patriarca interviene ancora con queste parole:
Vi ringrazio. Questa cosa non l’attendevo e, quindi, mi risulta ancor più gradita. Un pastore ha due interessi: il Signore Gesù, al quale ogni sera consegna la sua giornata, la sua fatica, e il popolo di cui è pastore e che ogni sera affida all’unico Pastore che è sempre il Signore Gesù. Il tempo passa velocemente; avete voluto ricordare anche la bella Chiesa di Spezia che ho lasciato in modo un po’ imprevisto per me, non atteso… Ringrazio, però, il Signore che mi ha condotto qui con voi a Venezia. Il tempo passa, passa velocemente, e in ciascuno di noi – anche nel Vescovo – rimane solo l’amore con cui ha fatto le cose. E, allora, io vi chiedo di pregare il Signore perché io possa fare le cose con l’amore e con la semplicità – pensando a ciascuno di voi, a tutte le persone e situazioni – di chi poi vuole e deve rendere conto al Signore, non solo alla fine della vita ma anche alla fine di ogni giornata, di tutto quello che ha detto e ha fatto. Grazie!