Omelia del Patriarca nella S. Messa della IV Domenica di Quaresima (Venezia / Santuario diocesano di S. Lucia, 22 marzo 2020)
22-03-2020

S. Messa nella IV Domenica di Quaresima

(Venezia / Santuario diocesano di S. Lucia, 22 marzo 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Carissimi fedeli,

ci ritroviamo per celebrare la quarta domenica di Quaresima con il cuore gonfio di dolore.

Abbiamo ancora negli occhi le carovane di mezzi militari che andavano verso i forni crematori di altre città perché Bergamo non era più in grado di dare questo ultimo servizio ai suoi cittadini, uomini e donne. Bergamo è antica terra di san Marco e, quindi, noi siamo vicini a quella città e a quei territori che ricordiamo in modo particolare, insieme a tutti i nostri morti.

Oggi desidero in modo speciale ricordarli e richiamarli perché alcuni di voi mi hanno scritto in proposito. Flavia, ad esempio, mi ha raccontato che il suo papà se n’è andato in un modo anonimo, perché la situazione attuale non ha consentito nemmeno l’ultimo commiato. Ogni uomo e ogni donna, ogni persona – anche quando ci appare sola e abbandonata – ha una presenza particolare nel Signore. Cara Flavia, sii convinta che al tuo papà non è mancato questo conforto particolare!

Non dimentichiamo, poi, la testimonianza che ci stanno offrendo i nostri medici  e non solo loro. Non c’è aggettivo che possa rendere ragione di quello che stanno facendo medici, infermieri e volontari: che Dio li benedica e che Dio li sostenga in questa loro immane fatica! Con la loro testimonianza ci dicono, infatti, una volta di più che il bene è più forte del male, che la solidarietà e la carità sono più forte dell’individualismo e dell’egoismo. Grazie per questa luce – ve lo dico dalla chiesa che conserva le spoglie di santa Lucia -, grazie di questa luce che siete oggi per noi.

Desidero soffermarmi ora sulla parola di Dio, che oggi è ricchissima, evidenziando soprattutto due semplici punti. Nella prima lettura (1Sam 16,1.4.6-7.10-13), tratta dal primo libro di Samuele, Dio sceglie il più umile, il più insignificante; Dio sceglie colui o colei che gli altri hanno dimenticato.

“Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo…»” (1Sam 16,11). E Dio aveva scelto proprio lui. Non il maggiore o il più prestante. Aveva scelto il più piccolo.

E poi il Vangelo (Gv 9,1-41). «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (versetto 2): è l’interrogativo che i discepoli subito rivolgono a Gesù vedendo questo cieco dalla nascita.

Nella prima lettura Dio ci ricorda, mi ricorda e ricorda alle nostre comunità che ha bisogno, per poter agire nel mondo, degli umili. Ha bisogno che diventiamo umili; è il modo unico in cui lasciamo che Lui agisca nella nostra vita attraverso noi, altrimenti Dio si ritira e, quando Dio si ritira, nascono i problemidegli uomini.

Il tema dell’umiltà, dunque: ridurre il proprio io e lasciare il posto agli altri è il tema quaresimale. Sì, perché la conversione inizia dal mio io, inizia da me. Il profeta Gioele – nel mercoledì delle Ceneri e all’inizio di questa anomala e strana Quaresima che non dimenticheremo mai – ci ricordava: laceratevi il cuore, non gli abiti, non il vestito.

Il ridimensionamento del nostro io inizia dal nostro modo di pensare, anzi dal nostro modo di pensarci e dal nostro modo di parlare. Sulla rete, nelle varie “catene” che legano più persone e che si identificano con il termine amici (forse un termine eccessivo…), quanta supponenza, quante polemiche e quanta aggressività riscontriamo, quanti io fuori del controllo! E poi, alla fine, quante banalità e quanto tempo perso in inutili monologhi! Si finisce per non rispondere neanche agli altri, si continua semplicemente a dire quello che si diceva prima…

Ecco allora l’atto di umiltà: Signore, voglio lasciarmi portare, voglio lasciarmi condurre, accetto d’ora in poi anche i contrattempi, i disguidi e i fraintendimenti della mia vita!

Ma ritorniamo brevemente sul Vangelo e alla risposta di Gesù ai suoi discepoli: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9,3).

