Solennità dell’Epifania
(Venezia – Basilica cattedrale S. Marco, 6 gennaio 2017)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle,
la narrazione dei Magi venuti dall’Oriente – come abbiamo appena ascoltato dal vangelo di Matteo – si presenta sobria ed essenziale (cfr. Mt 2, 1-12).
È una certa pietà popolare che l’ha arricchita, ad oltranza, di particolari che sembrano legarla al mondo del folklore e della leggenda; ciò si spiega col desidero e l’affetto di chi vuol conoscere la storia di Gesù anche in quegli aspetti meno noti eppure questa pagina del Vangelo fa parte, a pieno titolo, della rivelazione cristiana e non del folklore o della leggenda.
Infatti sia la storia sia l’archeologia ci pongono di fronte a riscontri inaspettati che una qual certa esegesi, in modo un po’ disinvolto, aveva pensato di cancellare come se i Vangeli dell’infanzia – e non solo quelli – fossero leggendari o, come si preferisce dire, appartenessero a generi letterari mitici.
Invece dalla storia e dall’archeologia sappiamo che nell’antichità, sulle rive del fiume Eufrate, sorgeva la città di Sippar in cui si era sviluppata una prestigiosa scuola dove uomini sapienti coltivavano l’astronomia; essi scrutavano con attenzione i movimenti dei corpi celesti.
L’esattezza dei loro calcoli è stata poi confermata anche dalla scienza moderna; proprio da Sippar, infatti, proviene un coccio di argilla in cui sono riportati i movimenti degli astri dell’emisfero settentrionale, riguardanti l’anno 7 a. C.; durante tale anno, fatto del tutto unico, per ben tre volte, ossia nella tarda primavera, all’inizio e al termine dell’autunno (il 29 maggio, il 1 ottobre e il 5 dicembre), si diede la congiunzione di Giove con Saturno, nel segno dei Pesci; per gli antichi Babilonesi, Giove era il pianeta dei dominatori del mondo, Saturno il pianeta d’Israele mentre il segno dei Pesci, invece, indicava la fine del mondo. E quindi la venuta da quelle terre di uomini versati nel sapere del movimento dei corpi celesti è più che fondato.
Epifaneia vuol dire, semplicemente, “manifestazione” e la Chiesa in tale giorno celebra la condiscendenza di Colui che, nato a Betlemme, è l’Emmanuele, il Dio con noi.
Gesù – il bambino posto su un po’ di paglia a Betlemme – viene da un popolo ben preciso, Israele, ma è dono di Dio per ogni popolo, per ogni epoca, per ogni cultura. Nella lettera ai Romani leggiamo di Israele: “hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rom 9,4-5). Sì, quel bambino è proprio il Dio benedetto, che è sopra ogni cosa, nei secoli.
La liturgia odierna ricorda la prima manifestazione del Mistero e richiama il senso della missione e dell’evangelizzazione. Gesù non è un tesoro da custodire o da nascondere, quasi si tema che qualcuno ce lo porti via; al contrario, lo “teniamo” se lo doniamo, annunciandolo, evangelizzando e vivendo la missione. E questo è atteggiamento che contraddistingue e identifica il discepolo.
Quando Marco narra la scelta dei Dodici, e lo scopo per cui essi furono scelti, ne dà il motivo, vale a dire perché: “…stessero con lui e anche per mandarli a predicare…” (Mc 3,14-15). La preghiera e la missione, per il discepolo, non sono in opposizione ma costituiscono un tutt’uno.
La preghiera, per il cristiano, è lo “stare a tu per tu con Dio”; nello stesso tempo, però, è “apertura agli altri”. Ce lo insegna Gesù nel Padre nostro; infatti, le domande che lo costituiscono non sono poste al singolare, bensì, al plurale: dacci oggi il nostro pane, rimetti a noi i nostri debiti, non ci indurre in tentazione, liberaci dal male.
Il senso è chiaro: già nel momento in cui preghiamo dobbiamo accogliere l’altro, dobbiamo stare con lui; già dicendo “Padre nostro” – e ripetendo più volte quel “noi” – gli altri ci sono presenti; non solo non ci sono estranei ma ci sono realmente intimi.
Sì, oggi tale questione è particolarmente attuale e nella preghiera che Gesù ci ha insegnato vediamo come tutto viene da Dio, il Padre, e la preghiera si pone come lo spazio vitale in cui il discepolo e la comunità stanno di fronte a Dio; anche nella preghiera, quindi, siamo missionari ed evangelizzatori.
Questi saggi, che vengono da Oriente, rispondono alla chiamata di Dio; sono uomini ai quali Dio si manifesta, sono visitati dalla grazia, non sono ospiti sgraditi o tollerati perché, con la loro presenza, mi limitano o limitano il mio rapporto col Signore.
La grazia di Dio – anche se noi spesso ce ne dimentichiamo – è la vera protagonista della nostra storia, come lo fu per Maria, per i pastori e anche per i santi Magi, uomini sapienti che si lasciarono interrogare e scavare dentro; è questo il senso della loro vicenda personale, attualissima per noi oggi.
