Omelia del Patriarca nella S. Messa con il mondo delle Università veneziane in occasione del Giubileo della Divina Misericordia e l’inizio dell’Anno accademico 2016/17 (Venezia / Basilica di San Marco, 12 ottobre 2016)
12-10-2016

S. Messa con il mondo delle Università veneziane in occasione del Giubileo della Divina Misericordia e l’inizio dell’Anno accademico 2016/17

(Venezia / Basilica di San Marco, 12 ottobre 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

Chiarissimi docenti,

Gentili operatori dell’ambito amministrativo e tecnico,

Carissimi studenti,

a voi tutti il benvenuto e l’augurio perché possiate vivere toto corde la grazia del momento presente. Il dono giubilare della Misericordia è per ciascuno di voi e vi interpella uno ad uno e come comunità scientifica.

La liturgia di oggi – mi riferisco all’epistola  ai Galati – ci offre l’opportunità di riflettere insieme su alcuni temi cari all’apostolo Paolo.

Egli sottolinea la piena gratuità della giustificazione (la fede) e insieme  il forte legame tra fede e carità  (le opere). Così, a ben vedere, non c’è opposizione tra l’apostolo Paolo (la fede) e l’apostolo Giacomo (la carità). Nella stessa lettera ai Galati, poco prima, Paolo era stato esplicito: “…in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6).

La fede che si rende operosa nella carità è sintesi compiuta che include grazia e libertà, dono di Dio e responsabilità dell’uomo.

Paolo pone in evidenza, nella vita del cristiano, il dono di Dio e l’operosità dell’uomo e traccia un quadro antropologico articolato quando delinea le opere della carne e dello spirito. Per Paolo carne vuol dire l’uomo vecchio che si costruisce al di fuori e, anzi, contro il progetto di Dio; l’uomo secondo lo Spirito è, invece, l’uomo in Cristo.

Soffermiamoci sulle opere che sono frutto dell’azione dello Spirito: “…amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,22-25).

L’elenco inizia con l’amore (agápē) e termina col dominio di sé; giustificati gratuitamente nella fede, riceviamo così il dono dell’amore che richiede, però, il dominio di sé. Poco dopo, Paolo precisa come l’amore deve esprimersi nel servizio: “Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2).

Si tratta di tener insieme la gratuità della fede che giustifica e l’operosità dell’amore che si esprimono nel sì operoso, detto nel quotidiano, ossia nell’umiltà di chi sa d’esser salvato e ha la consapevolezza di chi opera nel responsabile del dono di sé.

La Chiesa-comunità di Corinto, invece, ha gravemente ecceduto, fraintendendo la logica del Regno e così è facilmente e (purtroppo) infelicemente è passata dalla consapevolezza della gratuità della giustificazione, in Cristo, attraverso la fede ad una libertà autoreferenziale e anarchica propria di chi ritiene che tutto gli sia dovuto. E ciò si mostra massimamente nella celebrazione eucaristica che, al contrario, dovrebbe esprimere anche visibilmente l’unità della Chiesa.

Paolo, al contrario, constata – con dolore – e deve rimproverare: “…non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1 Cor 11,17-20).

La conoscenza secondo la carne – quella dell’uomo vecchio – e la conoscenza secondo lo spirito – dell’uomo in Cristo – è presente pure nella prima lettera ai Corinti dove Paolo conclude la sua riflessione sulla vera sapienza in modo autorevole e fermo, dicendo on semplicità:“…Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).

L’Apostolo qui non allude, però, alla differenza fra sapere della fede (teologia) e i differenti e molteplici saperi umani (filosofia, scienze, arte, lettere ecc.). No, Paolo parla qui dei due atteggiamenti fondamentali dell’uomo.

Da un lato c’è la sapienza del mondo, ossia dell’uomo vecchio, che va per la sua strada, secondo criteri personali, fuori dal progetto di Dio, seguendo le opinioni mondane dominanti, partendo dai criteri di maggioranza, del successo, del potere e presentati attraverso il “mantra” dell’evoluzione dei tempi che richiede di adeguarsi, non si sa poi a che cosa e perché…

Dall’altro, c’è la sapienza di Dio che consiste, invece, nel seguire il pensiero di Cristo che ci apre gli occhi del cuore per seguire la strada della Verità e dell’Amore, a prescindere da un pretestuoso rifarsi all’evoluzione dei tempi.

Nel primo caso si tratta di un modo di vivere e guardare le cose a prescindere da Dio, dalla croce di Cristo, seguendo – come detto – le opinioni dominanti. La radice di tutto è l’autoreferenzialità che fu di Adamo e di Eva che da credito a Cristo, al suo pensiero e alla sua croce e che “è scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22-24). Dio è più forte degli uomini!

Paolo non intende qui, in alcun modo, ridurre la portata della ragione e prender le distanze da un impegno culturale che per il cristiano è doveroso, chiamato come è, a servirsi dell’intelligenza per umanizzare il mondo.

L’Apostolo non intende sottovalutare il compito e anche la necessità del sapere nella vita degli uomini e qui si pone non sul piano dell’uso della ragione e dell’impegno intellettuale ma su quello che precede un tale sapere umano; è il piano della Sapienza – la sapienza con la S maiuscola – e Paolo denuncia qui il vecchio fermento della falsa sapienza, l’orgoglio.

Ciò che fa male all’uomo non è la conoscenza in quanto tale, ma il vantarsi di essa, come l’uso peccaminoso che l’uomo può fare delle sue conoscenze. Insomma, la ragione e l’intelligenza hanno sempre bisogno di essere purificate per consegnare sempre e di nuovo l’uomo alla pienezza della sua umanità, ovvero, l’uomo nuovo costituito in grazia.

Di fronte a questa celebrazione giubilare, offerta a chi opera nell’ambito universitario, dove i molteplici saperi umani sono chiamati a comporsi in una sinfonia – ecco l’Universitas – per un nuovo umanesimo, chiedo con forza che si rifletta sulla sapienza che precede questi saperi umani.

E qui riascoltiamo la preghiera o, meglio, il grido orante di Paolo che, nella lettera ai Romani, esprime  la richiesta di questo sapere previo che viene prima di ogni altro sapere: “Io so infatti  –  esclama l’Apostolo – che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato” (Rm 7,18-25).

Sì, carissimi, il Giubileo rivolto a voi che, a vario titolo, operate nell’ambito dell’Università – come docenti, ricercatori, personale amministrativo e tecnico e come studenti – vi permetta, attraverso l’intercessione della Vergine Nicopeia, che fra le sue braccia stringe la Sapienza del Padre, di far vostro quanto l’apostolo Paolo ci ha ricordato sulla divina Sapienza e sugli umani saperi.