Omelia del Patriarca durante la S. Messa solenne nella festa del patrono S. Marco (Venezia, 25 aprile 2016)
25-04-2016

Solennità del patrono San Marco Evangelista (25 aprile 2016)

Basilica Patriarcale di San Marco – Venezia

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

 

Gentili autorità, carissimi fratelli e sorelle,

oggi, 25 aprile, Venezia e tutte le genti venete sono in festa e celebrano il loro santo patrono, le cui reliquie furono traslate in città – in modo avventuroso – nell’anno 828 da due mercanti: Buono da Malamocco e Rustico da Torcello.

Secondo la tradizione, Marco avrebbe evangelizzato le nostre terre del Nordest e per questo Marco è il patrono delle genti venete e della Chiesa di Venezia ed è il titolare della Patriarcale Basilica Cattedrale.

Ma, come sappiamo, Marco – oltre ad essere il nostro patrono – è autore del Vangelo che ne porta il nome; è lui che ha concretizzato il genere letterario detto, appunto, “vangelo”; euanghèlion significa semplicemente buona notizia. Per questo¸ dobbiamo nutrire verso di lui una particolare gratitudine.

E proprio su questo punto desidero soffermarmi, perché il rischio di smarrire – almeno in parte – la gioia dirompente del Vangelo è reale da parte del credente, soprattutto oggi.

Da sempre sentiamo risuonare l’annuncio evangelico e – se non facciamo attenzione e non vigiliamo sulla nostra vita di discepoli – finiamo per non stupirci più dinanzi a questa inaudita novità, una notizia innovatrice e rivoluzionaria a cui facciamo l’abitudine nel senso deteriore del termine.

Papa Francesco, non a caso, ha intitolato la sua prima esortazione apostolica Evangelii gaudium; essa è un forte richiamo a vivere la gioia del Vangelo.

A tal proposito, l’inizio e la fine del Vangelo di Marco ci stupiscono, ci proiettano al di là della nostra misura umana e ci lasciano letteralmente meravigliati; se stiamo perseguendo un cristianesimo a misura d’uomo, abbiamo smarrito il Vangelo.

La notizia dirompente è che Dio vuole vivere con noi, vuole condividere la sua vita con noi. E non in un modo qualunque, ma attraverso ciò che lo caratterizza come Padre: il Figlio.

Tali parole – se ascoltate e accolte nella propria vita – non possono non avere un effetto dirompente. Attraverso di esse, ascoltandole realmente, comprendiamo come il Vangelo non sia una delle tante vie umane, una filosofia, un’etica, un’ideologia.

Al contrario, il Vangelo è l’annuncio che ti prende alla sprovvista e, chiunque tu  sia, ti mette in discussione perché ti fa comprendere che non sei tu a decidere ma tu, semplicemente, ricevi qualcosa che puoi solo accogliere.

La domanda è semplice e si pone in questo modo: una tale “notizia” potrebbe aver origine da un uomo e dal suo mondo? E, ancora, che cosa dire del modo in cui inizia lo scritto di Marco: “Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, figlio di Dio” (Mc 1,1)?

Lo stesso messaggio lo troviamo nell’evento-culmine della vita terrena di Gesù,  la sua morte. La storia di Gesù si conclude e, per il mondo ebraico e pagano, nel modo più indegno e vergognoso; morire crocifissi era la morte dell’infame, del maledetto, dello schiavo punito per aver tradito fuggendo.

Per questo, umanamente parlando, è ancor più fuori posto quanto esclama il centurione  ai piedi della croce: “…avendolo vistolo spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

Così Marco – col suo Vangelo – ci dice, per primo, che Dio fa visita all’uomo e ne provoca sia l’intelligenza sia il cuore.

I Vangeli nascono, proprio, da tale esigenza: l’obbedienza a Cristo che manda i suoi a predicare la buona novella. E il mettere per iscritto la vicenda di Gesù, da parte della Chiesa, dice la volontà di non allontanarsi dai fatti, quando gli accadimenti non sono più vicini a chi li ha vissuti o li ha sentiti narrare.

L’evangelista Marco non ha inventato i fatti e i discorsi di Gesù, li ha raccolti e annunciati. Prima di lui esisteva già un’ampia documentazione orale e scritta come, ad esempio, gli episodi riguardanti la vita di Gesù e talune sue parole (logia); un posto particolare, poi, aveva il lungo racconto della passione con la notizia, inaspettata, della Pasqua.

Marco, che rimane fedele a quanto ha ricevuto dalla Chiesa, esprime però, in modo geniale, l’annuncio ecclesiale detto Vangelo.

