Omelia del Patriarca nella Festa del Santissimo Redentore (Venezia, 19 luglio 2015)
19-07-2015
Festa del Santissimo Redentore
(Venezia, 19 luglio 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Cari fratelli e sorelle,
carissimi confratelli nel sacerdozio,
gentili autorità civili, militari, religiose,
Papa Francesco nella bolla Misericordiae vultus – con cui ha indetto il Giubileo straordinario della misericordia – si serve di una bella espressione che bene ci introduce nell’odierna festa, tutta veneziana, del Santissimo Redentore.
“Dinanzi alla gravità del peccato – scrive il Santo Padre -, Dio risponde con la pienezza del perdono. La misericordia sarà sempre più grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona” (Papa Francesco, Misericordiae vultus. Bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia, n. 3).
La Festa del Santissimo Redentore si lega a un solenne voto del Senato della Repubblica che negli anni 1575- 1576, non riuscendo a venire a capo del flagello della peste che decimava la popolazione, si affidò alla misericordia di Dio e promise che, se la città fosse stata liberata dal morbo, avrebbe eretto una nuova basilica dedicata al Redentore. Così, da allora, ogni anno, la città esprime la sua gratitudine al Dio della misericordia con un imponente pellegrinaggio guidato dal Patriarca, e con la partecipazione delle autorità cittadine, qui alla Basilica del Santissimo Redentore.
Ancora, e soprattutto oggi, abbiamo bisogno – a livello personale e sociale – della divina misericordia che è fondamento del perdono reciproco ma, anche, vera risorsa capace di plasmare in modo nuovo le relazioni tra le persone e le differenti componenti di una società che è sempre più composita e articolata.  Proprio su questo tema oggi vorrei riflettere con voi.
La misericordia – ossia il perdono, la riconciliazione, l’accoglienza – è da considerarsi come una nuova risorsa, una nuova sintesi, un nuovo inizio che ci apre al tutto, non lasciandoci rinchiudere nel particolare; il tutto, come ricorda il Papa, viene prima della parte.
 Si tratta, così, di guardare a quelle realtà che appartengono alla vita degli uomini e che sono l’economia, il diritto, la politica e che, di per sé, sembrerebbero altro rispetto alla misericordia; esse devono certamente considerarsi secondo la loro specificità ma, nello stesso tempo, sono chiamate a far parte di una realtà più ampia e ad integrarsi in un tutto capace di rendere più umana la convivenza sociale.   
 L’etica – che fonda le scelte secondo giustizia ed equità – e la misericordia – che è chiamata ad umanizzare tali scelte – fanno in modo che economia, diritto e politica siano realmente a servizio del bene comune (di tutti e di ciascuno), non fermandosi agli indici economici, alla formalità delle leggi e al pragmatismo politico.
Ciò che è ineccepibile in termini di scienza economica, giuridica e politica non è detto che lo sia dal punto di vista del rispetto della persona. Il “tutto” – l’abbiamo già detto – viene prima della “parte” e vi è, quindi, qualcosa di sostanziale che viene prima dei puri indicatori economici, della formalità delle leggi e delle prassi politiche.
E questo vale tanto nelle relazioni personali e sociali quanto nell’azione politica, sia nell’ambito amministrativo del territorio sia a livello della politica nazionale e internazionale, iniziando dall’Europa che oggi vediamo in grave difficoltà. Le sofferenze dell’Europa si manifestano di fronte all’incapacità o impossibilità d’esprimere una politica in grado di rispondere ai problemi, ai bisogni e alle aspettative dei popoli che la compongono e mi limito ad alcuni esempi: politica estera comune, piani coordinati per il mondo del lavoro (piaga della disoccupazione giovanile e non solo), sostegno vero e reale agli Stati più deboli e, soprattutto, gestione comunitaria del fenomeno dell’immigrazione che non può più esser scaricato su un singolo Stato come finora è stato fatto con l’Italia.
Alla luce della scandalosa divisione tra l’umanità sazia e l’umanità che fa la fame è il rapporto tra economia, leggi e politica che va ripensato; dal punto di vista etico, infatti, non è sufficiente fermarsi alla forma o alle regole, bisogna giungere alla sostanza delle questioni e il fenomeno dell’immigrazione  rappresenta soltanto la punta dell’iceberg.
Soffermiamoci, in proposito, sulle parole dell’enciclica Laudato si’: “…qualunque soluzione tecnica che le scienze pretendano di apportare sarà impotente… se si dimenticano le grandi motivazioni che rendono possibile il vivere insieme, il sacrificio, la bontà. In ogni caso, occorrerà fare appello ai credenti affinché siano coerenti con la propria fede e non la contraddicano con le loro azioni, bisognerà insistere perché si aprano nuovamente alla grazia di Dio e attingano in profondità dalle proprie convinzioni…” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 200).
C’è qualcosa di sostanziale che va tutelato oltre i pur necessari parametri economici, il doveroso rispetto delle leggi e le obiettive sintesi della politica; c’è qualcosa che ci riporta alla giustizia sostanziale. E ciò vale anche nelle relazioni tra differenti soggetti ecclesiali, dinanzi a situazioni che chiedono d’essere sanate.
Per una buona convivenza sociale, sicurezza, legalità, certezza della pena sono valori, come lo è anche la misericordia, ossia il perdono, la riconciliazione, l’accoglienza. La misericordia, quindi, è apertura di credito nei confronti di chi ha sbagliato ma intende riparare al male fatto.
Il Vangelo di Giovanni – appena ascoltato – fa riflettere sulla struttura stessa della misericordia delineandone il carattere di fondo: “Dio (…) ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17).
