S. Messa durante il pellegrinaggio mariano alla chiesa parrocchiale di S. Maria Ausiliatrice / Gazzera
(Mestre, 4 maggio 2019)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Cari fedeli e cari confratelli nel sacerdozio,
il pellegrinaggio mariano è un momento in cui facciamo un’obbedienza cristologica.
Gesù ci ha affidati a sua madre ai piedi della croce. E Maria – l’abbiamo detto più volte – non è una devozione, ma appartiene ed è espressione della storia della salvezza. Obbedire a Gesù vuol dire regnare; molte volte siamo schiavi di noi stessi, del nostro carattere, delle nostre amicizie e delle nostre parentele perché non obbediamo a Gesù. Non a caso Gesù risponde nel Vangelo (a chi gli dice che fuori ad aspettarlo ci sono la madre e i fratelli): «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12, 49-50).
Il pellegrinaggio del primo sabato del mese è un evento in cui siamo chiamati a “registrare” la nostra vita spirituale; non a caso fa parte del primo sabato del mese la preghiera, l’eucaristia, la confessione. E ciò che la Madonna chiede ai tre pastorelli di Fatima il 13 maggio 1917 è questo: ritornare a Dio.
L’inizio del Vangelo secondo Marco è tutto un invito: fate penitenza, convertitevi, il Regno di Dio è vicino. E la Madonna lo traduce, ecco perché Maria non è mai una devozione.
In particolare la confessione è un dono, è un momento grande, è un momento di grazia, un momento di gioia, di ringraziamento e di richiesta di perdono. La Madonna – che è la prima discepola, la prima evangelizzatrice che con passo frettoloso si reca dalla cugina Elisabetta portando Gesù – a Fatima porta il richiamo alla penitenza, alla riconciliazione sacramentale, il richiamo all’eucaristia e alla preghiera del rosario che è la preghiera che medita i misteri di Cristo, una preghiera cristologica.
Soffermiamoci sulla parola di Dio che è stata proclamata in questo giorno del tempo pasquale. La prima lettura (At 6, 1-7) è la scelta dei diaconi. Se avete fatto caso, si dice che in quei giorni nella comunità cristiana si mormorava e c’era scontento; lo scontento caratterizza un po’ la storia della salvezza. Mosè, per primo, ad un certo punto si trova di fronte un popolo che mormora: non stavamo bene in Egitto? Perché ci hai portato qui, in questo deserto?
Ma pensiamo anche a san Paolo nella lettera ai Corinzi o alla prima lettera di Giovanni (qui c’è qualcuno che mette divisione nella comunità, ha un nome e viene citato); la mormorazione è sempre qualcosa da cui dobbiamo guardarci. Di fronte allo scontento registrato dalla pagina odierna degli Atti degli Apostoli intervengono i Dodici.
La Chiesa è il popolo di Dio “costituito”, attraverso le varie vocazioni, ed alcuni hanno la responsabilità di seguire la comunità guidandola: sono i Dodici. E cosa fanno in questa circostanza? Fanno una scelta importante: siete scontenti perché non tutti ricevono quello che dovrebbero ricevere? Noi apostoli non possiamo non dedicarci alla preghiera e all’annuncio della Parola, cercate voi alcuni che si occupino del servizio delle mense; noi ci dedicheremo alla Parola e alla preghiera.
Perché mi soffermo su questo? Perché, vedete, nella Chiesa ci sono vocazioni diverse e se certamente i Dodici sono “tenuti” alla carità ma hanno un ministero che è quello dell’annuncio e della preghiera, la celebrazione dell’eucaristia, la preghiera per eccellenza.
Pietro, Paolo, Giovanni, Andrea e gli altri sono “tenuti” alla carità ma nella Chiesa esistono ministeri diversi; non tutto si concentra nel ministero ordinato o nel Papa o nel vescovo. La comunità ecclesiale ha dei carismi, dei compiti, dei ministeri che non si identificano con i preti; è il discorso dei “cenacoli” così difficili da far decollare… E c’è un ministero nella Chiesa che è dedicato in modo istituzionale alla carità ed è il diaconato; il diacono poi deve avere certamente anche una carità personale, però ha in particolare il ministero della carità.
