Omelia del Patriarca nella S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele per la Commemorazione dei fedeli defunti (2 novembre 2017)
02-11-2017

Commemorazione dei fedeli defunti

S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2017)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Ringrazio i confratelli presbiteri che concelebrano, i diaconi e tutte le autorità – in particolare il Prefetto – che, con la loro presenza, ci ricordano che la morte è un fatto che riguarda non solo la persona ma la società. È molto importante il modo in cui non solo il singolo ma anche la comunità, la collettività, la società si rapportano al momento della morte. E, come cristiani, non possiamo dire di navigare nell’oscurità circa il momento importante, il più importante della nostra vita: la morte.

Richiamo il Vangelo che il diacono ha appena proclamato adesso. Come cristiani sappiamo molto sull’aldilà, sappiamo in che cosa consiste ma, soprattutto, sappiamo che cosa ci sarà richiesto in quel momento. La curiosità vorrebbe sapere come e quando ma… il Signore è stato molto buono nel non dirci il quando della nostra morte; pensate come sarebbe drammatica la vita se ciascuno di noi, oltre alla sua data di nascita, sapesse già prima la sua data di morte…

Non sappiamo, quindi, quello che potrebbe far parte di una curiosità ma sappiamo quello che ci può aiutare a vivere e ad incontrare quel momento in modo sapiente e saggio, come il Vangelo di oggi ci ha ricordato. Il sapere, allora, diventa una responsabilità perché il sapere è anche un dover render conto delle cose che si sapevano.

Noi sappiamo che questa vita terrena non è per sempre e che è breve; la vita è sempre breve, sia perché ci sono delle morti premature, sia perché – anche quando la morte arriva al termine di una vita lunga – si vorrebbe sempre vivere. Soprattutto noi sappiamo una cosa: questa vita, breve o lunga che sia, è importantissima perché da questi anni terreni dipende l’eternità, dipende il “sempre”.

La giornata del 2 novembre chiede al cristiano di trasformare la nostalgia e il ricordo benedetto di coloro che ci hanno preceduto in un atto di carità che, cristianamente parlando, si chiama “suffragio”. Ci sono tanti modi di suffragare, ossia di fare quel bene che è in nostro potere nei confronti dei nostri cari, e quindi la giornata odierna ci richiede questo: trasformare quell’amore e quella tenerezza umana in atto di carità, di preghiera e di indulgenza.

Ricordo che l’indulgenza ha una pre-richiesta: volersi staccare dall’attaccamento al male, anche se è in forma leggera, e poi ci sono alcuni adempimenti che sono abbastanza facili come la visita ad una chiesa e la visita di un cimitero ma l’importante è questo atto di conversione, che è un atto d’amore a cui la misericordia infinita di Dio lega la possibilità di fare il bene di quelle persone che in altro modo non potremmo “toccare” se non solo con il ricordo e la nostalgia; è il legame sociale e soprannaturale nella vita di grazia, nella vita della Chiesa.

Ma la giornata del 2 novembre – oltre ad essere tempo di suffragio e preghiera – è anche momento in cui noi dobbiamo riflettere sulla nostra preparazione a quel momento. Non sappiamo come, non sappiamo dove, non sappiamo quando, ma siamo certi che ciascuno di noi ha quel momento dinanzi a sé. Prepararsi alla morte non vuol dire spaventarsi, non vuol dire incominciare a vivere di meno, non vuol dire incominciare ad andare a cercare espiazioni umane che stanno tra il superstizioso e l’ignorante: vuol dire mettere in pratica il Vangelo.

Molte volte dobbiamo dire che la morte l’abbiamo messa da parte, anche se è l’unica cosa certa che abbiamo di fronte. L’abbiamo rimossa: davanti ad un bambino o a dei giovani, perché parlare della morte? O anche ad un anziano, proprio perché è più vicino, stante l’anagrafe, perché paventarlo? Finiamo allora, allegramente, per rimuovere il momento della morte. Non ne parliamo e lo temiamo.

Come vivere cristianamente questo momento che ci sta dinanzi? Pensiamo ad una cosa molto semplice: è l’atto in cui noi saremo garantiti in modo particolare dal Signore e ci sarà una vicinanza particolare con il Signore. Dio ci ama sempre, soprattutto nei momenti in cui siamo fragili, nel momento in cui siamo impotenti… Quello sarà il momento in cui faremo un’esperienza particolare del Signore ma, nello stesso tempo, dobbiamo arrivare preparati a quel momento.

Che cos’è, allora, la morte? La morte, per il cristiano, è atto di libertà ed obbedienza. Molte volte ci lasciamo prendere da certi modi di ragionare molto comodi ma non veri; per esempio, quando parliamo di diritti e non parliamo di doveri mentre, invece, ad ogni diritto corrisponde un dovere e ad ogni dovere corrisponde anche un diritto…

L’obbedienza e la libertà sono due facce della stessa medaglia; la persona obbediente è una persona libera e la persona libera è una persona obbediente. Noi obbediamo ad un’infinità di cose; non abbiamo scelto di vivere eppure ci troviamo il dono della vita, non abbiamo scelto di nascere in un’epoca o in un’altra, in un territorio od in un altro, in una famiglia od in un’altra. Ecco allora una vita dalla libertà obbediente e un’obbedienza libera.

La morte per il cristiano è accettare di separarsi non da qualcosa o da qualcuno, non da un ufficio o da un incarico, ma accettare di separarsi da se stessi, dal proprio corpo; il mio corpo fa parte di me, del mio io. Io non sono solo un’anima, sono un’anima ed un corpo; io non sono solo materia, io sono un corpo e cioè una materia spiritualizzata.

La morte, in fondo, è l’atto di obbedienza e di libertà più radicale che una persona possa compiere. E prepararsi alla morte vuol dire essere persone capaci di obbedire alla quotidianità, alle cose di tutti i giorni, vivendole in spirito di libertà. Anche il morire, appunto, diventa un atto di obbedienza e libertà, di libertà obbediente e di obbedienza libera.

Quante cose non decidiamo e non abbiamo deciso nella nostra vita! Sì, perché l’uomo è un essere precario, cagionevole e fragile anche quando si trova nel vigore degli anni e anche quando si trova – se mai ci arrivasse – al culmine di una carriera sfolgorante; è sempre – dice il salmo – come l’erba che fiorisce al mattino e alla sera è già seccata. Se noi avessimo sempre questa idea di obbedienza e questa idea di libertà che non è libero arbitrio, che non è fare quello che voglio!

Come cristiani, infine, sappiamo un’ultima cosa: che la morte è il bene ultimo. Ne vedremo di belle in quel momento perché lì noi vedremo la verità di noi stessi, delle persone e del contesto in cui noi siamo vissuti ed abbiamo operato. La morte è un momento di luce, di liberazione, un momento carico di significato, un momento in cui noi incontriamo Dio che è Verità e Amore, dove l’amore e la verità non fanno a meno della giustizia. Non ci sono scorciatoie in nome della carità.

La morte – se avremo vissuto bene – diventerà qualcosa che non ci spaventerà, qualcosa anzi che nella fede, nella speranza e nell’amore desidereremo di vivere, come atto di libertà e di obbedienza. Il cristiano sa questo, è chiamato a vivere questo ed è chiamato ad annunciare questo.