S. Messa della Carità con gli operatori delle realtà di volontariato e dei servizi caritativi della Diocesi
(Mestre / Chiesa parrocchiale S. Maria Immacolata di Lourdes, 18 dicembre 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Vorrei innanzitutto ringraziare il parroco don Mirco per l’ospitalità; ringrazio, quindi, il vicario episcopale don Dino e il diacono Stefano perché si prendono cura di un settore così importante: la carità.
La carità è nulla di meno che la vita intima di Dio. E noi siamo allora chiamati – soprattutto voi che operate tutti i giorni in questo settore – a dare, attraverso il vostro stile di operare, un’immagine vera e vivente di Dio. Dobbiamo, perciò, dobbiamo guardarci da tutte quelle traduzioni della carità che guardano solo all’efficienza e alla pianificazione.
Certo, bisogna anche essere efficienti, bisogna progettare e pianificare ma guai se il discepolo del Signore e guai se la Chiesa si limitasse a questo, pur necessario! La carità richiede anche, ad esempio, la puntualità di un servizio reso nel momento del bisogno ma la carità non è mai soltanto questa efficienza; è qualcosa di più.
La liturgia di questa domenica ci aiuta perché le letture ci mettono in guardia dal considerare il Natale come una costruzione umana o il risultato del nostro impegno umano. Le protagoniste del Vangelo di oggi, in particolare, sono due donne. E, quindi, due “scartate” perché essere donna, al tempo di Gesù, voleva dire qualcosa di meno rispetto agli uomini.
La vera ricchezza di una donna era la maternità e noi ci troviamo di fronte a due donne che, invece, per necessità o per scelta sono in una via diversa. Elisabetta era sterile e non aveva avuto figli; la Vergine Santissima, invece, aveva fatto una scelta: una donazione totale al Signore. Questi due grembi divenuti fecondi – il grembo di Elisabetta e quello di Maria – ci annunciano il Natale. Elisabetta porta in grembo il “precursore”, colui che indicherà Gesù; la Vergine Santissima porta l’Emmanuele, il Dio con noi. Ma entrambi questi grembi fecondi sono portatori del dono di Dio.
Elisabetta raggiunge il dono della maternità ormai vecchia, quando una donna non ha l’ètà di generare, e portando in sé una storia di sterilità. Essere donna era già complicato, all’epoca dei fatti di cui parliamo; essere madre “mancata” voleva dire essere un fallimento totale. La Vergine Santissima, invece, in un’età che probabilmente era intorno ai 15/16 anni, aveva fatto una scelta di appartenenza al Signore e, quindi, di povertà e dono totale di sé.
Ecco, il Natale non è il risultato, non è un prodotto di un fare degli uomini; è l’irruzione di Dio, è il dono di Dio, è Dio che viene. E Maria è colei che permette che il Verbo di Dio venga in mezzo a noi. La verginità di Maria è il sigillo di Dio e dice che Gesù è di Dio, viene da Dio.
D’altra parte, Gesù è il Verbo eterno del Padre, il Figlio eterno dell’Eterno Padre: come poteva, Colui che prendeva carne essendo il Figlio eterno dell’Eterno Padre, chiamare sulla terra “padre” un uomo in altro modo vero e reale?
Il Natale è questo dono, è questo cambiamento di prospettiva, è questo sollevare – come dice Maria nel Magnificat – gli umili dalla polvere. Il Natale, allora, è incominciare a ragionare secondo una prospettiva che il mondo non accetta.
Il mondo è in mano ai potenti; all’epoca di Gesù, più di adesso, è in mano agli uomini e le donne che si affermavano erano quelle che mettevano al mondo tanti figli e, soprattutto, erano le regine. La Vergine Santissima è una semplice fanciulla di Nazaret e i Vangeli ci fanno ben capire come era considerata la città di Nazaret…
Quando Gesù è ormai adulto, inizia la vita pubblica e incontra i suoi discepoli per la prima volta. Ad un certo punto uno di questi discepoli, che Gesù aveva incontrato, incontra un altro e gli dice: “«Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?»…” (GV 1, 45-46). E il profeta Michea, di cui abbiamo ascoltato la lettura, dice: “E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele….” (Mic 5,1).
Capiamo così la logica del Natale e la logica della carità che vanno al di là dell’organizzazione, pur necessaria e pur importante, ma che ci fa rimanere sul piano della realizzazione umana; la carità, invece, è qualcosa che viene da Dio. Ecco perché, allora, chi opera nel settore della carità è prima di tutto un uomo di preghiera e non un assistente sociale.
Madre Teresa di Calcutta – che sarà prossimamente canonizzata -, quando era ancora in forza, quando poteva accudire ancora la comunità e soprattutto le giovani suore, chiedeva una cosa alle novizie delle suore della carità prima che uscissero la notte per le strade di Calcutta a tenere la mano ai morenti; non si parlava, quindi, di guarire o ridare la salute ma, semplicemente, di accompagnarli nelle ultime ore di vita. La carità deve arrivare a questo e, stiamo bene attenti, perché stiamo andando verso una società che capisce sempre di meno la fragilità dell’uomo. E l’uomo fragile disturba, dà fastidio, lo si vuole rimuovere…
Madre Teresa chiedeva alle sue suore, prima che andassero per le strade di Calcutta, due ore di adorazione. E una novizia, una volta, tornando alle prime luci dell’alba, quando ormai la mattina era prossima, incontra la madre che è già in piedi e le dice: “Madre, ieri sera per due ore sono stata di fronte al corpo di Cristo nell’Eucarestia e poi ho toccato le ferite di Cristo in tutti i fratelli che ho incontrato questa notte”.
La carità è l’inizio; è l’unico modo cristiano di incontrare i fratelli e di fasciare le loro ferite. Perché chi ama non si limita a fasciare le ferite dei fratelli, ma arriva anche a baciarle.