Omelia del Patriarca nella S. Messa della 41^ Convocazione nazionale dei Gruppi e Comunità del Rinnovamento nello Spirito Santo (Pesaro, 29 aprile 2018)
29-04-2018

S. Messa nella 41^ Convocazione nazionale dei Gruppi e Comunità

del Rinnovamento nello Spirito Santo

(Pesaro, 29 aprile 2018)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

 

Cari amici e amiche dei Gruppi e Comunità del Rinnovamento nello Spirito Santo,

viviamo questa eucaristia come dono dello Spirito.

Il tema della Convocazione Nazionale: «Gesù lo vide e ne ebbe compassione… lo portò in una locanda e si prese cura di lui… E disse: va’ e anche tu fai così» è attualissimo. Segna, infatti, un prezioso percorso per i singoli e le comunità; tutto, qui, ha origine dal Vangelo. Un progetto di vita che chiede di ripensare se stessi e le proprie comunità a partire dall’essenziale, il Signore Gesù e il Suo Vangelo.

La prima lettura di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli (cfr. At 9,26-31), ci pone innanzi la figura di Paolo che, dopo l’incontro/scontro con Gesù sulla via di Damasco, diventerà per la Chiesa il testimone concreto, vivo, reale di quanto la grazia di Dio possa compiere; la conversione di Damasco dice anche a noi oggi quanto Dio, con la sua misericordia, può realizzare nella vita di una persona.

Così Paolo da primo persecutore diventa il primo evangelizzatore, come lui stesso non lo sa. E rimane confuso di fronte alla grazia dello Spirito: «…non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15,9-10).

La buona notizia è proprio questa: la Chiesa e noi uomini possiamo sempre contare sul dono dello Spirito e sulla grazia che tutto rinnova in Dio.

La vita spirituale, ordinariamente, si sviluppa secondo tempi e modi dell’uomo che ha bisogno di pensare, conoscer, decidere; ogni crescita si svolge in modo progressivo e chiede la collaborazione dell’uomo. Così la vita di grazia è, ordinariamente, legata alle esigenze della storia, ossia, del tempo e dello spazio.

Ma la grazia di Dio non è prigioniera del tempo e dello spazio; lo Spirito irrompe con la sua forza creatrice. Così è avvenuto per Saulo che, sicuro di sé, si reca a Damasco con lettere del sommo sacerdote per condurre prigionieri i seguaci della nuova e nefasta credenza ma, in tale cammino, si scontrerà con chi è più forte di lui e verrà rinnovato totalmente; da quel momento, sarà un altro.

Paolo è il risultato della pura grazia che libera dall’uomo vecchio. La sua conversione sorprende i discepoli, li trova impreparati, li lascia attoniti. Tale cambiamento nella vita di Saulo sconcerta e spaventa i discepoli che faticano a credere ai loro occhi, non riescono a capacitarsi dell’opera inattesa e potente di Dio, in altre parole, delle sorprese dello Spirito Santo.

Sono significative le parole di Anania: «“Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti quanto male ha fatto ai tuoi fedeli a Gerusalemme. Inoltre, qui egli ha l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome”. Ma il Signore gli disse: “Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele…”» (At 9,13-15).

Già il libro di Isaia – nell’Antico Testamento – afferma che tutto, uomini e vicende, avvenimenti piccoli e grandi della storia, sono saldamente nelle mani di Dio; ciò significa che l’ultima parola è Sua e che, alla fine, tutto non dipende dalla forza e dalle decisioni degli uomini ma di Dio: « …i miei pensieri – ricorda il profeta – non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie… Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is. 55,8-9).

Con la seconda lettura di oggi – tratta della prima lettera di Giovanni – possiamo realmente gioire che il cuore di Dio, che conosce ogni cosa, è più grande del cuore dell’uomo (Cfr. 1Gv 3, 20).

