Omelia del Patriarca nella S. Messa con gli Universitari in vista della conclusione dell’anno accademico 2014/15 (Venezia / Tolentini, 11 maggio 2015)
11-05-2015
S. Messa a conclusione dell’anno accademico 2014/15
(Venezia / Tolentini, 11 maggio 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Sarebbe bello vivere in un mondo buono, in un mondo in cui – annunciando la bontà e la bellezza – la risposta fosse un’adesione pronta e cordiale, un sì, senza “se” e senza “ma”… Ma questo non è il mondo reale.
Il Vangelo di oggi ci ricorda che il discepolo è chiamato, semplicemente, a seguire le orme di Gesù, a porre i suoi piedi sulle orme lasciate da Gesù. Non possiamo sognare un cristianesimo che sia “oltre” Gesù, andare oltre quello che ha fatto Gesù. Un discepolo non è da più del suo maestro (cfr. Mt 10, 24). Siamo chiamati, quindi, ad annunciare Gesù in un mondo che sembra proprio prendere le distanze da Lui. E’ il tema attualissimo della persecuzione, è il tema del rifiuto di Gesù. Nei Vangeli è già scritta la nostra storia.
Il libro dell’Apocalisse – che non indica i fatti, in termini di date e luoghi – è però uno sguardo veritiero sulla storia considerata nel suo significato complessivo. L’Apocalisse narra la storia nella prospettiva del “già” e del “non ancora”, dischiudendola fine della storia in termini di “fine”; la storia della Pasqua, la storia della Chiesa, è scritta in questa accoglienza e in questo rifiuto del Signore.
Evangelizzare: non vuol dire spiegare qualcosa ma piuttosto testimoniare, pagando di persona. Gesù, su questo punto, è molto chiaro con i suoi apostoli: “…mi ami più di costoro? (…) quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 15.19). Questa è la testimonianza cristiana ed è ciò che è inscritto nel “contratto” battesimale, ciò che appartiene alla fede cristiana.
Ci si illude di risolvere l’evangelizzazione in termini linguistici o di categorie culturali. Gesù sapeva esprimere, molto meglio di noi, il mistero che portava nel mondo. Lui è la vite, noi i tralci, come ci ricorda il Vangelo (cfr. Gv 15, 1-8); Lui è colui che ci sostiene eppure – quando ha voluto dire, nell’ultimo modo possibile, chi è Dio, chi è il Padre, in cosa consiste la salvezza e quale è la comunione eterna da cui nasce il mondo e verso cui il mondo è orientato, Gesù è salito in croce.
Quanti tentativi di costruire un cristianesimo al di là e oltre Cristo! Se, per esempio, prendete il Vangelo di Marco e cancellate tutti i versetti che parlano implicitamente o esplicitamente della croce… alla fine non avrete un Vangelo più breve; semplicemente, non avrete più il Vangelo! Tante volte ci siamo illusi che il martirio appartenesse ai primi secoli della Chiesa. Il martirio, invece, è la cifra costante del cristianesimo vissuto nel dono totale di sé; certamente la testimonianza della cultura ci vuole, è importante e non si può prescindere da essa, ma l’uomo di cultura sa che non è la cultura a salvare l’umanità ma la croce di Cristo!
La prima lettura ci ha presentato il secondo viaggio di Paolo (At 16, 11-15); Paolo ne aveva già compiuto uno e, di li a poco, ne inizierà un altro. Secondo i diversi computi, i viaggi paolini occuparono gran parte della vita dell’Apostolo; ciò significa che Paolo, evangelizzato, diventa evangelizzatore. Il testo ci mostra come Lidia, la commerciante di porpora di Tiàtira, lascia che il suo cuore si apra all’azione dello Spirito Santo (cfr. At 16, 14). Ed ecco – questo è il punto – lo Spirito Santo, la grazia di Dio, la sua misericordia, ordinariamente e in modo comune, si comunica attraverso i volti, le parole e i gesti dei discepoli del Signore.
