Omelia del Patriarca nella S. Messa di Pasqua (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 27 marzo 2016)
27-03-2016

Messa nella Pasqua di Risurrezione del Signore

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 27 marzo 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

 

Carissimi,

l’annuncio pasquale “il Signore è risorto!” – in questo anno della divina misericordia – risuona in modo particolare; la Pasqua è, infatti, l’evento in cui la divina misericordia assume la forma concreta della croce e si tratta di una misericordia – come afferma l’apostolo Paolo – “a caro prezzo” (cfr. 1 Cor 6,20).

Il quarto Vangelo ricorda: “…se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

La Pasqua è il risultato di un duplice “si”; il “sì” del Figlio e il “sì” del Padre; è dal loro “sì” che nasce l’umanità rinnovata.

I “sì” del Padre e del Figlio suscitano l’effusione dello Spirito Santo; Gesù “chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,30). Lo Spirito – che è Spirito del Padre e del Figlio – è legato strettamente alla croce per la salvezza del mondo. La misericordia prende la forma delle piaghe di Cristo; la misericordia è costata cara a Dio.

La Pasqua è perdono, è gioia, è la vera novità che plasma il mondo a partire dal cuore dell’uomo. Ciò che il peccato aveva deformato e distrutto, a Pasqua, prende di nuovo forma e si rigenera. Pasqua è la luce che illumina e squarcia le tenebre e, alla fine, dona la grazia a quanti impotenti l’attendono.

La misericordia di Dio entra, così, nella storia; da quel momento tutto rinasce, tutto assume nuova vita. La Pasqua assomiglia a una mattina di primavera; è un inizio, che si manifesta attraverso la novità di un incontro inatteso ma reale e che si fa strada dall’esterno, non è la proiezione di un io suggestionato.

Pasqua è l’incontro col Crocifisso risorto, incontro che fa gioire i discepoli e li invia in missione: “…Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20, 19-23).

È Gesù, il Risorto, che dona lo Spirito per la remissione dei peccati e manda i discepoli perché lo precedano; la misericordia di Dio vince il peccato del mondo.

La Pasqua si manifesta nella “realtà” di un incontro inatteso ma reale; la dinamica dell’incontro tra il Crocifisso risorto e i discepoli è il rivelarsi della Pasqua.

La Pasqua, effettivamente, è la realtà di tale incontro in cui Colui che era morto è tornato alla vita e Colui che, per gli uomini, era lo sconfitto, invece, per Dio è il vincitore. Ma il Risorto non è tornato alla vita di prima (avremmo una povera idea della Pasqua cristiana!): è entrato nella vita definitiva, ove la morte non ha più alcun potere. La mattina di Pasqua – nota il Vangelo di Luca – i messaggeri celesti (gli angeli) esortano le donne, giunte per prime al sepolcro, di non cercare tra i morti Colui che vive (cfr. Lc 24,5).

A Pasqua non si può cercare il Vivente tra i morti. La liturgia proclama: “…ne siamo certi: Cristo è davvero risorto. Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza”. Sono proprio le apparizioni del Risorto che permettono di superare le ambiguità del sepolcro vuoto. Solo le apparizioni (esperienze reali dell’incontro) sciolgono ogni possibile equivoco ed aprono i discepoli ad una fede che si fonda sulla realtà di Gesù vivo.

A Pasqua gli occhi dei discepoli non vedono più solo la realtà materiale che sta loro innanzi; i loro occhi si aprono all’evidenza della fede che non esclude la realtà materiale ma va oltre ad essa e la coglie nella totalità di morte per la risurrezione.

Siamo così in grado di porre la connessione fra vita terrena di Gesù (passione/morte) e glorificazione che è il “sì”, il sigillo del Padre; non una glorificazione qualunque, ma quella che coinvolge la carne e il sangue del Figlio, secondo quanto Egli aveva preannunziato ai discepoli.

La mattina di Pasqua, Giovanni corre più veloce di Pietro e raggiunge il sepolcro prima di lui ma lo attende; vi entro soltanto dopo e, osservata ogni cosa, crede (cfr. Gv 20,3-9).

I lini e il sudario piegati a parte forniscono, insieme alla storia di Gesù (i suoi gesti e le sue parole) e alle Scritture, la risposta plausibile e in grado di spiegare la verità dell’evento-Gesù, la sua risurrezione: è risorto e, davvero, ha vinto la morte.

Così, a Pasqua, i discepoli non entrano solo in un nuovo “spazio” della storia che non era stato ancora esplorato ma sono ammessi ad una realtà nuova, totalmente nuova, la realtà vera, la realtà totale, la realtà definitiva che è il compimento stesso della storia: l’éschaton. Escatologia significa proprio questo: compimento, pienezza, totalità, perfezione. Nell’escatologia passato, presente e futuro vengono superati nel compimento che non si divide più nella scansione temporale.

Ciò che conta, ormai, è vivere la presenza del Risorto, più che scoprire le modalità di tale presenza, Colui nel quale sono state create e redente tutte le cose vive. Ormai tale presenza è vita eterna inaugurata, è il già e il non ancora della vita cristiana.