Carissimi, il Vangelo stigmatizza così un nostro moto primo e la volontà di trovare sempre, in ogni circostanza, qualcuno su cui scaricare la colpa e la responsabilità, quasi per voler tranquillizzare la nostra coscienza, quasi a dire non c’è un colpevole che sia io, io non lo sono, mi posso chiamare fuori, io posso stare tranquillo. Torna quindi ancora fuori il nostro io, il nostro metterci al sicuro; a me non può capitare, se a lui è capitato ci sarà un motivo… E invece noi siamo al sicuro solo se ci abbandoniamo a Dio e ci lasciamo condurre da Lui. Capiamo, dunque, il senso della risposta di Gesù.

Il Vangelo secondo Giovanni che ci accompagna a Pasqua ci sta presentando una serie di incontri con Gesù, incontri che cambiano la vita delle persone, perché è l’incontro con Gesù che cambia. Domenica scorsa la samaritana, oggi il cieco nato: gli incontri con Gesù non sono mai delle passeggiate tranquille o tranquillizzanti ma sono degli incontri-scontri che cambiano la vita.

Ricordate domenica scorsa quello con la samaritana? “«Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito…»” (Gv 4,16-17).

Riprendete oggi questo bel Vangelo del cieco nato, magari un po’ lungo ma ogni parola è soppesata. E cogliete soprattutto il crescendo. Il cieco prima riconosce in Gesù l’uomo che lo ha guarito: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista» (Gv 9,11). Poi, di fronte alla domanda incalzante dei farisei e degli scribi, aggiunge: «È un profeta!» (Gv 9,17). C’è quindi il punto decisivo, l’incontro finale con Gesù: “«Tu, credi nel Figlio dell’uomo?» [Figlio dell’uomo – attenzione! – è l’unico titolo, l’unico nome, che Gesù ha attribuito a se stesso nel Nuovo Testamento; non si è mai chiamato in altro modo e quindi questa è la sua manifestazione divina]. Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui” (Gv 9,35-38).

Carissimi, il Covid-19 ha toccato molti personalmente nei loro affetti, nel loro modo di intendere la vita – iniziando da ciò che è più “esterno”, come gli stili di vita – ma soprattutto il Covid-19 ci toccherà dentro e ci lascerà diversi da come ci ha trovati personalmente e come società.

Il Covid 19 – quando se ne andrà, perché se ne andrà, e la nostra preghiera può abbreviare la sua vita in mezzo a noi – ci lascerà diversi. Non più l’uomo che si illudeva di avere le risposte a tutte le domande e la soluzione a tutti i problemi, anzi… l’uomo che pensava di essere lui la soluzione di tutti i problemi, l’uomo che credeva di essere Dio! Quest’uomo rimarrà – almeno per un po’ di tempo – sepolto e speriamo a lungo perché noi uomini non impariamo mai la lezione del bene.

Scopriremo che essere uomini, essere uomini moderni e progrediti, vuol dire scoprire la propria creaturialità, vuol dire riscoprire anche i propri limiti, riscoprire che abbiamo bisogno degli altri e riconoscere che non nell’intelligenza, nell’efficientismo, nella prestanza fisica o nella grande personalità c’è l’uomo veramente rinnovato ma nell’incontro personale con gli altri, nel camminare insieme agli altri, amando di più la nostra comunità, forse chattando un po’ di meno a colpi di monologhi saccenti ed imparando ad ascoltare di più chi ci parla, non in un contatto virtuale ma nell’incontro reale.

Covid-19 ci porterà, insomma, a mettere in questione molte cose come uomini e come cristiani, iniziando dall’uomo concreto e reale, rispettandolo nel suo mistero – dal concepimento fino alla sua morte naturale -, accogliendolo quando ha bisogno e bussa alla nostra porta senza troppi “se” o troppi “ma”. Ci lascerà diversi anche come comunità cristiane, come credenti, annunciando un Vangelo che abbia sempre al centro il Signore Gesù – senza troppe ermeneutiche o aggiustamenti umani teologici, psicologici o sociologici – e ad iniziare da Gesù.

Chiediamo – attraverso l’intercessione di santa Lucia – che il Signore accolga nella sua pace i nostri morti, lenisca il dolore ai loro familiari, sostenga i nostri medici, gli infermieri, i volontari e tutti noi, certi che ce la faremo e saremo capaci di un’umanità nuova e di un discepolato migliore.

Ricordiamo e facciamo nostro il monito di san Paolo alla Chiesa di Roma: “Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12).

Papa Francesco e la Penitenzieria Apostolica – su mandato del Santo Padre – ci hanno richiamato al valore dell’atto di amore perfetto che ci può riconciliare con Dio; è il valore grande dell’indulgenza, il perdono più grande che la Chiesa possa donare ai suoi figli, soprattutto nel momento della grande difficoltà che stiamo vivendo.

Coraggio a tutti e santa Lucia interceda per noi!