Dobbiamo riscoprire che il battesimo è una vocazione ma vocazione cosa vuol dire? È, infatti, inutile parlare di vocazione se non teniamo presenti due cose: chiamata e risposta. Fintanto che uno parla della vocazione soltanto come chiamata e non ha una missione, non risponde davvero alla chiamata; due sposi sono chiamati – “vocati” – ad amarsi e ad annunciare il loro amore nei figli dando la vita. Dobbiamo riscoprire questa vocazione.
Nel Vangelo di oggi (Gv 6, 16-21) gli apostoli sono stati con Gesù, scendono dal monte, salgono in barca, incominciano a remare e devono raggiungere l’altra riva. Questo brano ci dice come è faticoso il cammino della Chiesa. Remano da soli, perché non c’è Gesù – il Signore – sulla barca, hanno remato tanto ma hanno fatto solo tre o quattro miglia; il vento contrario e le onde rendono faticosa la navigazione. Sì, quando Gesù non è nella barca della Chiesa, la Chiesa fatica e non riesce a progredire e non riesce a raggiungere la meta. Come Chiesa mettiamo da parte il Signore ogni volta che mettiamo al centro altre cose; il centro della Chiesa è Gesù.
Vi faccio un altro esempio: i due discepoli di Emmaus che lasciano Gerusalemme e ritornano al loro villaggio. Sono tristi, si piangono addosso e tornano alla loro vita, per quale motivo? Hanno perso la fede in Gesù, tanto che parlano con Lui ma non lo riconoscono.
Un altro esempio ancora: la Maddalena fuori dal sepolcro. Il sepolcro è vuoto, è venuta a cercare il suo corpo, ma non lo trova il corpo e, invece di incominciare pensare al fatto che diceva che sarebbe risorto, si mette a piangere… Poi parla con Gesù e lo confonde con qualcun altro…
Come cristiani, come comunità, come Chiesa noi possiamo mettere al centro degli idoli che non sono Gesù ma che sono le nostre attività umane, le ideologie, il fare umano, i cosiddetti “valori” che però, staccati da Gesù Cristo, diventano idoli.
Ed ecco che, quando Gesù sale sulla barca, la barca arriva subito all’altra riva ma – attenzione – non riconoscono Gesù e si spaventano. Un incontro con Gesù è sempre un incontro non tranquillizzante perché l’incontro tranquillizzante è l’incontro con noi stessi. L’incontro con Dio – basta prendere tutta la Sacra Scrittura, dall’Antico al Nuovo Testamento – è sempre un incontro “tremendo”.
Dio entra nella vita dell’uomo o di una donna e compie un giudizio di salvezza che richiede la conversione. Gli apostoli si spaventano, quando accolgono Gesù nella barca, ma finalmente la barca incomincia a procedere e a raggiungere la riva.
Un grande tema che ritorna nel Tempo di Pasqua è semplice e fondamentale: i discepoli non riconoscono il Risorto… E la preoccupazione di Luca e di Giovanni – ma soprattutto dell’evangelista Luca – è “fondare” le apparizioni che sono la catechesi che il Risorto fa alla sua comunità, ai discepoli, per far capire loro cosa è successo.
Gesù risorto si nasconde così nel pellegrino dei due di Emmaus, nell’ortolano della Maddalena, nell’uomo che sta sulla riva del lago e sta accendendo un fuoco per poter dare il cibo a quelli che stanno pescando. Il Risorto ha voluto rendere certa la comunità che lui era proprio il Risorto.
Le apparizioni sono dunque la pedagogia, la preparazione ad una fede pura e la fede pura che cosa è? L’eucaristia. Lì c’è la pura fede.
Capite allora come è importante vivere bene l’anno liturgico e l’eucaristia della domenica perché se non cresciamo nella fede prima o poi ci stufiamo di compiere dei gesti che rischiano di essere molto e solo umani. Ed ecco perché la prima lettura di oggi ci dice che dobbiamo dedicarci alla carità e alla preghiera.
Buon mese di maggio a tutti!