S. Messa nel secondo anniversario della morte del card. Marco Cè
(Venezia / Basilica cattedrale di S. Marco, 12 maggio 2016)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Cari presbiteri, diaconi, consacrati e fedeli,
rivolgo innanzitutto il mio saluto più affettuoso al carissimo don Valerio che è qui presente in Basilica. Con gioia e un po’ di nostalgia ricordiamo – nel secondo anniversario del suo dies natalis – il nostro amato Patriarca Marco. Lo ricordiamo con affetto e come lui stesso avrebbe voluto, ossia all’altare del Signore da cui, per oltre vent’anni, celebrò la divina liturgia come pastore della Chiesa che è in Venezia.
Il Cardinale amava la liturgia e la curava col rispetto di chi è consapevole che quei gesti e quelle parole rinnovano, ovvero attualizzano, l’evento salvifico. Il suo impegno era far in modo che la liturgia – il noi orante della Chiesa – risultasse un momento di fede vissuta e per questo curava in modo particolare le celebrazioni in San Marco, la chiesa cattedrale. Grande attenzione riservava poi alla formazione liturgica dei seminaristi. S’impegnava anche di persona affinché giungessero all’ordinazione consapevoli di quanto fosse importante una buona celebrazione, in modo che la comunità desse lode a Dio e, allo stesso tempo, fosse rinnovata dall’azione liturgica che il Concilio Vaticano II definisce “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e … la fonte da cui promana tutto il suo vigore” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 10).
Nel Patriarca Marco era vivissimo quanto il Concilio dice del vescovo, il primo orante della Chiesa. Nella Costituzione sulla sacra liturgia – al n. 41- leggiamo infatti: “Il vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 41).
Tutto questo il Cardinale lo viveva, lo annunciava ed era per lui scelta pastorale. Certo, il Patriarca Marco era conscio che la missione del presbitero non si esaurisce nell’azione sacerdotale ma, nello stesso tempo, era consapevole che il ministero presbiterale non può prescindere da essa. Così la funzione sacerdotale (soprattutto la celebrazione dell’Eucaristia), insieme alla funzione profetica (l’annuncio della Parola di Dio) e alla guida spirituale delle anime (il servizio al popolo di Dio), comunicano fra loro e fra loro sono inseparabili.
Carissimi, il Vangelo appena ascoltato rappresenta un vertice del Nuovo Testamento; infatti, nella preghiera di Gesù, ci è svelato nientemeno che il mistero della vita di Dio che è comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Una comunione offerta da Gesù ai suoi discepoli – non più chiamati servi ma amici – e, quindi, offerta anche a noi.
Questa pagina del Vangelo secondo Giovanni era molto cara al Patriarca Marco; noi vi ritroviamo il suo animo di credente e di prete. Ecco le parole di Gesù: “…tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa” (Gv 17, 21-22).
Sì, il Cardinale viveva un profondo e continuo rapporto col Signore; il senso della presenza di Dio lo sosteneva sempre. Dio, per lui, era la presenza vivificante di ogni momento da cui attingeva serenità, coraggio, gioia. Percepiva in sé l’amore di Dio e lo viveva come il “sì” fedele, ripetuto ogni giorno come risposta alla chiamata del Signore.
Da vero amante della Parola di Dio, il Patriarca Marco innanzitutto se ne nutriva e poi, come il buon padre di famiglia, la dava in cibo ai suoi figli. D’altra parte, il primo compito del pastore è procurare il cibo per il gregge che gli è stato affidato, condurlo a buoni pascoli e a fonti d’acque cristalline. E lui vedeva nella Parola di Dio questo buon pascolo e questa pura fonte.
Egli desiderava che tutti avessero parte al grande tesoro che è la Parola di Dio e proprio l’amore per la Parola di Dio plasmò la sua predicazione appassionata, profonda, semplice. E poi lo spinse a far in modo che la Chiesa di Venezia potesse avere una casa d’esercizi spirituali dove la Parola di Dio potesse risuonare e avere un ascolto sereno, silenzioso, prolungato. Sempre per valorizzare al meglio la Parola di Dio, fondò i gruppi di ascolto.
Il Patriarca Marco – da uomo di fede quale era – aveva lo sguardo costantemente rivolto al Signore Gesù; sapeva che solo Lui salva e può dar felicità, perché solo Lui dà la pace. Non a caso aveva scelto per motto “Christus ipse pax”. Un Vescovo, nel motto, esprime ciò che riguarda la sua storia e vita di fede e lo pone a servizio del popolo a cui è mandato come pastore che cammina in mezzo alla sua gente – ad iniziare da chi è più ferito (e ci sono le ferite dell’anima, del corpo, dei caratteri…) – ma che, pure, la precede, compiendo in tal modo il suo servizio.