Quindi lo Spirito sempre precede e stupisce i discepoli che non si capacitano di una novità che li supera da ogni parte; lo si evince dalla prima lettura di oggi: «(Paolo) venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù» (At 9,26-28).

Lo Spirito opera sempre nella Chiesa e ci domanda di lasciarci condurre e non di voler essere noi a condurre, di fidarci e non di pretendere garanzie umane, di amare gratuitamente senza domandare il prezzo, di perdonare senza attendere il contraccambio.

La Pentecoste è evento continuo di cui spesso non teniamo conto; i due libri del Nuovo Testamento che, seppure in modi diversi, trattano della storia della Chiesa, pongono all’inizio di tutto lo Spirito che sarà la guida dei discepoli fino al ritorno di Gesù.

Gli Atti degli Apostoli pongono subito dopo il primo capitolo – in cui si attesa l’adempimento della promessa di Gesù – l’evento della Pentecoste, il dono dello Spirito: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2, 3-4)

L’Apocalisse, il libro dei sette sigilli, inizia, rimarcando a sua volta, l’azione dello Spirito che afferra il veggente: «Io, Giovanni… mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente…» (Ap 1, 9-10).

Carissimi, la parabola del buon Samaritano (cfr. Lc 10, 30-37) – a cui si ispira la vostra quarantunesima Convocazione nazionale – presenta, in modo concreto, il tema della compassione, del prendersi cura dell’altro. I discepoli sono chiamati e mandati a farsi carico del prossimo, non come fossero psicologi o sociologi ma come discepoli del Signore, come Gesù ha fatto e come vuol continuare a fare attraverso i suoi discepoli.

Questi temi oggi – nella società dell’immagine, del benessere, del guadagno, dell’individualismo – vengono largamente “silenziati” e per questo se ne avverte l’urgenza: <<Gesù lo vide ne ebbe compassione… lo portò in una locanda e si prese cura di lui… E disse: va’ e anche tu fai così>>. La nostra società ha bisogno di buoni samaritani!

La parabola di Luca non è, innanzitutto, suscettibile di lettura morale. Essa ha valenza teologica, come già mostrarono i Padri della Chiesa. Nella parabola del buon Samaritano, infatti, è racchiusa l’intera storia della salvezza: la caduta dell’uomo, il suo incontro salvifico col Samaritano per eccellenza, il Signore Gesù, l’albergo ossia la Chiesa a cui il buon Samaritano – Gesù – affida l’umanità ferita e sofferente in attesa del suo ritorno e secondo tale logica si comprende anche il giudizio come è presentato nel vangelo di Matteo (cfr. Mt 25, 31-46).

Questa parabola, nel suo significato teologico, ci chiede di andare oltre la lettura morale che, da sola, potrebbe anche cadere nel moralismo, riducendo la vita dei discepoli a etica o ideologia. Pericoli da cui Papa Francesco – citando il suo predecessore – mette in guardia dall’inizio del pontificato; leggiamo nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”» (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n.7).

La vicenda del buon Samaritano e del povero malcapitato – tratteggiata con sapienza e carità nel Vangelo di Luca – segna per i discepoli un nuovo inizio, un nuovo percorso, una nuova modalità d’azione che lo conducono oltre la mera solidarietà umana, l’interesse e l’amore per l’uomo.

Noi siamo chiamati ad essere qualcosa di più che esteriori imitatori di Cristo; infatti, in quanto battezzati, siamo “altri” Cristi, radicati in lui. In tal modo, oltre a esser tutti debitori dell’unico buon Samaritano, il Signore Gesù, quando ci prendiamo cura gli uni degli altri, perché Lui l’ha voluto, ci rende suoi creditori, creditori dell’unico buon Samaritano.

Il giudizio secondo Matteo è chiarissimo e rivolta il nostro modo di pensare e rapportarci al prossimo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”… I giusti risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25, 34-40).

