Omelia del Patriarca durante la S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore (Venezia, Basilica del Santissimo Redentore - 17 luglio 2016)
17-07-2016

S. Messa nella solennità del Santissimo Redentore

(Venezia, Basilica del Santissimo Redentore – 17 luglio 2016)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

Fratelli e sorelle, cari confratelli nel sacerdozio, distinte autorità,

il Signore doni a ciascuno di noi – soprattutto in questi giorni, così difficili e insanguinati – la sapienza del cuore affinché la nostra vita sia realmente rinnovata e partecipe della misericordia del Redentore.

Ringrazio per l’accoglienza la collaborazione pastorale della Giudecca, il parroco p. Luciano insieme a p. Nilo, p. Fabio, p. Oswald e il nascente “cenacolo” frutto di un cammino di comunione fra i differenti Consigli pastorali. Grazie per quello che fate.

La nostra preghiera è oggi per tutte le vittime del terrorismo e, in primis, per i bambini della strage di giovedì sera a Nizza e per i loro familiari. Di fronte a un gesto così terribile di odio ci sentiamo sgomenti e invochiamo la grazia della conversione e il ritorno a un senso di vera umanità.

Chiediamo – nell’Anno della Misericordia – d’esser comunità costruttrici di ponti; non ci si illuda di servire il Vangelo e i poveri guardando solo alle proprie opere e iniziative e, di fatto, non consentendo ad altri di compiere gesti non meno necessari di solidarietà e carità. La carità evangelica ha la sua etica, che consiste anche nel permettere ad altri di compiere attività caritative-solidali.

Il dialogo tra Gesù e Nicodemo, che abbiamo appena ascoltato, ci rivela il modo in cui Dio si rapporta a noi uomini: “Dio… ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio… non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17).

Il criterio di Dio è semplice: amare anche chi non è amabile, accogliere ogni uomo com’è, non di rado impaurito e ferito, talvolta arrogante e presuntuoso, reticente, ambiguo, verboso e sgusciante. Il dono di Dio però riguarda, anzitutto, la vita eterna; Dio si china su ciascuno di noi nel breve tempo della nostra vita terrena segnandoci per l’eternità. Le opere di misericordia corporali e spirituali formano un’unità; sono distinte, non separate.

È nella croce di Cristo che troviamo la logica di Dio. La misericordia di Dio, infatti, non è un “imparaticcio” umano; si manifesta nel Crocifisso, Colui che “vince soccombendo”. Di fronte a Pilato, che non si interessava della verità, Cristo tace con una durezza impressionante… Sì, il Crocifisso “vince soccombendo”, anche quando viene colpito, sfregiato e profanato come è avvenuto pochi giorni fa in una chiesa veneziana.

Scagliarsi contro il Crocifisso, Colui che il cristiano ha di più caro, significa profanare quegli stessi valori che proprio il Crocifisso, al di là del suo significato religioso – che sempre rimane – ha originato nella nostra cultura e ancora oggi tiene desti nella nostra società: l’accoglienza, il perdono, la riconciliazione, la misericordia.

Per questo, certi tristi episodi – al di là della persona e delle motivazioni che l’hanno accompagnato – vanno vagliati con attenzione ed è opportuno che sia tutta la società a prenderne le distanze, a cominciare dalle comunità religiose, perché non manchi mai il rispetto e il riconoscimento reciproco. Ringrazio il rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout per la vicinanza espressa anche pubblicamente.

Se Dio ragionasse come noi – con la logica del “do affinché tu dia” e, quindi, a partire dalla equiparazione tra diritti e doveri – allora per noi uomini ci sarebbe solo una possibilità: la condanna. Meno male che Dio non agisce così! Dio, invece, dà a tutti la possibilità di salvarsi.

Il battesimo è il gesto di chi gratuitamente tende la mano. La fede che salva non è solo cammino umano; è dono di Dio che precede, sostiene e accompagna. All’inizio di tutto c’è la misericordia del Padre che si traduce nel disegno originale di dare il proprio Figlio Unigenito al mondo come Primogenito di una moltitudine di fratelli; questa è la misericordia del Padre. In vista di Cristo, in Cristo e per mezzo di Cristo, il Padre – per vie a noi ignote – sta scrivendo, anche in questo momento, la storia della salvezza.

La risurrezione non riguarda solo ciò che avverrà dopo la morte, ma è il compimento reale della vita presente; l’ultima parola sulla mia vita non è detta dagli uomini, ma da Dio. Una fede, poi, che non sa dare le ragioni della propria speranza perde il senso non solo di ciò che verrà dopo la morte ma già della stessa vita terrena. Riflettiamo su questo punto.