Egli rimase fedele al motto episcopale “Christus ipse pax ” per tutta la vita. E questa sua fedeltà divenne manifesta soprattutto negli ultimi tempi quando accolse la definitiva chiamata che il Signore gli rivolgeva affidandosi a Lui con la semplicità di chi, per tutta la vita, si era posto al suo servizio. In particolare, in quei momenti in cui il discepolo è chiamato a dar tutto senza trattenere nulla (quante volte siamo, invece, attaccati al nostro fare ecclesiale e guai se non ne siamo riconosciuti!), il Patriarca Marco testimoniò come Gesù fosse la sua vera pace; Gesù fu la scelta di tutta la sua vita.
Giunto al termine del suo mandato episcopale, espresse poi il suo pensiero sul riordino della diocesi e delle parrocchie. Le sue parole sono attualissime e per questo, pur avendole già citate, le richiamo nei loro passaggi salienti: “Credo… debbano essere… attuate delle ristrutturazioni anche di tipo organico. La collaborazione non può essere affidata solo allo spontaneismo di alcuni preti… Diversamente non rispondiamo alle esigenze, alle richieste di evangelizzazione. Che ci siano delle zone che non hanno più un prete giovane significa che i ragazzi e i giovani sono trascurati. Venezia e Mestre … hanno esigenze di strutturazione molto diverse. Il centro storico è frazionatissimo… Si fa fatica però a creare delle collaborazioni organiche. Ma non c’è sbocco, la strada è questa, perché altrimenti i ragazzi saranno trascurati, la pastorale dei fidanzati pure; e perfino la pastorale della cultura…” (Marco Cè: vescovo, padre, fratello, Intervista alla fine del mandato, Edizioni CID, p. 25).
Queste sue parole – come già ebbi modo di dire in passato – incoraggiano a superare, con l’impegno di tutti, le inevitabili difficoltà di un cammino non semplice e non scontato che, però, costituisce la sfida per la nostra Chiesa e, in modo particolare, per i presbiteri chiamati ad uno sforzo di generosità pastorale più grande.
Questo ripensamento pastorale dipende anche dalla scarsità del numero dei preti che in sé – come alcuni, erroneamente, potrebbero pensare o dire – non è un segno positivo. Si tratta, piuttosto, di un segnale che, in questo anno giubilare, richiede una seria riflessione sul modo in cui riusciamo o meno – noi preti e le nostre comunità – a testimoniare e a trasmettere la bellezza della fede e della vita del prete. Insomma, vedendo il proprio cappellano o parroco, un giovane dovrebbe essere portato a dire: è bello fare il prete!
La domanda è semplice ma, nella sua semplicità, può risultare impietosa. Se un presbitero o una comunità non sono ancora riuscite ad accompagnare all’altare qualche giovane, è il caso che riflettano e si interroghino; sì, è il caso che riflettiamo e ci interroghiamo. Certo, potrebbero non esser stati ancora chiamati a tale grazia ma, prima d’esserne certi, è opportuno che si interpellino sulla loro pastorale ordinaria. E se Cristo ne è veramente il centro, il senso e il fine.
Il Patriarca Marco, del prete, scriveva così: “…il compito del sacerdote all’interno della comunità cristiana è quello di essere annunciatore della parola di Dio … è colui che garantisce alla comunità cristiana l’Eucaristia e dà… una guida pastorale…” (Marco Cè: vescovo, padre, fratello, Intervista nel 50.mo di ordinazione, Edizioni CID, p. 25). Parole attualissime anche per le nostre nascenti collaborazioni pastorali.
Concludo con un pensiero del Cardinale che dice la sua fede e saggezza; lo prendo dal volume “Il volto di Dio è amore misericordioso” che contiene alcune sue meditazioni sui misteri della vita di Cristo e che è stato curato con amore e competenza dalla professoressa Luisa Bienati che ringrazio in modo particolare. Il libro fa parte di un progetto diocesano coordinato dall’Ufficio catechistico e per il quale ringrazio il direttore don Valter Perini e la segretaria Anna Marchiori.
“La storia – scrive il Patriarca Marco – è nelle mani di Dio, il quale misteriosamente la “conduce” per realizzare il suo disegno di salvezza nel rispetto della volontà degli uomini… Questo deve darci fiducia anche di fronte ad eventi negativi che segnano pesantemente la storia dell’uomo. Dio piega anche gli avvenimenti più lontani per realizzare il bene dei suoi figli. Lasciamoci dunque condurre da Lui” (Marco Cè, Il volto di Dio è amore misericordioso, Marcianum Press 2016, pag. 25).
Mentre ora ci uniamo a Cristo nella preghiera eucaristica, chiediamo al Patriarca Marco che interceda per la Chiesa di Venezia affinché viva in pienezza, nella gioia e nell’amore, il suo dono sponsale a Cristo.