Omelia del Patriarca durante la S. Messa nella Commemorazione dei fedeli defunti al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2019)
02-11-2019

Commemorazione dei fedeli defunti

S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Saluto i confratelli presenti e i fedeli e, in modo particolare, ringrazio le autorità per la loro presenza.

Vorrei con voi riflettere a voce alta su questa giornata del 2 novembre: è una giornata importante per chi vive, è antropologicamente importante perché ci mette di fronte ad una realtà certa che condivideremo con tutti e che ci attende prima o poi. Il 2 novembre è una giornata certamente cristiana, ma è in ogni caso una giornata in cui ogni uomo è invitato a ripensare la propria vita.

Chi sono io, allora, che ho la sensazione di dominare tutto e tutti e che un giorno verrò meno? Rimarrò vivo per un po’ di tempo nel ricordo di chi mi ha voluto bene… La domanda sulla morte è la domanda più umana che un uomo ed una donna possano rivolgere a se stessi. C’è chi sa tutto ad esempio dei computer, altri sanno tutto della storia, altri conoscono le lingue straniere ma saltiamo spesso quella che, invece, è la domanda più umana che noi dobbiamo porci: che senso ha la vita che, ad un certo punto, viene meno?

La risposta cristiana non coincide con un capitolo della fede cristiana, ma con l’inizio della fede cristiana che comincia la mattina di quel giorno successivo al sabato in cui Gesù Risorto incontra i suoi.

Per il cristiano la risposta è molto complessa perché una vita che fosse fine a se stessa può essere anche una vita di godimenti, di piaceri, di distrazioni; il cristiano sa, invece, che dovrà rendere conto a Dio di tutto quello che ha fatto, di tutto quello che non ha fatto, di tutto quello che poteva fare, dei silenzi colpevoli, delle parole che hanno aiutato a confondere le idee oppure a mentire o a dire cose che potevano anche non dirsi per non offendere qualcuno.

Abbiamo ascoltato dal Vangelo, proclamato dal diacono, che per un cristiano anche l’atto più umano e più semplice ha una valenza cristologica (cfr. Mt 25, 31-46). Per il cristiano non si scappa da Gesù Cristo, ecco perché saremo giudicati da Lui e il giudizio sarà prettamente cristologico perché ci giudicherà proprio Lui, ci interrogherà su cosa abbiamo fatto per gli altri e ci consegnerà il giudizio vero sulla nostra vita.

Il Vangelo secondo Matteo ci dice che tra il tempo della nostra vita e l’eternità, il dopo morte, c’è una continuità strettissima. Io mi sono sempre chiesto come una filosofia come il marxismo – che andava ancora di moda quando ero ragazzo, adesso non più… – abbia potuto dire che la religione aliena l’uomo. Il Vangelo di oggi, che abbiamo appena letto, ci viene da dire se non vivi bene e non ti dai fare e se non ti impegni, la tua eternità è compromessa. Il marxismo, invece, è arrivato a dire che la religione è l’oppio dei popoli e che ci parla di un futuro per consolarci di un presente. Ma, allora, non abbiamo capito niente del Vangelo o forse abbiamo strumentalizzato il Vangelo. Sì, perché anche il Vangelo può essere strumentalizzato in quanto – come tutte le proposte di Dio all’uomo – interpella la libertà. E, proprio perché il Vangelo è un libro che ci vuole liberi, può essere strumentalizzato più di altri libri.

Il cristiano sa che il suo futuro dipende in toto e radicalmente dall’oggi che sta vivendo; l’aldilà, quindi, l’aldilà mi aiuta a dare un senso ed a vivere meglio qui e a non prendere le distanze dal momento presente che sto vivendo. Essere cristiani vuol dire vivere il momento presente dandogli un significato eterno; il momento presente vale cento, mille, un milione di volte di più rispetto a chi non ha una visione eterna delle cose.

Il cristiano, allora, dovrebbe scrivere di suo pugno – magari facendo a meno del computer una volta tanto – su due colonne le opere di misericordia spirituali e quelle corporali per poi appendersele alla parete della camera di fronte alla quale più spesso la sua vista impatta. Se le leggessimo alla sera prima di addormentarci, forse la mattina dopo guarderemmo le cose  con occhi diversi.

L’atto di carità grande che noi possiamo fare per i nostri defunti è poi quello della preghiera del suffragio e di indulgenza. Per i vivi l’indulgenza non è un adempimento meccanico di due o tre cose da fare. L’indulgenza plenaria ha la forza di liberare addirittura un’anima dal purgatorio perché è un atto di amore che inizia nel modo più radicale e cioè convertendosi; una persona che ama senza convertirsi finirà per amare sempre se stesso e non gli altri.

L’indulgenza plenaria non richiede soltanto la confessione e la visita del cimitero, non è solo qualche preghiera da recitare (Padre nostro, Credo e qualche orazione in aggiunta secondo le intenzioni del Santo Padre) ma richiede soprattutto un atto che solo Dio sa se noi lo stiamo compiendo: la volontà di staccarci dal male.

Le opere di misericordia spirituali e corporali ci aiutino a preparare l’indulgenza plenaria che è il dono più grande che possiamo fare alle persone che ci amano e ci continuano ad amare, che ci hanno dato la vita, ci hanno educato, ci hanno accompagnato e ci hanno reso la vita gradevole. E preghiamo anche per quelli che, magari, ci hanno reso la vita un pochino più aspra e più amara. Tutto concorre al bene, ci ricorda san Paolo, di coloro che amano Dio.

Ancora una parola, infine, che mi viene spontanea vedendo le divise che sono oggi qui presenti: queste divise ci ricordano che si può anche morire non per un fatto personale ma dando la vita in contrasto al crimine; si può dare la vita perché ci si trova coinvolti e chi ha dato la vita per qualcosa a cui non era strettamente tenuto merita un grande rispetto civico.