Il viaggio è una parafrasi della vita; la vita è un viaggio, ha un inizio e una sua fine, e la storia della salvezza si serve proprio della categoria del viaggio (pensiamo ad Abramo). Partire vuol dire un po’ morire, ma vuol dire soprattutto andare verso una meta nuova; il nostro essere di Cristo è per gli altri, è per muoverci andando verso coloro che ci attendono. Le periferie, a cui sempre fa riferimento Papa Francesco, ci attendono per essere trasformate da luoghi di fragilità in luoghi fraternità.
La parentesi universitaria è un’esperienza irripetibile nella vita di una persona e in questo breve ma importantissimo spazio di tempo possono accadere, nella nostra vita e attorno a noi, situazioni che segnano e cambiano la qualità della nostra testimonianza cristiana. La cultura non è un di più; certo è qualcosa di fuorviante se diventa e se si considera l’elemento in grado di salvare il mondo eppure la salvezza del mondo passa anche attraverso l’umanità (la cultura) che si rigenera attraverso le categorie dell’uomo nuovo. E l’uomo nuovo è Gesù Cristo.
Ora, la caratteristica dell’uomo nuovo non è solamente l’individualità ma la relazionalità. Essere capaci di relazioni personali, interpersonali e sociali arricchite dal fermento del Vangelo, dalla persona di Gesù e, così, riuscire a guardarci e a guardare la storia e il mondo proprio a partire dalla novità cristiana: ecco, in Gesù Cristo, il nuovo umanesimo!
La fede se è realmente cristiana ha a che fare con la carne ed il sangue: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14), Cristo è, infatti, risorto nel suo vero corpo. Siamo chiamati a vivere nel già che si dispiega nel non ancora, quel non ancora che in parte è presente nel già della resurrezione. Il tempo della Chiesa è il tempo della fede, è il tempo della speranza ed è il tempo della carità non ancora compiuta; il tempo in cui la carità cerca, a fatica, di potersi esprimere in modo vero e reale nel tempo: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24).
Siamo chiamati a guardare alla nostra fede di universitari impegnandoci a cogliere quella sintesi dei saperi che ci proietta al di là delle pur necessarie competenze settoriali e specifiche, per avere uno sguardo di sapienza e di saggezza e saper rispondere – all’interno di una professionalità che ci viene richiesta e che dobbiamo avere – con uno sguardo profondamente umano. Non possiamo essere dei “dizionari” ambulanti o dei “puri” professori; piuttosto, dobbiamo essere persone portatrici non solo di un sapere “tecnico” ma anche umano. Dobbiamo, quindi, saper dire e dare all’uomo ciò che l’uomo ci chiede in base alla nostra competenza ma guardandolo e rispettandolo sempre come uomo, in grado di andare al di là della domanda tecnica o della prestazione funzionale.
L’Università – diceva il beato Paolo VI, quando era ancora Giovanni Battista Montini, assistente ecclesiastico della FUCI – è “la maggiorità intellettuale! Ecco la dilatazione della luce interiore fino agli estremi margini della propria ignota personalità! Ecco il passaggio dai manuali ai testi; dall’autorità di secondo ordine alla competenza insindacabile di chi possiede i segreti delle origini; dall’infanzia intellettuale alla virilità del pensiero; dalla ‘mediocrità’ delle scuole ‘medie’ alla superiorità maestosa e somma dell’Ateneo” (Giovanni Battista Montini, Coscienza universitaria, Roma 2014, pp. 24-25).
Ma il cristiano sa che, prima della cultura e a compimento della cultura, c’è una vicenda umana e quella vicenda umana si chiama Gesù Cristo. E Gesù Cristo non ci viene illustrato dalle culture e dalle mode; piuttosto, è Lui che chiede alle culture e alle mode di guardare alla verità profonda dell’uomo, al suo bisogno di amare e di essere amato, alla sua necessità di avere una speranza che va oltre l’orizzonte della storia.