Omelia del Patriarca durante la S. Messa nella Pasqua di Risurrezione del Signore (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 1 aprile 2018)
01-04-2018

S. Messa nella Pasqua di Risurrezione del Signore

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 1 aprile 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi fedeli,

“Cristo, mia speranza, è risorto!”. Questo è l’annuncio che la Chiesa fa il giorno di Pasqua e così l’ultima parola sugli uomini e sulla storia non è il lamento impotente di chi sa che tutto è destinato alla morte.

A Pasqua risuona un grido! È la gioia incontenibile che raggiunge tutti e, in particolare, chi è segnato dalle ferite, dalle sofferenze e dalle ingiustizie della vita.

“Cristo, mia speranza, è risorto!” è la buona notizia che può cambiare il nostro mondo che è sempre più vecchio, non solo anagraficamente; un mondo segnato da crescenti conflittualità e che – come ha detto il Santo Padre – rischia, senza accorgersene, di trovarsi dentro una guerra che si combatte a pezzi.

Francesco, nella celebrazione a Redipuglia, ricordando i morti della prima guerra mondiale, affermava: “Dopo aver contemplato la bellezza del paesaggio (…) dove uomini e donne lavorano portando avanti le loro famiglie, dove i bambini giocano e gli anziani sognano… trovo da dire soltanto: la guerra è una follia”. E poi aggiungeva: “…dopo il secondo fallimento di una guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’“ (Papa Francesco, Omelia nella S. Messa al Sacrario militare di Redipuglia in occasione del centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, 13 settembre 2014).

E noi, proprio oggi, giorno di Pasqua, vogliamo chiederci: dove inizia questa guerra che, continuamente, ritorna a divorare l’umanità? Fintanto che ci limiteremo a puntare il dito contro gli altri o a incolpare le istituzioni – dimenticando che sono gli uomini a costituirle – non potremo che limitarci a constatare la nostra impotenza nei confronti del male.

È il peccato che ci pone contro Dio ma, non meno, contro noi stessi e gli altri, perché è il peccato la radice di ogni divisione; anzi, è la stessa divisione e consiste nel tracciare un percorso fuori del progetto di Dio.

Abbiamo, così, un’umanità impotente che – sempre e di nuovo – è incapace di sollevarsi e ricomporsi nella giustizia, presupposto e condizione della pace.

Dio in Gesù, suo figlio, ci indica la via maestra che conduce alla pace. Invece, spesso, gli accordi di pace fra gli uomini sono premessa di una nuova conflittualità ancora più sanguinosa della precedente; la seconda guerra mondiale – non dimentichiamolo – fu anche l’esito di una pace costruita sulle logiche dell’uomo vecchio, ossia la rivalsa, l’umiliazione dell’avversario e la vendetta.

Se questo Vangelo – che il mattino di duemila anni fu proclamato per la prima volta – non entra nel cuore degli uomini col suo messaggio di novità che è il perdono, l’accoglienza degli altri, allora gli uomini rimarranno sempre prigionieri del loro io e saranno impegnati soltanto a rivendicare le proprie pretese, pensando che l’ascolto e l’accoglienza dell’altro ostacoli l’affermazione di sé e che il perdono sia solo debolezza.

A Pasqua, invece, si frantuma – con la pietra del sepolcro – tale logica e si è chiamati a prender commiato da questo modo vecchio di stare nella storia. Il Risorto, infatti, annuncia un mondo che si costruisce sul perdono, l’ascolto dell’altro e le opere di misericordia spirituali e materiali.

L’intento è semplice: vivere l’imitatio Christi, vivere la croce che è la forma piena dell’amore che si apre a tutti, nessuno esclude e tutti accoglie sull’esempio di Gesù. La croce è il perdono di Dio agli uomini, un perdono dato anche a coloro che sembrano rifiutarlo; così la Pasqua inaugura e immette nuove possibilità nella storia e si propone come germe di novità, di riconciliazione e apertura di credito per un’umanità che vuole – ma da sola non può – uscire dalla logica vecchia, ripetitiva e inconcludente del peccato.

Il Vangelo di Marco, appena proclamato, ci riporta ai primi concitati momenti in cui le donne, giunte al sepolcro, lo trovano vuoto e con la pietra rimossa. La risurrezione è l’evento che cambierà totalmente la vita di quegli uomini e donne che avevano incontrato Gesù.

La Pasqua è data ai discepoli che sempre e di nuovo devono essere – anche oggi – soggetti in cui si vive, testimonia e annuncia la risurrezione come inizio di nuove relazioni fra gli uomini.