La gioia è la nota qualificante della Pasqua. Il cristiano, a Pasqua, è nella gioia non tanto per motivi propri e che lo spingono a far festa. Il cristiano a Pasqua potrebbe, infatti, non avere motivi personali per gioire e, per lui, ogni cosa potrebbe essere oscura e drammatica. Nonostante ciò Pasqua è tempo di gioia vera e obiettiva perché il cristiano guarda in modo nuovo il suo futuro e quello del mondo in quanto, a Pasqua, la salvezza è donata in Gesù, il Vivente risorto.

Credere nella risurrezione non vuol dire chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie della storia, anche di fronte agli eventi drammatici e assurdi – le morti ingiuste, gli attentati, il terrorismo – di questi giorni. La Pasqua dice un’altra cosa, che l’ultima parola sulla storia e i suoi avvenimenti non sarà quella degli uomini.

Papa Francesco insiste sugli esiti tragici della cultura dello scarto e a Pasqua cosa succede? Tutto si ribalta, tutto assume una nuova logica, tutto si riscrive in Dio e secondo la logica di Dio al di là delle anguste e grette possibilità umane e, quindi, oltre le ingiustizie e i drammi della storia.

La seconda lettura di oggi – tratta dall’epistola ai Colossesi (3, 1-4) – evidenzia una condizione che, per il discepolo, è del tutto nuova; infatti l’apostolo scrive “siete risorti con Cristo” e, poi, aggiunge immediatamente “la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”. Sono espressioni che vanno meditate, vanno fatte proprie e poi devono plasmare la nostra vita: o la fede è capace di leggere la realtà, a partire da Gesù risorto, o non è fede.

Paolo usa il verbo al tempo presente: “siete risorti con Cristo” e “la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”, per dire che il discepolo del Signore, a Pasqua, attraverso la fede è entrato nella sfera di Dio dove tutto raggiunge la sua pienezza. A Pasqua la realtà di Cristo si inscrive in modo nuovo nella vita dei discepoli; in questo giorno “avviene” ciò che per il mondo è impossibile.

Di conseguenza, a Pasqua, non è sufficiente che il cristiano assuma una condotta di vita differente ma deve partecipare a questa nuova vita, la vera vita che inizia con l’atto di fede e il battesimo, la vita che partecipa della sapienza di Dio.

La saggezza di chi vive la Pasqua testimonia il radicarsi della fede in noi. Non si tratta – come ricorda il Vangelo – di cucire pezze nuove su un vestito logoro ma, piuttosto, servendosi ancora di un’immagine del Vangelo, di indossare l’abito nuziale per partecipare al convito con lo Sposo.

La vita del cristiano è fede nella risurrezione, vita che nasce dall’incontro col Risorto come accadde a Pietro, a Giovanni e ad Andrea oppure incontro (è il nostro caso) che avviene attraverso la testimonianza della Chiesa, come dice Gesù a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani… e non essere incredulo, ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20, 27-29).

Rivestire l’abito nuziale richiede di vivere la fede pasquale: questo è il grande impegno che il discepolo e la comunità sono chiamati a perseguire. La fede è dono alla libertà; è testimonianza, amore, perdono.

Bisogna crescere in umanità: solo percorrendo la nostra umanità, toccandone i limiti, giungeremo dove tutto parla di Dio e dell’uomo; scopriremo di essere parte di un progetto più grande, non nelle mani dell’orologiaio dell’universo ma del Padre di Gesù risorto.

La comunità cristiana si trova di fronte a ciò che è umanamente impossibile e, proprio qui, inizia la sua consapevolezza di fede.

Maria Maddalena, Pietro e Giovanni sono la primitiva comunità cristiana; in essi si dà il cammino per giungere alla fede intesa non come ideologia (in nome di Dio cosa si può arrivare a fare… Bruxelles e Parigi lo dicono!) o vaga consolazione ma come la risposta più vera, più autentica, più consona al sepolcro vuoto e a tutto ciò che ruota attorno ad esso.

Nulla di scontato, nulla di ideologico, nulla di consolatorio nella fede cristiana; ogni cosa è affidata alla libertà dei discepoli e ognuno di loro ha il suo modo per giungere al “sì” della fede. Il cammino di Maria Maddalena è differente da quello di Giovanni e di Pietro.

Paolo esorta a cercare le cose di lassù, per cui la vita del cristiano è segnata dal già e dal non ancora e deve guardare alle realtà penultime ma viste con gli occhi di Gesù risorto. E secondo la logica del giudizio finale, come indica l’evangelista Matteo: “…ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (cfr. Mt 25, 34-36).

Come discepoli e comunità cristiana siamo chiamati a diventare sempre più Chiesa del Risorto. Papa Francesco ci chiede, in particolare, di assumere i cinque verbi che esprimono il contenuto e lo stile ecclesiale – vale a dire: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare – e ripensando così la nostra vita di discepoli e di comunità del Risorto.

È bello aprirsi nella fede a Gesù, il Risorto, dando seguito ai due imperativi paolini – “cercate le cose di lassù” e “rivolgete il pensiero alle cose di lassù” (Col 3, 1-2) -, tenendo lo sguardo fisso su questo mondo e le sue periferie trasfigurandole, ossia sapendole cogliere nella loro consistenza umana più vera per affidarla all’umanità risorta del Cristo.

Per il cristiano si tratta di vivere un tempo che si è fatto breve, per cui “…quelli che piangono [vivono], come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!” (1Cor 7, 29-31).

Auguro una fede “pasquale”, capace di incontrare Gesù Cristo, il Risorto, per poterlo annunciare agli altri con umiltà, forza e convinzione.