Lo stile di Marco è essenziale, è immediato; l’evangelista appare scrittore “popolare” tanto che, qua e là, nella sua narrazione affiorano anche espressioni poco “curate”, come, ad esempio, la descrizione  della guarigione del cieco di Betsàida: “Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano“ (Mc 8,24).

Tutto questo, però, non vuol dire che il nostro evangelista non sia abile narratore; è vero il contrario. I discorsi di Marco, infatti, esprimono bene la cifra della concretezza e vivacità; l’uso del verbo è frequentemente al presente e ciò dà vivacità, ritmo, attualità.

In ogni modo, Marco – all’interno del  suo stile personale – possiede uno sguardo teologico profondo con cui rilegge la vita di Gesù nella prospettiva della Pasqua. Col genere letterario “Vangelo”, Marco dice la sua volontà e il suo impegno ad annunciare Gesù e ci indica una strada che in seguito diventerà “norma” per tutta la Chiesa.

In quest’azione evangelizzatrice, Marco s’impegna e trova un linguaggio adatto e comprensibile per quanti non appartengono al mondo ebraico nel quale Gesù era vissuto, aveva predicato e compiuto i segni del Regno. Si tratta della prima forma di inculturazione del Vangelo che, secondo il mandato di Gesù, deve essere annunciato ovunque, in tutti i tempi e ad ogni uomo.

Questo è quanto ci attesta  Marco: annunciare l’unico e medesimo Gesù in un contesto che non è più quello in cui Gesù ha vissuto. Il linguaggio deve, così, esprimere fedelmente la misericordia di Dio realizzata nella storia umana di Gesù di Nazareth, duemila anni fa, nella Palestina dominata dai Romani, ma dev’essere anche compresa da quanti non appartengono al mondo in cui Gesù ha vissuto e da cui proviene l’evangelizzatore. Questo è il compito dell’evangelizzatore!

Questo sforzo non è solo impegno teologico – per la teologia ci vuole una media intelligenza, ma qui ci vuole l’intelligenza della fede e la teologia non basta… – ma continuazione della realtà stessa dell’incarnazione, intesa come volontà di includere tutti, di non escludere nessuno, evitando ogni scarto e cercando di superare ogni barriera e muro.

Il mondo che Marco ha dinanzi – gli uomini e le donne con cui entra in dialogo, la stessa comunità in cui vive – sono, per lui, opportunità e occasioni per il nuovo annuncio.

L’operazione “Vangelo” compiuta da Marco dice, in modo eloquente, una volta per sempre, come nella Chiesa vi sia spazio per tutti e come la Chiesa tenda la mano ad ogni uomo, agli uomini di ogni epoca – anche della nostra – e ci insegna pure come l’umanità di Gesù sia il veicolo privilegiato per aprirsi, nella fede, alla divinità non intesa come astrazione ma come il Volto misericordioso del Padre che ci accoglie nel perdono.

Il centurione, infine, giunge alla fede per il tramite dell’umanità di Cristo e proprio nel momento della sua morte esclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

Marco si rivolge dunque, col suo Vangelo, a quelli che non appartenevano al mondo ebraico; va incontro a tutti, non esclude nessuno. La sua parola non discrimina e non scarta ma, piuttosto, vuole tutti includere.

Vengono alla mente le parole di Papa Francesco sulla perenne giovinezza e universalità del Vangelo che sembrano ribadire – a duemila anni di distanza – la scelta di Marco.

“Un annuncio rinnovato – così si esprime il Santo Padre – offre (…) nuova gioia nella fede e fecondità evangelizzatrice… il suo centro e la sua essenza è sempre lo stesso: il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto. Egli rende i suoi fedeli sempre nuovi (…) riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31). Cristo  – continua Francesco – è il «Vangelo eterno» (Ap 14,6), ed è «lo stesso ieri e oggi e per sempre» (Eb 13,8), ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità. La Chiesa non cessa di stupirsi per «la profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio» (Rm 11,33)” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 11).

Anche noi, oggi, sull’esempio dell’evangelista Marco, siamo chiamati – come insegna il Papa – a parlare agli uomini privilegiando l’umanità di Gesù Cristo. Non abbiamo più di fronte il mondo pagano del I secolo ma la nostra epoca con le sue povertà, le sue opportunità, le sue fragilità e le sue risorse.

Ad esempio si può oggi dire ai giovani: se non sei collegato con Gesù a causa del tuo peccato – che può prendere la forma dell’egoismo, del bullismo, della banalizzazione della vita affettiva oppure di una vita che esclude i tuoi familiari o chi non ti aggrada – è come quando tu non hai campo e non riesci a collegarti e in tali situazioni provi cos’è la solitudine e l’isolamento… Ecco, questo è un modo di evangelizzare stando in mezzo alla gente e immerso nel nostro tempo, sempre in fedeltà a Gesù Cristo e al suo Vangelo di sempre.