Così ogni uomo è, innanzitutto, debitore verso di Lui, il Signore Gesù, e, poi, compiendo un gesto di carità diventa – poiché Lui l’ha voluto – creditore nei Suoi confronti; sì, per grazia, ogni uomo è debitore e creditore dell’unico Buono, il Signore Gesù.

Sant’Agostino – il dottore della grazia – trattando del comandamento nuovo ne parla non in termini moralistici ma in modo teologico e spirituale: “…ci ha amati, perché anche noi ci amiamo a vicenda. Ci amava e perciò ha voluto che ci trovassimo legati da reciproco amore, perché fossimo Corpo del supremo Capo e membra strette da un così dolce vincolo” (Tratt. 65, 3; CCL36, 492).

Il Papa, nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, si riferisce proprio al testo di Matteo e prende come esempio san Benedetto che non ebbe timore di “complicare” la vita dei suoi monaci quando stabilì nella Regola che quanti si presentavano alle porte del monastero dovevano esser accolti come Cristo riservando loro gesti espressivi di adorazione poiché ogni pellegrino doveva essere trattato con massima cura e sollecitudine (cfr. Papa Francesco, Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, n. 103).

Poco prima il Santo Padre aveva messo in guardia dal trasformare il cristianesimo in una sorta di ONG citando figure di grandi santi della carità – Francesco d’Assisi, Vincenzo de Paoli, Teresa di Calcutta – o sottolineando come questi e altri santi non considerarono la preghiera e l’amore di Dio come un ostacolo al loro donarsi al prossimo ma, piuttosto, la ritennero un aiuto potente (cfr. Papa Francesco, Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, n. 100). Inoltre – e sono ancora parole di Papa Francesco – appartiene a una visione ideologica considerare l’impegno sociale degli altri qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, “comunista” o populista oppure banalizzarlo relativizzandolo (cfr. Papa Francesco, Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, n. 101).

Il Vangelo di questa quinta domenica di Pasqua, la vite e i tralci (cfr. Gv 15, 1-8), ci ricorda come Gesù sia la vera vite mentre noi siamo soltanto tralci che non possono vivere recisi dalla vite; essi perdono subito il vigore, seccano e muoiono e soltanto se rimangono inseriti nella vite vivono. Comprendiamo, quindi, che essenziale per il cristiano è rimanere unito al Signore; per usare le parole del quarto vangelo: dimorare con Lui, abitare con Lui. Infatti, alla domanda dei primi discepoli – “Dove abiti?” -, Gesù risponde “Venite e vedrete” e quel giorno rimasero con Lui (cfr. Gv 1,38-39).

L’invito di Gesù è un’esplicita richiesta di conversione: lasciare tutto e seguirlo, venire a stare con Lui, abitare con Lui. Si tratta di far esodo da sé per andare verso Gesù, rimanere con Lui, ossia accogliere la grazia dello Spirito secondo la Sua promessa: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio» (Gv 15,26-27).

È lo Spirito che dà testimonianza a Cristo e lo rende presente nei discepoli; così, essi diventano un tutt’uno con Lui e quindi potranno dare testimonianza. In tale prospettiva il tema della vostra quarantunesima Convocazione è un percorso gioioso di conversione e di vita secondo lo Spirito: <<Gesù lo vide ne ebbe compassione… lo portò in una locanda e si prese cura di lui… E disse: va’ e anche tu fai così>>.

Ora per poter fare lo stesso anche noi volgiamoci a Colei che è la Mistica Sposa dello Spirito Santo, Colei che è “piena di grazia”; Ella è scuola viva di misericordia, nel suo cuore verginale e materno, vasto come il mondo; in Lei hanno trovato e trovano eco potentissima tutte le miserie, le angustie, le fragilità, le ferite degli uomini. Non si può immaginare un modello di misericordia più alto dopo Gesù Cristo.

Maria, Madre di misericordia, prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte. Amen!

A tutti auguro di accogliere una rinnovata e abbondante effusione dello Spirito Santo, riscoprendo la grazia del santo battesimo, ovvero l’identità cristiana.