Omelia del Patriarca, nella Commemorazione dei fedeli defunti, durante la S. Messa al Cimitero di Venezia (2 novembre 2020)
02-11-2020

Commemorazione dei fedeli defunti

S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Ringrazio le autorità per la loro presenza e vorrei rivolgere a tutti qualche pensiero che possa aiutarci a vivere questa giornata così importante nella vita del cristiano, inquadrandola anche nel tempo che stiamo vivendo.

Più che mai in questi giorni proviamo la difficoltà e la non “scontatezza” del vivere. Le cose che facevamo normalmente e spontaneamente oggi sono oggetto di domande e di riflessione; ci sono cose solitamente comuni che ci asteniamo dal compiere: non ci stringiamo la mano, non stiamo vicini, non possiamo costituire dei gruppi numericamente importanti…

Questo tempo ci fa riflettere sulla precarietà della vita. Per troppo tempo abbiamo dato per scontato che l’uomo decidesse tutto di tutti, incominciando dalle cose che Dio si è riservato gelosamente: l’inizio e la fine della vita. Abbiamo anzi messo le mani in modo violento sull’inizio ed il termine della vita e, allora, dobbiamo riflettere sul fatto che anche le cose normali della vita non ci appartengono; è un richiamo importante, è un esame di coscienza quello che siamo chiamati a fare perché la tecnica e la scienza non sono tutto, ci danno delle illusioni ma l’essere uomo rimane sempre un essere fragile. Certo, l’età media dell’uomo dall’epoca dei Romani, ad esempio, ad oggi si è notevolmente accresciuta ma, alla fine, la parola morte rimane.

Il cristiano sa che si prepara la realtà ultima in questo tempo e sa che deve riuscire a capire tutto ciò attraverso la realtà penultima. Nei confronti di una stanza di albergo, infatti, non mi comporto come in un appartamento di mia proprietà mentre noi, invece, molte volte finiamo per attaccarci alla vita non come ad un bene da “vivere” e di cui rendere grazie a Dio, in cui credere insieme agli altri, ma con un distacco.

La scienza e la tecnica chirurgica creano dei mostri, persone che hanno superato abbondantemente i sessant’anni che si “rifanno” a pezzi e con il risultato di ottenere delle maschere inespressive. Questo vuol dire che noi uomini e donne non siamo riconciliati con la nostra meta, con lo scorrere della vita: che cosa c’è di più bello, in una società che rispetta le persone, di guardare il volto anziano di un uomo e di una donna, il fascino di un volto segnato dal tempo e, magari, circondato dall’affetto dei figli e dei nipoti?

Dobbiamo riscoprire chi siamo. I Salmi ci aiutano: ci dicono che siamo come il fiore del campo e siamo incamminati verso quella perfezione che ci sarà data dopo questa vita perché la vita eterna non è una vita che non finirà mai; sarebbe estremamente noioso se la vita eterna fosse semplicemente un tempo che non finisce mai, anche perché quando noi usciamo dalla vita il tempo e lo spazio non esistono più.

Se io voglio mettervi in imbarazzo, potrei dirvi: fatemi un discorso di cinque minuti senza mai fare riferimento allo spazio e al tempo. Voi non saprete che cosa dire e, al limite, quando avete detto qualcosa, sarete stati attenti a dire cose che non vi possano compromettere.

Noi adesso ragioniamo secondo lo spazio e il tempo, ma la vita eterna prescinde dallo spazio e dal tempo; è un altro modo di essere, di esistere, di permanere nell’esistenza, a prescindere dallo spazio e dal tempo.

Se noi guardiamo la nostra vita, ci sono delle stagioni in cui abbiamo risorse, energie e forze ma ci mancano altre cose fondamentali. Faccio un esempio: pensiamo all’energia fisica di un militare, di un funzionario dello Stato, di un sacerdote a 30/35 anni, eppure quanta inesperienza e quanta fragilità nel momento di dover prendere delle decisioni che, invece, a 55/60 anni si prendono in un altro modo! Però, a 55/60 anni, anche se uno è un generale con quattro stelle, forse un po’ di mal di schiena ce l’ha ogni tanto…

La nostra vita, insomma, è segnata dal limite. La vita eterna è una vita perfetta, ma non è una monotonia di tempo che non finisce mai; è il possesso totale di tutte le perfezioni che la nostra natura umana può avere, tutte insieme.

Ecco perché le tre letture di oggi – in modo diverso, se le rileggete – parlano di un tempo che è passato, di una tribolazione che è stata superata e parlano della gioia di chi era nel pianto.

Questa giornata è unita strettamente a quella di ieri, tanto che il Vangelo letto oggi lo avevamo letto anche ieri: è la comunione dei santi, è diventare più semplici nel vivere la nostra quotidianità, è sentirci pellegrini come coloro che montano la tenda, ne usufruiscono, la smontano e vanno avanti.

Quando ero vescovo di Spezia, avevo un legame particolare con gli alpini che in Liguria hanno una forte tradizione, soprattutto quando c’era la leva obbligatoria. Mi avevano anche regalato il cappello da alpino, i generali degli alpini hanno il cappello con la penna bianca e io ho ancora questo cappello e lo custodisco con una certa gelosia. Ho anzi già indicato la persona a cui lo darò quando anch’io non ci sarò più, come per altre cose; ad esempio, il pastorale – che tante volte mi vedete – è un dono della Diocesi di Spezia quando sono diventato vescovo ed ho già detto al mio segretario che quando morirò – se tu sarai l’esecutore testamentario – quel pastorale va a Spezia.

Ebbene, io ho imparato una cosa dagli alpini quando li incontravo e celebravo Messa con loro che hanno un grande ricordo dei loro commilitoni defunti ed usano questa espressione: “è andato avanti”. Così indicano uno che non c’è più e, in guerra o per l’età, è passato da questa vita all’altra. Usano proprio questa espressione: “è andato avanti” e noi lo seguiremo. Cerchiamo allora di imparare dagli alpini, dalla loro rudezza schietta, dalla loro capacità di organizzare e di farsi molte volte attenti alle necessità sociali e nelle calamità naturali.

Dobbiamo riuscire a capire che la vita è distaccarci dalle cose e questo ci aiuta a vivere bene; quando so che, ad un certo punto, quello che io sto facendo lo farà un altro – meglio o peggio di me, non lo so… – questo mi porta a fare il mio dovere, la mia professione, e a vivere la mia vocazione nel modo migliore possibile.

Anche questo è un messaggio importante per il tempo che stiamo vivendo: il tempo che si vive uno non se lo sceglie, gli è dato. Chi è veramente adulto, uomo o donna, è chiamato ad accettare il tempo, a viverlo e ad aiutare gli altri a viverlo nel modo migliore. È proprio quello che ciascuno di noi oggi – in queste settimane e in questi mesi che, purtroppo, si prospettano difficili – deve cercare di fare in modo ancora più forte rispetto a quanto abbiamo fatto nelle settimane e nei mesi appena trascorsi.