Qui, subito, viene spontaneo domandarsi: con la croce di Cristo il Dio dell’amore, della misericordia, non limita la Sua volontà di perdono incondizionato? Perché il Padre ha scelto per il Figlio la dura realtà della croce? Non poteva esserci perdono senza il sacrificio del Figlio? Dio, in tal modo, non avrebbe espresso una misericordia ancora più grande? E, alla fine, la salvezza non sarebbe stata in modo più evidente il risultato di un puro atto d’amore? Tutto ciò, non sarebbe stato più degno di Dio?
Ma, secondo tale logica, si introdurrebbe in Dio una dicotomia fra “giustizia” e “misericordia”, un dualismo fra “verità” e “amore”, mentre in Dio la “giustizia” e la “misericordia”, la “verità” e l’“amore” sono un tutt’uno, una sintesi che noi uomini fatichiamo a cogliere. Questo è uno dei motivi per cui il giudizio sugli uomini Dio se lo è gelosamente riservato.
Non si tratta di una questione nuova; da sempre tale problematica interpella e appassiona l’uomo. E non si tratta di una questione teorica ma, al contrario, qualcosa che è in grado di fondare su basi nuove il vivere sociale.
A ben vedere, alla fine, c’è un modo di presentare Dio che appartiene all’incredulità perché pretende di partire da evidenze umane erette ad assoluto e, così, si finisce per esercitare una sorta di dominio sullo stesso Dio… Ma Dio non accetta tale pretesa! E’ la vicenda narrata nel libro di Giobbe; così, rimanendo sul piano della pura logica umana, si finisce per imporre a Dio il proprio modo di pensare e si costruisce un idolo.  
La stessa cosa vale per l’umanità di Cristo: se si pensa di ricavarla dall’uomo concreto che s’incontra, in termini di pura psicologia o sociologia, non si riuscirà mai ad attingere la vera umanità di Gesù Cristo. Il criterio, infatti, è la Parola di Dio che è “Altro” rispetto a quella degli uomini; non è, infatti, l’esistente ad esser criterio del sì dell’uomo di fede.
Allo stesso modo, la Parola di Dio non può, di volta in volta, essere “piegata” da un’interpretazione, a prescindere dalla realtà che sempre la precede. La verità è, alla fine, fondata sull’essere e non sull’interpretazione; caso esemplare, oggi, è il rapporto tra natura e cultura dove la cultura non può ignorare la natura.
 Una realtà che, di volta in volta, s’identifica con la pura interpretazione, alla fine, diventa “ostaggio” e “preda” dell’interpretazione stessa e di quello che l’interpretazione decide della realtà. Allora non esiste più una natura che sia comune riferimento per le culture. La tematica soggiacente al gender – come insegna il Papa nell’enciclica Laudato si’, al n. 156 – è il risultato di una tale logica. 
Ritornando alla rivelazione cristiana, la croce di Cristo si erge come la pietra d’inciampo e come scandalo. Ricordiamo il Vangelo appena letto: il Figlio è “dato” dal Padre per la salvezza del mondo.
Von Balthasar, grande teologo del XX secolo, scrive che la croce di Cristo è “il caso serio” del cristianesimo, ossia il momento insuperabile, poiché, dinanzi alla Sua croce/risurrezione, tutto sta o cade. Ed è proprio la croce/risurrezione – la Pasqua – che svela la logica di Dio, ovvero il modo in cui Dio agisce nella storia e, quindi, i battezzati sono chiamati ad imparare come per Dio valga ciò che va oltre e, talvolta, si oppone al senso comune dominante.
Non è l’idea personale che ciascuno di noi si fa della giustizia e della misericordia di Dio a dire in cosa esse consistano; al contrario, è la Parola di Dio a dirci in che consista la giustizia e la misericordia e come si compongano fra loro.
Va evitato tanto il buonismo assistenzialista, che disattende le grandi potenzialità e il senso di responsabilità della persona umana, quanto il legalismo giustizialista che dimentica la dolorosa storia delle persone e la loro volontà di riscatto.
Accenno, qui, a una sorta di cammino spirituale che ci conduce dinanzi al Dio della misericordia e della giustizia superando il livello della pura comprensione umana. L’invito è di stare, con animo umile, dinanzi a Dio che, in ogni momento, ci ama anche se tali modalità a noi sfuggono.
Nemmeno la rassegnazione, da sola, basta perché dice la semplice presa d’atto e non ancora il vero abbandono in Dio; la drammatica vicenda del libro di Giobbe è un cammino che tutti, prima o poi, siamo chiamati a percorrere.
Solo la vera umiltà del cuore e la certezza d’esser sempre amati da Dio ci consentono d’entrare nel mistero della Sua misericordia. E mistero non è sinonimo d’assurdità ma del dono sovrabbondante di Dio nella mia vita. Il mistero è il dono che Dio fa di sé nella storia; è, concretamente, l’offerta che suscita nell’uomo la risposta e che ci costituisce discepoli.
Cogliamo, così, l’invito del Papa che, nella Bolla Misericordiae vultus,chiede all’intera Chiesa: “È mio (…) desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli“ (Papa Francesco, Misericordiae vultus. Bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia, n.15).
Questo sia anche il nostro modo di vivere la festa del Redentore per riscoprire – proprio nell’imminenza dell’anno giubilare – la misericordia di Dio a partire dalla vicenda concreta di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
Siamo chiamati a rinnovarci nell’anima e nel corpo e così, dopo, potremo rinnovare ogni cosa, iniziando dalle relazioni personali e sociali che – progressivamente – ci plasmano come uomini e donne, come discepoli di Gesù, nostro Redentore.