La fede nella risurrezione non è stata mai l’idea peregrina di qualche discepolo o l’opinione di qualche apostolo; al contrario, dalla vita e dalle testimonianze dalle primitive comunità cristiane, ricaviamo che la fede pasquale fu il distintivo della Chiesa dal suo inizio: i cristiani sono coloro che confessano Gesù crocifisso e risorto. Fin dall’inizio non si è dato un altro cristianesimo.

La pericope di Marco 16, 1-8 – che è stata proclamata dal diacono – va letta unitamente a quella di Giovanni 20, 1-18. I due testi si possono riunire sotto la comune dicitura: i fatti accaduti al sepolcro.

I due evangelisti raccolgono la comune e antica tradizione che narra come la scoperta della tomba vuota fu opera delle donne, qui nominate una a una: Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome. D’altra parte, come viene annotato, la sera della vigilia del sabato proprio queste donne avevano osservato con attenzione il posto esatto ove Gesù veniva sepolto.

Sappiamo, inoltre, che era uso – presso gli ebrei – che le donne visitassero le tombe; così la notizia delle donne che si recano al sepolcro di Gesù, di buon mattino, è attendibile secondo la prassi del tempo.

Sostenere che la tomba fu trovata vuota poiché gli apostoli trafugarono il cadavere – diceria ripresa anche in seguito – non considera quale fu il reale stato d’animo dei discepoli durante la passione.

I fatti sono, purtroppo, noti: uno dei Dodici tradì, un altro rinnegò, tutti – eccetto il più giovane – fuggirono. E questo dice la loro mancanza di coraggio quando Gesù era vivo, figuriamoci quale doveva essere il loro stato d’animo una volta che avevano visto la sconfitta di Gesù morto…

Dai Vangeli, poi, la risurrezione risulta evento che s’impone dall’esterno, tanto per le donne quanto per i discepoli, nonostante la reazione iniziale che dice la loro difficoltà ad accettare l’improbabile o, meglio, impossibile novità; ricordiamo le parole dell’incredulo Tommaso (cfr. Gv 20, 24-25).

Le donne – e, dopo di loro, i discepoli – di fronte al sepolcro vuoto e alla pietra ribaltata manifestano tutta la loro impreparazione, incapacità, inadeguatezza nonostante quello che Gesù aveva sempre detto loro sulla risurrezione.

La reazione delle donne, una volta giunte al luogo della sepoltura, non lascia dubbi. Erano andate alla tomba dopo aver comprato gli oli aromatici e, quindi, per imbalsamare il cadavere di Gesù. Si trovano, invece, innanzi ad una realtà che le sorprende, le spaventa e le porta a fuggire precipitosamente.

Dal testo di Marco risulta sia lo stato d’animo sia le aspettative delle donne mentre camminavano verso il sepolcro e si chiedevano: “«Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura” (Mc 16, 3-5).

Nonostante le rassicurazioni che ricevono la loro reazione esprime tutto il loro sconcerto, tanto che non vedono neppure ciò che sta loro dinanzi e che era quanto Gesù aveva più volte annunciato: il terzo giorno risusciterò!

“…[il giovane] disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”». Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite” (Mc 16, 6- 8).

Qui, al sepolcro, si ripropone una costante della rivelazione biblica circa il rapporto Dio-uomo: Dio eccede infinitamente l’uomo e verrebbe meno se lo incontrasse direttamente, rimarrebbe annichilito. Ricordiamo la vicenda di Mosè (Es 33, 17-23) ed Elia (1Re 19, 11-13); così si comprende la presenza divina – il Risorto – che si manifesta attraverso l’angelo – intermediario fra Dio e l’uomo – ma, nonostante ciò, vi è la fuga precipitosa delle donne spaventate.

In un tempo, come il nostro, in cui le donne sono oggetto di brutale e sistematica violenza, desidero sottolineare il modo con cui esse hanno saputo accompagnare e stare vicine a Gesù, più e meglio degli uomini, soprattutto nel momento in cui anche gli amici più intimi – discepoli e apostoli – lo abbandonarono.

Gli apostoli scelsero la strada facile della debolezza: la fuga. Le donne no, rimasero fedeli fino alla fine e così le troviamo ai piedi della croce con la Vergine Madre. Loro, le donne, non gli uomini, furono coraggiose nel rimanergli al fianco, non lo lasciarono lungo il cammino arduo della passione e, numerose, lo seguirono fino alla croce. Non stupisce, allora, che Gesù le volle prime testimoni della Pasqua, “apostole” degli apostoli.

La vicenda più intima di Cristo – la sua morte e risurrezione – mette in evidenza, senza forzatura, la grandezza della donna. La nostra società, la nostra cultura e anche la Chiesa devono lasciarsi plasmare dal genio femminile per scoprirsi più ricche di vera umanità e del senso di Dio.