Omelia del Patriarca nella S. Messa con i Vescovi del Triveneto e la comunità monastica delle “Adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento” nella Certosa di Vedana (Sospirolo / Belluno, 6 aprile 2019)
09-04-2019

S. Messa con i Vescovi del Triveneto e la comunità monastica delle “Adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento” nella Certosa di Vedana

(Sospirolo / Belluno, 9 aprile 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Care sorelle, cari fratelli,

questa nostra assemblea esprime veramente l’immagine della Chiesa. In modi diversi, infatti, qui vediamo i vari capitoli della Lumen gentium: il ministero ordinato, la vita consacrata, la vita laicale. Speriamo che non manchi soprattutto il quinto capitolo: la vocazione universale alla santità.

La cosa importante è che, con vocazioni diverse, tutti guardiamo l’unico Signore, ci nutriamo dell’unica Parola e, soprattutto, sappiamo che la parola di Dio non è un fatto letterario e neppure ci ricorda dei fatti storici ma la parola di Dio che risuona in un’assemblea – soprattutto liturgica – crea una storia, crea la nostra storia con Dio. Ed è importante ripetercelo nel tempo quaresimale, ormai nell’imminenza della Settimana Santa; se la parola di Dio crea, dunque, la nostra storia con Dio noi siamo il popolo che mormora (cfr. Nm 21, 4-9; prima lettura del giorno).

Abbiamo infatti ascoltato la prima lettura tratta dal libro dei Numeri che, in ebraico, è intitolato: “Nel deserto”. Il deserto è il luogo dove Israele fa esperienza di Dio, fa l’ esperienza più alta di Dio e tutta la storia di Israele tornerà sempre a quel ricordo, a quella nostalgia in cui Israele tocca con mano la presenza del Signore, ha l’intimità massima con Lui eppure… Lo tradisce.

Ieri, nella bella lectio divina che ci ha tenuto il Vescovo Renato, abbiamo visto come l’adultera siamo noi – la Chiesa – ma c’era anche la bella figura di Susanna nella liturgia di ieri e Susanna è Israele. Non è soltanto un episodio morale come non è un episodio morale quello dell’adultera; la parola di Dio non ci è data prima di tutto e soprattutto come fatto etico ma per fare comunione di fede con Dio e leggerci in quella storia, vivere quella storia. Susanna, così, è Israele che si affida al Signore e fa l’esperienza di essere tradita da quei due vecchi giudici che avrebbero dovuto garantire Israele poiché il mistero del male esiste anche nei discepoli e nelle discepole del Signore.

Oggi Israele mormora e si ribella di fronte alla morte che viene dai serpenti, secondo delle immagini legate alla religione tradizionale dell’epoca ma la Sacra Scrittura ci dice che dal serpente innalzato viene la vita. E quindi la salvezza non si realizza mai in modo automatico ma coinvolgendo l’uomo; da dove viene il male, Dio vuole che venga il bene. E così avviene anche attraverso la missione che Gesù dà all’adultera: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

La stessa samaritana, dopo aver incontrato Gesù, diventa evangelizzatrice; la parola di Dio è sempre una parola di perdono, di misericordia, di missione. Oggi la vita viene da ciò che aveva turbato l’uomo, l’uomo che è stato il no detto a Dio; si passa così attraverso l’albero della Genesi, la croce, Cristo, Eva / Maria, Adamo / Cristo, la disobbedienza che diventa obbedienza poiché, ci ricorda san Paolo, “dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20). Questa è la grande legge della redenzione e della storia della salvezza. Il canto al Vangelo ci ha ricordato che il seme è la parola di Dio e il seminatore è Cristo; è Lui che semina, non siamo noi, e chiunque trova Lui ha la vita eterna.

La religione profetica, quella di Israele, non è la religione dell’uomo. Quella a cui noi oggi assistiamo è, invece, religione dell’uomo; non più l’incontro con Dio ma l’incontro con se stessi, non più il bene come grazia che possiamo fare ma il benessere fisico e psicologico. Dobbiamo, allora, ritornare proprio in quella religiosità che è il rapporto con Dio.

Israele, solo dopo molto tempo, si pone la questione della salvezza ultraterrena, si pone subito il problema di chi è Dio e noi dobbiamo ritornare a questa religiosità che è la religiosità profetica, all’incontro drammatico con Dio (v. la donna adultera, la samaritana, il popolo che mormora ecc.); è proprio della gnosi la tranquillità e la santità di chi si sente a posto con se stesso in un benessere fisico e psicologico.

Nel Vangelo di oggi colpisce la parola di Gesù: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato…» (Gv 8,21). Colpisce soprattutto se confrontata con la frase detta da Gesù all’inizio dello stesso Vangelo secondo Giovanni quando ci sono due che lo seguono, due che sono ancora anonimi, ed ecco Gesù che si volge e chiede: «Che cosa cercate?». Giovanni ed Andrea rispondono: «Maestro, dove dimori?» (Gv 1,38). E Gesù li invita: «Venite e vedrete» (Gv 1,39).

Colpisce come Gesù ritorna in questa diatriba con i farisei; vuol dire, allora, che c’è un modo sbagliato di cercare Dio e la fede può diventare una religione strumentale, l’appagamento di se stessi  in mille forme.

Il Vangelo ci ricorda poi ancora la domanda fondamentale: chi è Gesù? È la domanda della fede, è la domanda della nostra vita, è la domanda che segna quella cesura del Vangelo e che viene posta a Pietro che non è tutta la Chiesa ma è lì a rappresentare la fede della Chiesa: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13).

Il Vangelo di oggi termina, infine, ricordandoci che solo quando Gesù sarà innalzato noi conosceremo la sapientia crucis, la sapienza di Dio. La croce è un fatto trinitario; è il grande mistero che la liturgia esprime nella dossologia con cui termina il canone. La preghiera liturgica non è mai una domanda e basta, non è solo un grido di angoscia, non è solo un ringraziamento ma è l’ opus Dei, lo stare di fronte a Dio con Cristo, per Cristo, al Padre nello Spirito.

Chiediamo al Signore che questi giorni che ci separano dalla Settimana Santa ci permettano di entrare in questo grande mistero e di rispondere almeno un poco a questa domanda: chi è Gesù?