La misericordia di Dio e il suo chinarsi su di noi ci insegnano come dobbiamo a nostra volta tendere la mano al prossimo. Nella bolla d’indizione dell’Anno giubilare, c’è chiesto di riscoprire le opere di misericordia corporale e spirituale: “Sarà – scrive Francesco – un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita… e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli“ (Papa Francesco, Bolla di indizione del Giubileo straordinario Misericordiae vultus, n.15).

Cosa vuol dire, allora, incarnare il Vangelo dinanzi alle urgenze di oggi, al fenomeno dei migranti e dei rifugiati con le loro storie di dolore e morte? Sappiamo anche – lo abbiamo appreso con orrore – che fra questi disperati c’è pure chi sarà ucciso perché non riuscirà a pagare il viaggio e, poi, i suoi organi espiantati verranno venduti.

Il flusso imponente di migranti ha trovato ieri e oggi una politica gravemente  impreparata che deve essere messa dinanzi alle proprie responsabilità. Dall’Onu all’Europa e ai governi nazionali, le responsabilità politiche sono diffuse. Non si può scaricare tutto sull’ultimo anello della politica, quello più a contatto con i cittadini: il territorio. Siamo grati a chi fa il possibile e l’impossibile in questa situazione, a contatto diretto con il territorio.

Il Papa chiede di non chiudere gli occhi di fronte a tale situazione; siamo chiamati in causa in quanto cittadini e credenti. Tutto ciò domanda una visione umana e cristiana delle cose che non si lasci rinchiudere in una polemica fine a se stessa (se non a un po’ di notorietà, a cui sarebbe bene rinunciare…) o in un generico buonismo; l’Onu e gli Stati europei tutti (e non solo alcuni) devono farsi carico di tale situazione.

Papa Francesco insiste dicendo come la politica, le scelte economiche e le  strategie finanziarie siano risultato di decisioni che nascono dal cuore dell’uomo che sempre ha bisogno di conversione e d’essere sensibilizzato a una giustizia misericordiosa, nella certezza che senza misericordia non si raggiungerà mai la giustizia perché l’uomo è fatto anche di tanta fragilità. La coscienza formata e informata è la grande risorsa del cittadino quando si trova di fronte a leggi ingiuste.

Il rischio è somigliare al servo del Vangelo che, sgravato di un ingente debito, si rifiuta di condonarne uno piccolo ad un suo collega: “Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito” (Mt 18, 27-30).

Una politica che non è in grado di prevedere e governare, almeno in parte, l’esodo di milioni di uomini in fuga da condizioni di “non-vita” lascia perplessi; in ogni modo, nessuno può far finta di non vedere quanto sta accadendo.

Allora dobbiamo far nostro il motto di don Lorenzo Milani: “I care”, ossia mi interessa, mi sta a cuore. Nella scuola di Barbiana “I care” era il comune riferimento; in esso si dice apertura, accoglienza, coinvolgimento e responsabilizzazione. “I care” non è solo provocazione verbale o verbosità; è appello alla coscienza, perché non sia testimone muta di una tragedia. I primi decenni del ventunesimo secolo saranno ricordati come gli anni della migrazione di intere popolazioni da condizioni di vita impossibili.

La rete, le agenzie di stampa, i telegiornali ci aggiornano in tempo reale sui numeri degli sbarchi, dei morti, e parlano di cimitero nei fondali del canale di Sicilia. Certo, la questione è “politica”! Ma prima viene la coscienza che richiede risposte degne dell’uomo e del Vangelo. La storia – come per gli avvenimenti del XX secolo (due guerre mondiali, i campi di sterminio, i gulag) – domanderà cosa avrebbero potuto fare i Paesi in grado di dettare l’agenda politica agli altri; rispondere non sarà facile.

Il cristiano sa che Dio, Padre misericordioso, è il giudice della storia e ha a cuore l’orfano, la vedova, lo straniero. Con l’accoglienza il popolo italiano sta scrivendo una pagina di vera umanità e di cui andrà fiero; qui si danno i grandi valori cristiani e umani della sua storia. Bisogna poi, però, che a tragedia non si aggiunga tragedia e che tale situazione mai faccia venir meno il senso di umanità e pietà evangelica: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25, 35).