Tutto avviene, ovviamente, cercando un linguaggio autentico, concreto e semplice che sia capace di comunicare senza “ridurre” Dio e il suo mistero alla nostra misura umana, senza costruirci un idolo, senza impossessarsi del mistero della nostra salvezza, senza rivestire tutto dei nostri logori abiti umani. Certo, tutto deve essere sempre in sintonia con l’uomo d’oggi, con le sue ferite, con le sue attese e con le sue domande, anche non espresse (sono quelle che costituiscono i veri problemi delle persone e soprattutto degli adolescenti… pensiamo all’educazione che non è un dettare delle norme, ma un’empatia e, come diceva Don Bosco, un “fatto di cuore”) affinché la Chiesa raggiunga tutti gli uomini e le donne disponibili all’ascolto.

Così la Parola di speranza, che il discepolo di Gesù è chiamato a dire, muove dall’umano ma – va ribadito – lo supera, trasfigurandolo per far propria la cifra che l’uomo porta in sé, ossia l’immagine e la somiglianza di Dio.

L’evangelista Marco ci presenta Gesù come uomo concreto, reale e profondamente sensibile. Il Gesù del Vangelo di Marco non ricerca fama e notorietà; piuttosto, vuole instaurare rapporti umani veri e autentici con tutti. Marco evangelizza la comunità e la conduce alla fede in Dio, Padre misericordioso, proprio a partire dalla concretissima umanità di Cristo.

Nel suo Vangelo, il figlio prediletto dell’apostolo Pietro ci presenta Gesù come il “Figlio amato” (cfr. Mc 1,11) e come “il Cristo” (Mc 8,29), ma è nell’atto umanissimo del morire di Gesù che ci fa toccare con mano la fede, perché è proprio lì che il centurione esclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).

San Marco – il nostro evangelista, il protettore della Chiesa di Venezia e delle genti venete – conduca anche noi, oggi, alla riscoperta del vero volto di Gesù figlio di Dio, rivelatore del volto misericordioso del Padre.

A tutti, carissimi fratelli e sorelle, auguro una buona solennità di san Marco e, in modo particolare, a quanti ne portano il nome.

 

 

 

Al termine dell’omelia il Patriarca ha, quindi, aggiunto:

 

Saluto e porgo gli auguri di buon onomastico a Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Marcus Stock, Vescovo di Leeds in Gran Bretagna, che ha concelebrato questa Santa Messa; a lui assicuriamo il ricordo nella preghiera affidandolo al Santo Evangelista Marco.

Voglio ricordare in modo particolare il mio predecessore, il card. Marco Cè. Portava il nome di Marco, portava nel suo sacerdozio episcopale il carisma dell’evangelizzatore. Vi invito sin d’ora il 12 maggio p.v. alle ore 18.00, in questa basilica, per uno speciale ricordo del card. Cè – e la presentazione di un libro che raccoglie alcune sue meditazioni – che culminerà con la celebrazione eucaristica. Invito soprattutto i confratelli a diffondere la notizia.

Un ringraziamento va anche a Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Loris Francesco Capovilla che, in questi giorni, mi ha inviato un messaggio in occasione della Solennità del Santo Patrono.

Vi leggo quello che mi ha scritto: “Bergamo, 19 aprile 2016. Beatitudine, con i miei fratelli e sorelle di Venezia anzitutto con “Sua Beatitudine, il patriarca Francesco Moraglia, anch’io celebro San Marco ‘evangelista meus’. Col cuore, la preghiera e la speranza mi trovo in Piazza San Marco e mi esalto al suono delle campane e allo sventolio degli stendardi. Bacio la soglia della Basilica d’oro. È il ricordo di Venezia m’è sempre caro, ed infatti in occasione della Pasqua appena trascorsa ho pubblicato come semplice biglietto di auguri per gli amici e conoscenti, l’omelia del Patriarca Angelo Giuseppe Roncalli del primo aprile 1956, riguardante San Lorenzo Giustiniani (è il primo patriarca di Venezia). Questo testo dà la cifra di quanto il futuro Giovanni XXIII avesse nell’animo la sua Venezia conoscendola nel profondo non solo per la topografia  e la storia ma anche e soprattutto per gli uomini che l’hanno resa grande in tutto il mondo. Tutti abbraccio e tutti benedico. + Loris Francesco Capovilla”.