Omelia del Patriarca nella S. Messa al carcere femminile della Giudecca (Venezia, 5 gennaio 2020)
05-01-2020

S. Messa nel carcere femminile della Giudecca

(Venezia, 5 gennaio 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Vi saluto tutte e permettetemi di salutare anche il cappellano padre Silvano e la direttrice, la dottoressa Reale, insieme a tutti coloro che vivono con voi in questo che è, certamente, un luogo di sofferenza ma che noi dobbiamo intendere anche e soprattutto come un luogo di riscatto.

È tradizione che il Patriarca venga a visitare le case di detenzione, in quella maschile prima di Natale e poi alla vigilia dell’Epifania in questa casa femminile; è una tradizione che nasce dal desiderio di dire che quelle mura che vi separano dalla città raccontano di un fallimento che è di tutti. Io credo che non sia bene togliere mai la responsabilità personale eppure rimane è un fallimento di tutti perché quel muraglione dice che qualcosa nella nostra vita, nella vita della nostra comunità, non ha funzionato.

Rimango sempre colpito, ascoltando le storie delle persone, da quanto esse siano segnate dal rapporto con il loro papà e la loro mamma. Chi ha preso la parola all’inizio della Messa ha detto: “Siamo mamme e siamo figlie”. Ci sono dei fondamentali nella vita che, se in qualche modo non sono rispettati o non sono riconosciuti e vissuti, creano sofferenze in tutti.

Una persona con una vicenda personale che l’aveva portata anche in carcere mi diceva: “Il ricordo che ho di mio padre è che mi prendeva per i piedi – ero piccolissimo – e mi sospendeva nella tromba delle scale e mi spaventava. Questo è il ricordo che io ho di mio padre”.

Queste mura, come dicevo, sono la dichiarazione di un fallimento ma anche di un riscatto. Avevo già sentito parlare del vostro presepio leggendo i giornali e questo vuol dire che la città, grazie agli amici giornalisti, è interessata a voi e sa quello che voi fate. E inoltre il vostro presepio – costruito con un frammento di un’imbarcazione danneggiata durante la notte disastrosa del 12/13 novembre 2019 – dice del vostro interesse nei confronti della città. Anche nel carcere maschile il presepio di quest’anno parlava dell’interesse degli ospiti di quella casa nei confronti della città.

Dobbiamo, allora, cercare tutti di dare il nostro contributo affinché questo spazio, questo edificio diventi non solo luogo di sofferenza quale è effettivamente, perché dobbiamo incominciare a dirci la verità; è certamente un luogo di sofferenza, ma deve anche diventare un luogo di rinascita, di ripartenza. E il riscatto, spesso, inizia quando troviamo qualcuno che ha fiducia in noi.

A me ha sempre colpito leggere la storia della salvezza: Dio mette alla prova gli uomini e le donne che sceglie. Giacobbe, che diventerà guida del popolo di Israele, è soprannominato “l’usurpatore” perché è stato colui che aveva rubato a suo fratello la primogenitura; ebbene, prima di diventare il capo del popolo di Israele, dovrà fare venti anni di esilio in terra straniera ed incontrerà chi (il suocero) gli farà pagare in modo salato quella sua ruberia obbligandolo a lavorare per lui un tempo doppio del dovuto. E il tempo non richiede solo pazienza; il tempo ci cambia.

Io – nella mia storia di sacerdote – ho fatto anche il viceparroco, cioè la “gavetta” (si inizia in genere sempre da lì). Il mio parroco di allora, di cui ho un grande ricordo, ogni tanto diceva: “Mi fanno paura i quarantenni, chi non ha esperienza, chi non ha fatto i conti con la vita, chi non ha provato la fatica del vivere, chi non ha subito delle ingiustizie…”.

Questo luogo deve essere un luogo di ripartenza, un luogo in cui recuperiamo la cosa più importante. Oggi nel Vangelo abbiamo sentito parlare di una stella, una luce che sorge nella vita di tre uomini; la luce è un dono e Dio ha incominciato col farci il dono della vita.

Quando andremo e ci ritroveremo in paradiso, speriamo tutti noi e diciamo pure il più tardi possibile, saremo sorpresi di quante cose Dio ci ha dato e noi non ce ne siamo accorti. I doni sono come la salute: ti accorgi di quanto sia importante la salute quando non ce l’hai più perché prima era tutto scontato…

La luce sorge come un dono di Dio che, però, chiama in causa la libertà della persona. Questi tre Magi scoprono quella luce che invece non scorgono Erode, i giudei e gli scribi, a cui non mancava niente (la profezia di Michea, la stella di Davide a Betlemme…).

Chiedo per me che il Signore mi aiuti a cogliere le sue varie luci, perché il Signore ci accende almeno una luce ogni giorno nella vita di un uomo e di una donna; non l’accende una volta sola. Questi tre saggi hanno lasciato tutto per seguire quella luce e poi ritornano diversi alla loro storia, al loro paese, alla loro città.

Trovare questa luce, ripartire, ricostruirsi. San Paolo dice (cfr. 2Cor 12,10): quando io sono debole, quando riconosco di essere debole, quando non sono presuntuoso, è allora che sono forte… Ma perché? Perché Qualcuno è entrato nella mia vita.

Continuiamo questa celebrazione con lo spirito di chi dice: “Signore, siamo tutti poveri ma siamo tutti convinti che un giorno, se non chiuderemo gli occhi, scorgeremo quella luce che Tu hai destinato per la nostra vita”.