Omelia del Patriarca nella S. Messa con i seminaristi del Triveneto e i loro educatori (Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 10 dicembre 2022)
10-12-2022

S. Messa con i Seminaristi del Triveneto e i loro Educatori

(Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 10 dicembre 2022)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

Carissimi seminaristi e formatori dei Seminari del Triveneto,

benvenuti in questa basilica cattedrale che custodisce le spoglie dell’evangelista Marco che ha raccolto e trasmesso la predicazione dell’apostolo Pietro. L’evangelo è poi – come ben sappiamo – lo spazio ecclesiale dove la Tradizione si unisce all’ispirazione e diventa la Parola di Dio.

Dai mosaici dorati che raffigurano la storia della salvezza viene l’invito a vivere in modo personale e comunitario il tempo d’Avvento; il Signore, infatti, è venuto e continua a venire.

L’Avvento non è attendere come si fa alla fermata dell’autobus ma, piuttosto, è ricercare Dio e, prima di tutto, lasciarsi trovare da Lui; il rischio è vivere un Natale senza Gesù!

Le letture della terza domenica d’Avvento donano una luce particolare al cammino di questa vostra giornata.

La prima lettura (Is 35,1-6.8.10) è un incoraggiamento, è un richiamo alla speranza rivolto al popolo d’Israele; l’invito è a sollevarsi e guardare le realtà nuove che il Signore prepara per chi lo attende, ossia per chi lo ricerca e si lascia trovare da Lui. È un’esortazione rivolta a tutto il popolo d’Israele, non ai “singoli”, perché è il popolo ad essere salvato; è questo il senso del ritorno dall’esilio a Gerusalemme.

In ogni vocazione è essenziale la dimensione personale: la chiamata interpella il singolo ma, nello stesso tempo, è sempre un io in relazione, aperto al tu, al noi, alla comunità. La rivelazione cristiana, inoltre, presenta la vocazione sempre all’interno di una comunità piccola o grande che sia.

Il Seminario è questa piccola ma importante comunità che funziona se tutti si mettono in gioco con fede, umanità, umiltà, creatività.

Il Seminario è chiamato, quindi, a formare alla vita comune. La vita comune s’apprende, è un’arte, è un modo di essere e di vivere, dice – insieme ad altre virtù – l’attitudine al ministero presbiterale. La vita comune in Seminario ha motivazioni e scopi differenti da quella della vita dei religiosi; essa, infatti, plasma in vista dell’esercizio del ministero.

Una precisazione ci aiuta: la parola “ordo” deriva da “ordines” che, nel linguaggio giuridico romano, indicava le suddivisioni della società; in seguito indicherà il sacramento dell’ordine i cui titolari, i vescovi (primo grado) e i presbiteri (secondo grado), sono soggetti tra loro non separati ma, piuttosto, chiamati ad operare insieme.

Il Seminario, con l’esercizio della vita comune, prepara alla futura vita presbiterale e, così, il prete non è mai solo l’uomo “per” gli altri e per la comunità, ma anche “con” gli altri” preti e “con” il suo vescovo.

Dietro ai formatori, dietro alle loro scelte, dietro ai compagni, dietro agli imprevisti e alla monotonia quotidiana c’è, in realtà, Dio. In tale contesto si inserisce il discernimento a cui è chiamato ogni seminarista con i propri formatori, sotto la responsabilità ultima del Vescovo, affinché – in un reale e non fittizio dialogo fra grazia (Dio) e libertà (persona) – la vocazione battesimale possa maturare in quella al presbiterato, facendo crescere in sé il nuovo Adamo innestato in noi e che ogni giorno cresce sul vecchio percorrendo la strada che diventa la propria personale “via santa”.

La seconda lettura (Gc 5,7-10) sottolinea la pazienza, elemento fondamentale per ogni vocazione: “Siate costanti – dice l’Apostolo Giacomo –, …fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi…” (Gc 5,7-8).

È una grande e difficile virtù, quella della pazienza, nell’attendere il tempo opportuno non solo per raccogliere i frutti della terra ma anche per attendere che maturi la propria vocazione.

Le grandi figure dei profeti e degli apostoli, nella storia della salvezza, hanno aspettato a lungo il compimento della promessa di Dio, l’attesa dell’ora. Pensiamo ad Abramo: quanti anni dalla chiamata di Dio al compimento! Pensiamo a Giacobbe, l’usurpatore che dovrà fuggire dall’ira di Esaù e mettersi a servizio (non facile) del suocero Labano prima di diventare “Israele”, ovvero colui che ha combattuto con Dio e con gli uomini e ha vinto (cfr. Gen 32,29). Pensiamo ancora ai lunghi anni di attesa di Mosè e, infine, di Paolo prima di diventare l’apostolo delle genti.