E proprio questi umili ma decisi ricercatori dell’Assoluto hanno da insegnarci molto; noi che siamo i figli dell’epoca detta post-cristiana, del pensiero debole e dell’era della tecno-scienza, incapaci o, ancor più, disinteressati di fronte alle domande più vere dell’uomo. Sappiamo tutto circa il web, gli ultimi programmi del computer e i cellulari di ultima generazione ma non siamo più interessati alle domande sul destino dell’uomo, sul senso della vita, su che cosa ci sia dopo la morte…
Dio parlò sia alla intelligenza sia al cuore di questi magi, attraverso segni comprensibili secondo la loro cultura e che essi erano in grado di percepire, aprendoli all’incontro col Dio vivo.
Anche noi dobbiamo riscoprire l’intelligenza e il cuore; l’intelligenza, senza il cuore, ci porta a pensare la ragione come ad un assoluto; il cuore, senza la ragione, ci porta a un buonismo che fa male a noi e agli altri. Il piano di Dio creatore ci parla insieme di ragione e di cuore, distinti fra loro ma mai separati.
Così la fede ci viene presentata come scelta, come decisione, anzi come un vero deciderci; sì, i Magi, lasciata la loro vita, la loro terra e le loro occupazioni, partirono.
E la fede è anche questo saper rischiare, un lasciare dietro a sé qualcosa per andare verso una promessa futura non ancora pienamente data. Il Vangelo di Matteo è chiaro, i Magi seguirono un segno: “Abbiamo visto spuntare la sua stella” (Mt 5,2).
Pascal – il grande filosofo e scienziato dell’inizio dell’era moderna – ha delineato questa capacità di cogliere i segni affermando come, nella rivelazione cristiana, vi sia tanta luce che coloro che vogliono vedere vedono e, insieme, vi è tanta oscurità per cui coloro che non vogliono vedere non riescono a vedere. L’uomo, anche dinanzi alla Grazia, rimane libero; un’affermazione che dovrebbe far riflettere coloro che sono usi a discutere per discutere, mettendo al centro il loro sapere e non la Verità e mai si pongono personalmente in questione e pretendono di fare della fede una questione di tipo filosofico o intellettuale.
La fede, invece, è dono! Frase vera, ma che può trasformarsi anche in comodo alibi, soprattutto per gli intellettuali di professione poco inclini ad ascoltare l’interlocutore perché essi, comunque, ritengono di sapere già tutto.
La fede è bene espressa dall‘immagine del viaggio e richiede di incamminarsi, di lasciarsi interpellare e, alla fine, di fare la cosa più difficile: metter in questione il proprio modo di vivere. Ecco il senso del viaggio dei magi: non un comodo girovagare ma un pellegrinare verso una meta che è stata almeno intuita. Recuperiamo il vocabolario cristiano: la vita non è tanto un viaggio, ma un pellegrinare verso Dio.
La vicenda dei Magi ci ricorda, così, che è essenziale avere uno sguardo aperto al Vero – anche se, al momento ci fosse scomodo -; si tratta di saper mutare i propri convincimenti come, dopo non poca fatica, seppero fare i tutti i grandi convertiti.
I Magi sono uomini in ricerca; oggi diremmo uomini che sanno aprirsi all’improbabile, non chiusi nei loro criteri interpretativi a partire da un’idea di ragione posta come assoluto… Uomini che, al contrario, sanno che il sapere prima di tutto è un incontro con il Vero, che richiede l’umiltà di chi sa di non sapere e che non può ridursi, come è accaduto, a un discorso/discussione su un metodo eretto a dogma inconfutabile, per cui ciò che non entra dentro tale metodo “preconfezionato” o è inconoscibile o, addirittura, non-esistente. Un po’ come una certa esegesi che trova nei testi sacri solo quello che ha deciso di trovarvi…
I Magi vanno verso Erode, lo interpellano e ricevono informazioni da uomini colti – i sommi sacerdoti e gli scribi -, uomini che, però, non si lasciano toccare dalle sacre scritture e dalla testimonianza di altri uomini che si presentano loro come pellegrini della Verità.
E, appena i Magi capiscono che Erode, i sommi sacerdoti e gli scribi (il potere e la cultura del tempo) non sono al servizio della Verità, non hanno tentennamenti, non indugiano; quando essi comprendono che la cultura ha scelto di sapere un’infinità di cose ma non di riconoscere la Verità, appena capiscono che il palazzo di Erode è ormai solo un superato richiamo ad una religione-politica che mira solo al consenso per non perdere il potere, ma che non è più il segno della vera regalità di Dio in mezzo al suo popolo, allora, senza indugiare, vanno per la loro strada.
La fede è, quindi, “mettersi in questione”, porsi in cammino, lasciarsi guidare oltre le proprie umane sicurezze; è aprirsi a Dio e alle sue sorprese, ma ciò richiede il cuore libero, come quello dei Magi.
Il tempo liturgico di Natale giunge a pienezza proprio con l’odierna solennità dell’Epifania in cui Dio ci sta innanzi con la Sua volontà di salvezza universale e – come dice Papa Francesco – senza “scartare” nessuno.
Dio, con la sua grazia, ci interpella entrando nei nostri linguaggi e domandandoci solo un cuore libero e disponibile ad iniziare il grande viaggio o, meglio, il pellegrinaggio della vita.
A tutti auguro di aver dinanzi sempre la Vergine Madre – che, nel presepe, adora nella fede il Bambino Gesù -, San Giuseppe, i pastori e i santi Magi, ricercatori e pellegrini di Dio, l’Assoluto.