Ogni giorno vediamo immagini di salvataggi e annegamenti. I viaggi che noi diciamo “della speranza” – ma per chi li compie sono i viaggi “della disperazione” – sono l’ultima carta nel tragico poker della vita di uomini, donne e bambini di serie B. Un’ultima carta che si gioca tra ostilità, cinismo, indifferenza, talvolta razzismo, nella speranza d’incontrare – come dice Papa Francesco – costruttori di ponti e non di muri.

Questa seconda tragedia – ossia che venga meno in noi il senso dell’umanità e della pietà cristiana – non è da sottovalutare perché riguarda la nostra coscienza e, quando si parla di coscienza, la posta in gioco è sempre alta perché ne va dell’uomo. Il rischio è considerare abituale che migliaia di persone muoiano; alla fine ciò sarà  “normale” e così si sarà spento tutto l’umano e il cristiano che è in noi, senza averne neanche coscienza. E l’Europa sarà più povera di umanità e ancora più attenta alla finanza e ai parametri economici.

Viviamo l’epoca della comunicazione: in continuazione noi metabolizziamo immagini disumane quasi facessero parte di una delle tante fiction televisive mentre, invece, riproducono la triste realtà. Queste immagini sono precedute e seguite in modo abituale da altre che sponsorizzano il lusso e il consumo fine a se stesso, la bellezza proposta come valore assoluto e fine da perseguire a ogni costo. Ma in tal modo, anche non volendolo, si finisce per banalizzare una tale tragedia. Tra uno spot e l’altro un barcone di persone annegate… Il messaggio è che ciò sia qualcosa di “inevitabile” e “normale”.

Da una parte un’umanità garantita, riparata, benestante, la nostra; dall’altra popoli in balia di radicali mutamenti climatici – intere zone sono soggette a rapida desertificazione -, oppure di disumani regimi dittatoriali, di guerre alimentate dal commercio delle armi, di mafie, scafisti e trafficanti d’organi senza scrupoli. L’idea, alla fine, è che non si possa far nulla e che tutto questo sia ineluttabile.

Chiamarsi fuori – come detto – sarebbe una tragedia nella tragedia. Il rischio è oscurare il rispetto per l’uomo,  la vita umana e il valore della compassione. È come uccidere la nostra umanità; ecco perché il grido “I care”, oggi, è più che mai attuale. Questa tragedia riguarda ciascuno di noi, la nostra coscienza (troppe volte ottusa) di cittadini di un Occidente confuso e smarrito che sembra aver perso i valori fondamentali della persona per obbedire ciecamente a regie più o meno occulte.

L’Europa ha fallito quando non ha saputo porre la persona al centro e quando ha contribuito a decostruirla a livello culturale, legislativo, giuridico, smarrendone le dimensioni fondamentali, non perseguendo la sintesi virtuosa fra ciò che la persona è nel suo intimo e coerenti scelte culturali;  l’individualismo è stato posto a premessa di tutto, di ogni discorso sulla coscienza, sulla persona, sulla famiglia, sulla politica.

Il dramma dell’umanità è già contenuto nel libro della Genesi, quando Caino risponde: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Il Papa viene applaudito, ma sui temi fondamentali della sacralità della vita, l’ecologia umana e un’economia costruita sulla persona rimane solo; di volta in volta, si ritagliano le sue frasi che possono far comodo ma tutto ciò è scorretto. I grandi della terra – Onu, G7, Europa, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale – perseguono altre logiche. Così c’è una cultura che fatica a usare il pronome “noi” e che si ferma all’ ”io”. Ecco perché dobbiamo rispondere “I care”: mi sta a cuore, mi interessa.

In tempi d’emergenza il Vangelo ci chiede di non fermarci solo a logiche giuridico-politiche ma d’incontrare l’uomo reale; a chi ha fame si deve dare il cibo, a chi ha freddo il vestito. Così, se da una parte avvertiamo tutta la nostra debolezza, dall’altra percepiamo la grande risorsa che è la nostra coscienza, vero spazio di libertà in cui possiamo salvaguardare il nostro essere uomini, luogo dove si può progettare un futuro diverso. Solo una coscienza rinnovata genera nuove speranze.

“I care”: mi sta a cuore, mi interessa. L’uomo mi sta a cuore, mi interessa; viene prima degli equilibri finanziari, economici e politici dai quali non si può prescindere ma che dobbiamo ripensare a partire dalla persona.

Il Vangelo, oggi, ci impegna come uomini e come credenti. Riascoltiamolo: “Dio… ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  Dio… non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). Guardiamo al Redentore e chiediamoGli di lasciarci redimere per poter redimere.