Bisogna essere pazienti, bisogna saper attendere. Il tempo è necessario nella vita di una persona, ma noi siamo figli di una società che ha “violentato” i ritmi naturali. Pensate alla differenza fra la luce naturale del giorno e l’oscurità della notte o il chiarore soffuso della luna.

Non vediamo più la bellezza dell’aurora, dell’alba, del tramonto, della notte e, di nuovo, il chiarore del giorno. Con la luce artificiale siamo diventati schiavi dei ritmi imposti alla società, in tutte le 24 ore al giorno, snaturando i ritmi del vivere quotidiano o stagionale violati dalla logica dei consumi e del guadagno eletto a fine della vita.

Ovviamente, dobbiamo essere grati per il progresso della scienza e della tecnica ma non possiamo accettarne i ritmi “disumani”, smarrendo il vero, il buono e il bello della vita. Così conosciamo i disagi o le patologie innanzi a uno squilibrio o ad un cortocircuito fra i tempi naturali che appartengono all’umanità – per mangiare, dormire, riposare e divertirsi – e i ritmi “artificiali” (per non dire “destrutturanti” e ”meccanici”) imposti da interessi ed esigenze di altro genere.

Ogni vocazione – anche quella al presbitero – ha bisogno di un tempo per crescere e fiorire; ha bisogno di un “grembo di gestazione” che è il Seminario. Tale periodo di ascolto, formazione, discernimento non è soltanto spazio cronologico (6/7 anni con le sue tappe) ma è un tempo – personale e comunitario – “valoriale”, fatto d’attesa e di scelte da condividere e verificare, in grado di plasmare e donare la spiritualità necessaria per affrontare e spendere la vita secondo la propria vocazione.

Il Vangelo (Mt 11,2-11) contiene la domanda propria del discepolo, di chi è in ricerca, di chi segue un cammino vocazionale: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). È la domanda che sta all’inizio e al cuore di ogni vocazione.

Ma Gesù, come appare dai Vangeli, non risponde con un “sì” o un “no”, o indicando le evidenze, tantomeno con la logica e il linguaggio del politicamente corretto, sempre retributivo dal punto di vista umano.

Gesù rimanda a quei “segni” che, secondo la predicazione dei profeti, erano rivelatori del futuro Messia ma, nello stesso tempo, erano segni che lasciavano la libertà della scelta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo” (Mt 11,4-5).

Lo stesso accade all’inizio del Vangelo di Giovanni quando si presentano a Gesù due discepoli del precursore chiedendogli: “Maestro, dove dimori?”. Gesù li invita a seguirlo: “Venite e vedrete”. E l’evangelista annota: “Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,38-39).

All’inizio della vocazione non c’è la risposta pronta. La risposta circa la decisione verrà al termine di un cammino di prove, gioie, amarezze e convinzioni che si irrobustiscono ed illuminano lentamente.

È necessario essere disponibili ai “segni” che Gesù dispone sul nostro cammino e, per far questo, è essenziale lasciarsi accompagnare da persone di preghiera, umili, preparate spiritualmente e psicologicamente, esperte in umanità e del Vangelo, capaci di discernimento, non timorose di andare controcorrente, non legate al politicamente corretto nella versione dell’“ecclesialese”. Preghiamo, allora, per i formatori dei nostri Seminari.

Spetta a voi formatori, infatti, rivestirvi della paternità spirituale che nulla ha a che fare con gli stili degli influencer ma è qualcosa di unico. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo: “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (1Cor 4,15).

La vocazione è chiamata personale con cui Gesù interpella la libertà e la “provoca” attraverso “segni” più o meno evidenti. Ma i segni vanno attesi, invocati, valutati, accolti, senza pretenderli o volerli a partire dalla nostra logica e non da quella disarmante di Dio.

Un’ultima considerazione viene da Giovanni il Battista: è un uomo che vive in luoghi solitari, riparati, protetti dalla folla e dai ritmi convulsi; è un uomo essenziale nel vestire e nel mangiare, ma capace di grande autorevolezza tanto da mettere in soggezione re Erode (“Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello” – Mc 6,18); quando parlava al popolo non aveva timore, non era politicamente corretto, tutti lo ascoltavano e lui affrontava gli argomenti più controversi.

Giovanni Battista ci accompagni in questo Avvento e ci faccia incontrare Gesù per diventare suoi veri discepoli, non avendo timore di restare soli e di pagare di persona. Sempre più è necessario – in chi sente la chiamata al sacerdozio – testimoniare la verità e la carità come un tutt’uno, per sottrarsi ad una verità che sia solo rimprovero o una carità che sia buonismo, ossia la caricatura della carità.

La Vergine Maria – figura dell’Avvento – vi guidi ad un ministero che sia vera benedizione per la gente che incontrerete.